Sentenza n. 336/2000

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SENTENZA N. 336

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI   

- Cesare RUPERTO  

- Riccardo CHIEPPA  

- Valerio ONIDA  

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI  

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI  

- Annibale MARINI  

- Franco BILE   

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, della legge 2 marzo 1949, n. 143 (Tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti), promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1998 dal Tribunale di Potenza nel procedimento civile fra Nigro Francesco Paolo e Cicala Giuseppe e altra, iscritta al n. 332 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2000 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

 1. — Un ingegnere libero professionista conveniva in giudizio due clienti, asserendo che costoro, dopo avergli conferito l'incarico di redigere il progetto di un fabbricato, da realizzare su un fondo venduto dallo stesso ingegnere ai committenti, recedevano dal contratto, affidando la progettazione e la direzione dei lavori ad altro professionista. L’attore chiedeva pertanto che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni subìti per effetto dell’anticipato recesso.

 Trattenuta la causa in decisione, il Tribunale adìto ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, della legge 2 marzo 1949, n. 143 (Tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti), nella parte in cui prevede che, nell’ipotesi di recesso del cliente dal rapporto di opera intellettuale, rimane salvo il diritto del professionista, ingegnere o architetto, al risarcimento degli eventuali maggiori danni, quando la sospensione non sia dovuta a cause dipendenti dal professionista stesso.

 2. — Il giudice a quo premette che la domanda proposta dall’attore ha a oggetto, fra l’altro, il risarcimento del danno patrimoniale consistente nel mancato guadagno che gli sarebbe derivato dall’esecuzione della progettazione e della direzione dei lavori del costruendo fabbricato. Tale danno nascerebbe dall’inadempimento dell’obbligazione assunta dai convenuti sia con il compromesso, sia con l’atto pubblico di vendita.

 Secondo il Collegio, la normativa applicabile alla vicenda in esame sarebbe costituita dall’art. 10 della legge n. 143 del 1949, che disciplina gli effetti della “sospensione per qualsiasi motivo dell’incarico dato al professionista”. In questi casi, il committente avrebbe l’obbligo “di corrispondere l’onorario relativo al lavoro fatto e predisposto”, come precisato dall’art. 18 della stessa legge, “salvo il diritto del professionista al risarcimento degli eventuali maggiori danni, quando la sospensione non sia dovuta a causa dipendente dal professionista stesso”. La norma ora citata si configurerebbe, dunque, come una deroga ai princìpi generali dettati dall’art. 2237 del codice civile, giacché - pur lasciando al cliente la facoltà di recedere in qualsiasi momento dal contratto - porrebbe a suo carico sia un’obbligazione indennitaria ex lege, con previsione d’un aumento automatico del compenso per il professionista nella misura del 25 per cento, sia una vera e propria obbligazione risarcitoria.

 Il Tribunale dà conto che una questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge n. 143, con riferimento alla maggiorazione del compenso spettante in caso di recesso, è già stata dichiarata non fondata da questa Corte, ma soggiunge che quella decisione non avrebbe toccato il problema del diritto del professionista al risarcimento dei maggiori danni, almeno nell’ipotesi in cui la sospensione dell’incarico non sia dovuta a cause dipendenti dal suo comportamento (art. 10, secondo comma, della legge n. 143 del 1949). Il cliente può infatti recedere dal contratto in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, ai sensi dell’art. 2237 del codice civile, lasciando indenne il prestatore d’opera e consentendo il pagamento delle spese per l’opera svolta, ma con esclusione di ogni diritto al risarcimento del danno. Un tale diritto presupporrebbe un atto illecito; mentre il recesso del cliente costituirebbe semplicemente una conseguenza del venir meno della fiducia riposta nel professionista. Di conseguenza, prosegue il rimettente, l’art. 2237 parrebbe escludere in radice che il recesso unilaterale del cliente possa di per sé solo giustificare la pretesa risarcitoria del professionista. Al contrario, in difformità dal regime codicistico, la legge sulla tariffa degli ingegneri e degli architetti prevederebbe il diritto del professionista al risarcimento dei danni, determinando un’ingiustificata posizione di privilegio per costoro rispetto alle altre categorie professionali: così privilegiando, con lesione del principio di eguaglianza, una categoria professionale in danno delle altre. Né potrebbe parlarsi d’una mera integrazione della regola generale di cui all’art. 2237 del codice civile.

 3. — E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione osservando, da un lato, che il rimettente nulla dice in ordine alla concreta configurabilità, nel caso di specie, di danni risarcibili; dall’altro, che anche ad ammettere l’esistenza di una disciplina di favore per gli ingegneri e gli architetti, rispetto agli altri professionisti, questa sarebbe prevista dal primo, e non dal secondo comma dell’art. 10 della legge n. 143 del 1949, poiché è il primo comma che, attraverso il rinvio al successivo art. 18, consente la maggiorazione degli onorari del 25 per cento. Comunque, ha concluso l’Avvocatura, l’asserito privilegio sarebbe già stato ritenuto conforme a Costituzione dalle sentenze nn. 109 del 1987 e 192 del 1984 di questa Corte, le cui motivazioni potrebbero “valere [...] a giustificare le particolarità previste nella tariffa degli ingegneri e architetti anche se il disposto del secondo comma dell’art. 10 potesse qualificarsi come privilegio della categoria”.

Considerato in diritto

 1. — E’ all’esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, della legge 2 marzo 1949, n. 143, nella parte in cui prevede che, nell’ipotesi di recesso del cliente dal rapporto di opera intellettuale, rimane salvo il diritto del professionista, ingegnere o architetto, al risarcimento degli eventuali maggiori danni quando la “sospensione” non sia dovuta a cause dipendenti dal professionista stesso. Questa disciplina, ad avviso del rimettente, determinerebbe un’ingiustificata posizione di privilegio per gli ingegneri e gli architetti rispetto alle altre categorie professionali, in quanto solo ai primi sarebbe consentito il cumulo del risarcimento dei danni e dell’aumento automatico del compenso nella misura del 25 per cento.

 2. — Vanno innanzitutto disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura.

 Per quanto attiene all’asserito difetto di rilevanza, il Tribunale di Potenza ha correttamente rappresentato che nel giudizio a quo la domanda aveva a oggetto il risarcimento del danno causato dalla revoca dell’incarico professionale: tanto basta perché la questione si possa ritenere rilevante, non essendo necessario che il giudice rimettente anticipi il proprio giudizio circa la concreta esistenza, nella specie, di un danno risarcibile, poiché tale questione è logicamente successiva alla individuazione della norma che disciplina la domanda. Per quanto attiene, poi, alla seconda eccezione preliminare, con riguardo alla erronea individuazione della norma da censurare, si osserva che nel caso di specie il Tribunale fonda il dubbio di legittimità costituzionale sul rilievo che soltanto agli architetti e ingegneri, e non agli altri professionisti, la legge consentirebbe di ottenere il risarcimento del danno anche nell’ipotesi di incolpevole recesso del committente. Rettamente, dunque, si individua la norma censurata nell’art. 10, secondo comma, della citata legge n. 143, ove si prevede (sia pure mediante richiamo al successivo art. 18) il diritto al risarcimento del danno nell’ipotesi di recesso del committente.

 3. — Nel merito, la questione non è fondata.

 Il rimettente mostra di ritenere che, nel caso di recesso del committente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale stipulato con un architetto o un ingegnere, quest’ultimo possa pretendere sia la maggiorazione, nella misura del 25 per cento, del compenso per l’opera svolta, sia il risarcimento integrale del danno (rispettivamente ai sensi dell’art. 18 e dell’art. 10, secondo comma, della legge in esame). In tal modo si permetterebbe ad architetti e ingegneri, unici tra i professionisti, di cumulare il risarcimento del danno da inadempimento con una indennità dovuta per legge.

 Questa lettura della norma non è, tuttavia, l’unica consentita.

 Si deve innanzitutto escludere che la maggiorazione del 25 per cento dei compensi, prevista dal combinato disposto degli artt. 10 e 18 della citata legge n. 143 del 1949 nell’ipotesi di “sospensione” dell’incarico (ma il lemma è interpretato dalla costante giurisprudenza in senso ampio, comprensivo anche della revoca vera e propria), costituisca una forma forfetaria di risarcimento del danno. Come già ritenuto da questa Corte (sentenza n. 192 del 1984), la suddetta maggiorazione è vòlta sia a compensare l’ingegnere o architetto per l’impossibilità di realizzare il proprio interesse alla fedele esecuzione del progetto predisposto; sia a tener conto della circostanza che il lavoro dell’ingegnere o architetto racchiude un’utilità potenziale, suscettibile di essere apprezzata soltanto nei successivi stadi di realizzazione dell’opera. Sì che è da escludere che l’indennità di cui agli artt. 10 e 18 della legge n. 143 e il risarcimento del danno abbiano le medesime natura e finalità, e che il secondo costituisca una duplicazione della prima.

 4. — Si deve escludere, altresì, che il risarcimento del danno, nell’ipotesi prevista dall’art. 10, secondo comma, deroghi alle regole generali. Come ritenuto dalla Corte di cassazione, il professionista può, infatti, pretendere il risarcimento del danno soltanto deducendo, e provando, l’altrui colpevole condotta (sentenza n. 401 del 1985), e non sulla base del mero fatto dell’intervenuta revoca dell’incarico. A evitare, infine, il rischio di qualsiasi indebita locupletazione per il professionista vi è il principio - anch’esso affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza citata - secondo cui l’indennità prevista dall’art. 10, primo comma, resta assorbita nel risarcimento quando esso sia superiore.

 Da quanto esposto consegue che la maggiorazione del 25 per cento della tariffa in caso di revoca dell’incarico non è ingiustificata; che il risarcimento del danno non può essere liquidato in assenza di una condotta colpevole del committente; e che non è consentito il cumulo di indennità e risarcimento, ove questo sia maggiore. La disciplina di cui all’art. 10 della legge n. l43 del 1949 non è perciò difforme dalle regole generali, nella parte in cui vieta il risarcimento del danno incolpevolmente causato e il cumulo di indennizzo e risarcimento nell’ipotesi accennata; mentre anzi appare rispettosa della peculiarità delle prestazioni dovute a ingegneri e architetti, nella parte in cui prevede la maggiorazione del compenso, dovuta per legge, nel caso di revoca dell’incarico.

 La questione non è quindi da accogliere, perché non sussiste, nella specie, l’asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, della legge 2 marzo 1949, n. 143 (Tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Potenza, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 luglio 2000.