Ordinanza n. 329/2000

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ORDINANZA N. 329

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 16, comma 5, 20, comma 1 e 53, comma 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promossi con due ordinanze emesse il 6 luglio 1999 dalla Commissione tributaria regionale di Venezia sui ricorsi proposti dall’Ufficio delle imposte dirette di Verona, il primo contro la STADIO s.r.l., il secondo contro la STADIO s.r.l. in liquidazione, iscritte ai numeri 653 del registro ordinanze 1999 e 126 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1999 e n. 15, prima serie speciale dell’anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.  

Ritenuto che la Commissione tributaria regionale di Venezia, con ordinanza emessa il 6 luglio 1999, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), secondo cui, nel processo tributario, qualunque notificazione a mezzo del servizio postale «si considera fatta nella data della spedizione»;

che, ad avviso del rimettente, la norma in questione sarebbe del tutto estranea al sistema processuale civile e di conseguenza anche a quello tributario, che al primo fa rinvio per volontà del legislatore delegante, mentre si uniformerebbe alla disciplina dei ricorsi amministrativi, contenente identica regola;

che si verificherebbe, in tal modo, una irrazionale deviazione rispetto ad un comune principio di diritto processuale, quello secondo cui la notificazione a mezzo posta si considera perfezionata alla data di consegna del piego al destinatario, così da comportare un’ingiustificata disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 della Costituzione, «non solo rispetto alle parti del processo civile e di quello amministrativo, ma anche, all’interno del processo tributario, tra quanti richiedono la notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario - anche fidando nella maggiore competenza di questo - e quanti si avvalgono del servizio postale», in quanto solamente questi ultimi sarebbero «liberati dall’obbligo di curare che l’atto giunga a destinazione nel termine»;

che, a parere dello stesso giudice, la lamentata disparità di trattamento si tradurrebbe, altresì, in una minore certezza delle situazioni giuridiche oggetto del processo tributario, rispetto a quanto avviene nel processo civile od amministrativo;

che in questi, infatti, il potenziale destinatario di un atto giudiziale, da notificarsi in un termine perentorio (come appunto il vincitore in primo grado), trascorso quell’intervallo sarebbe immediatamente in grado di apprezzare se la situazione giuridica sostanziale sottesa si sia o meno consolidata; invece, nel processo tributario, alla scadenza del termine, tale sicurezza non si realizzerebbe, poiché tra il momento della spedizione dell’atto e quello del suo ricevimento può trascorrere un intervallo di tempo anche assai significativo e, comunque, indefinibile a priori, senza che all’interessato sia dato modo di conoscere se tale effetto si sia verificato;

che la norma impugnata contrasterebbe, infine, per le ragioni già dette, con il criterio direttivo dell’adeguamento della disciplina del processo tributario a quella del processo civile fissato dall’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per i reati tributari; istituzione dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale) e violerebbe, pertanto, l’art. 76 della Costituzione;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di infondatezza della questione;

che, ad avviso dell’Avvocatura, non potrebbe fondatamente ravvisarsi, in materia processuale, un principio generale in forza del quale la notifica si perfeziona con l’osservanza di tutte le formalità previste dalla legge, come del resto dimostrerebbero le disposizioni di cui agli artt. 140 del codice di procedura civile (pacificamente interpretata nel senso che la notificazione è perfezionata alla data di spedizione della raccomandata) e 134 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile;

che ponendo d’altro canto a confronto, alla stregua dell’art. 24 Cost., i contrapposti interessi in considerazione, quello cioè al consolidamento di una situazione sostanziale e quello per cui è attribuito il c.d. diritto di azione, sarebbe agevole rilevare che solo quest’ultimo è assistito da un’autonoma e generale garanzia costituzionale;

che neppure sarebbe possibile riconoscere un qualsiasi rilievo costituzionale, nemmeno sotto il profilo dell’art. 3 Cost., al preteso primato del sistema processuale civile, su cui in gran parte si fonda la questione di legittimità costituzionale;

che tra le situazioni messe a confronto difetterebbe, infatti, il requisito della omogeneità, posto che il processo tributario presenta rispetto al processo civile connotati suoi propri, tra i quali una maggiore semplicità nella forma degli atti e nelle procedure;

che per quanto riguarda infine il parametro di cui all’art. 76 Cost., l’Avvocatura osserva che lo stesso art. 30, lettera g), della legge n. 413 del 1991 prevede, al numero 4, tra i principi e criteri direttivi, «l’impiego più largo possibile del servizio postale», anche evidentemente in deroga alle regole poste per il processo civile, e che pertanto legittimamente il legislatore delegato ha tenuto conto dell’esistenza di una regola che attribuisce prevalente rilevanza, nei rapporti tra contribuenti ed amministrazione finanziaria, alla data di spedizione degli atti piuttosto che a quella di ricezione;

che la stessa Commissione tributaria regionale di Venezia, con ordinanza in pari data, ha sollevato, in riferimento ai medesimi parametri e sulla scorta di identiche argomentazioni, questione di legittimità costituzionale sia del già impugnato art. 16, comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, sia, nei limiti in cui ad esso fanno riferimento, degli artt. 53, comma 2 (specificamente riguardante la proposizione del ricorso in appello), e 20, comma 1, dello stesso decreto legislativo;

che l’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, si è richiamata alla memoria depositata nel primo giudizio, sottolineando comunque l’inutilità della estensione della questione di legittimità costituzionale anche alle norme di cui agli artt. 20, comma 1, e 53, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992.

Considerato che i due giudizi, per la sostanziale identità delle questioni sollevate, vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia;

che, in riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., la censura di incostituzionalità dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, si fonda essenzialmente sull’assunto che la norma dallo stesso dettata sarebbe del tutto estranea al sistema processuale civile e propria soltanto dei rimedi amministrativi;

che tale assunto è palesemente erroneo in quanto, in materia di spedizione di atti a mezzo posta, regola identica a quella della norma impugnata risulta posta da norme di entrambi i codici di rito, quali l’art. 140 cod. proc. civ., nell’intepretazione costituente diritto vivente, l’art. 134 disp. att. cod. proc. civ. e l’art. 583 cod. proc. pen.;

che, in ogni caso, questa Corte ha ripetutamente escluso l’esistenza di un principio, costituzionalmente rilevante, di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo (da ultimo sentenze nn. 165 e 18 del 2000);

che del tutto erroneo è il riferimento al parametro di cui all’art. 24 Cost. posto che nella specie non si prospetta, neppure in astratto, una qualsivoglia lesione del diritto di agire in giudizio né in capo al notificante, che risulta, anzi, avvantaggio nell’esercizio del suo diritto d’azione, né in capo al destinatario dell’atto notificato;

che per quanto riguarda infine il parametro di cui all’art. 76 Cost. è sufficiente rilevare che il legislatore delegante, all’art. 30, lettera g), numero 4, della legge n. 413 del 1991, ha espressamente indicato, tra i principi e criteri direttivi, «la previsione dell’impiego più largo possibile del servizio postale» e che le norme impugnate - rendendo meno rischioso per la parte notificante il ricorso al servizio postale - e, quindi, incentivando l’impiego del servizio stesso costituiscono compiuta attuazione del criterio direttivo enunciato;

che nella dichiarazione di infondatezza dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, restano assorbite le questioni relative agli articoli 53, comma 2, e 20, comma 1, dello stesso decreto legislativo;

che le questioni sollevate vanno perciò dichiarate tutte manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 16, comma 5, 53, comma 2, e 20, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale di Venezia con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in cancelleria il 21 luglio 2000.