Ordinanza n. 316/2000

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ORDINANZA N. 316

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 10 e 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), promosso con ordinanza emessa il 15 aprile 1999 dal Giudice di pace di Bari nel procedimento civile vertente tra Salani Silvano e Cazzolla Vito, iscritta al n. 348 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto che il Giudice di pace di Bari - investito della decisione di una causa civile promossa da un avvocato che ha chiesto la condanna del convenuto al pagamento della somma corrispondente alla rivalsa per l'imposta sul valore aggiunto, relativa alle prestazioni professionali svolte a suo favore quale imputato in un giudizio penale - con ordinanza emessa il 15 aprile 1999 ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 10 e 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 della Costituzione;

che secondo il giudice rimettente la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo in quanto, a fronte della domanda dell'attore, il convenuto avrebbe contestato la legittimità costituzionale della rivalsa per l'IVA e della mancata esenzione delle prestazioni del difensore nel processo penale dall'imposta ed inoltre perché la risoluzione della controversia dipenderebbe dall’accoglimento dell’eccezione, non avendo il convenuto dedotto altri motivi a sostegno della sua richiesta di rigetto della domanda attrice;

che, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva che l’art. 5 della legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria) aveva stabilito, quale criterio direttivo cui avrebbe dovuto ispirarsi il legislatore delegato, l'applicazione dell’imposta sul valore aggiunto alle prestazioni di servizi “ad eccezione di quelle espressamente esentate per motivi di rilevante utilità culturale e sociale”, mentre il legislatore delegato avrebbe previsto l’esenzione dall'imposta per le prestazioni effettuate dagli esercenti la professione sanitaria, ma non per quelle effettuate dal difensore dell’imputato nel processo penale, necessarie a tutela del bene della libertà personale e riferibili a “diritti essenziali della persona, costituzionalmente garantiti”;

che il giudice a quo - ricordato che il diritto di difesa è tra quelli che la Costituzione definisce inviolabili e che esso si sostanzia, anche in forza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nel diritto al “giusto processo ed al contraddittorio” - assume che il difensore nel processo penale sarebbe “investito di una funzione pubblica essenziale” e la sua opera dovrebbe perciò essere definita come “prestazione di servizi rivestenti carattere di rilevante utilità sociale”; da ciò deriverebbe un contrasto con i principi della legga delega, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost.;

che il rimettente ritiene che la norma violi anche l’art 3 Cost., dal momento che essa creerebbe “una disparità di trattamento … nella garanzia di diritti inviolabili dell’uomo, assicurata dal precedente art. 2”, ed ancora l’art. 24 Cost., perché l’assoggettamento ad imposta delle prestazioni difensive "penalizzerebbe" le garanzie assicurate dalla Costituzione all'imputato;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione infondata;

che la difesa erariale, per quanto riguarda la violazione dell’art. 76 Cost., ricorda che la legislazione sull'IVA è la conseguenza della partecipazione dell’Italia all’Unione europea e che la materia delle esenzioni dall’imposta è stata disciplinata in conformità alle disposizioni comunitarie ed in particolare alla sesta Direttiva del Consiglio delle Comunità europee del 17 maggio 1977, n. 388, che indica all’art. 13, in modo tassativo, i casi di cessione di beni e prestazioni di servizi ai quali non si applica l’imposta;

che l'Avvocatura ricorda ancora come tra le operazioni esenti in base alla Direttiva vi sono alcune prestazioni sanitarie, di assistenza e sicurezza sociale, protezione dell’infanzia, educazione ed insegnamento, nonché altre prestazioni erogate da organismi culturali e senza fini di lucro, con esclusione quindi dell’opera prestata dagli avvocati nel processo penale;

che, secondo l’Avvocatura, sarebbero insussistenti anche gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale sollevati dal rimettente, non essendo configurabile, riguardo alle norme impugnate, la violazione di diritti dell’uomo e del principio di eguaglianza né alcuna compressione del diritto di difesa delle parti.

Considerato che il Giudice di pace di Bari risulta investito della decisione di una controversia di diritto privato promossa da un avvocato, che ha effettuato prestazioni professionali assoggettate ad imposta sul valore aggiunto, il quale agisce in via di rivalsa sul beneficiario del servizio ai sensi dell'art. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto);

che il rapporto civilistico intercorrente tra colui che ha prestato il servizio o ha ceduto il bene, quale titolare del credito di rivalsa, ed il beneficiario della prestazione o il cessionario del bene, debitore ex lege dell'importo corrisposto a titolo di imposta, risulta del tutto distinto ed autonomo da quello, di diritto tributario, intercorrente tra il primo soggetto e l'Amministrazione finanziaria, come risulta chiaramente dalla struttura e dalla funzione dell'art. 18 d.P.R. n. 633 del 1972 e come è stato affermato dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione;

che per questa ragione il giudice rimettente, mentre è competente a decidere sulla domanda relativa al credito di rivalsa dell'attore per l'IVA esposta nella fattura, non ha alcuna competenza in ordine alla cognizione del rapporto tributario sottostante, sul quale la giurisdizione appartiene alle Commissioni tributarie;

che le norme relative all'assoggettamento ad IVA delle prestazioni effettuate dal difensore nel processo penale e, in generale, al regime delle esenzioni da tale imposta non hanno perciò, né possono avere, alcuna rilevanza nel giudizio a quo;

che nessuna specifica censura di legittimità costituzionale è stata mossa dal rimettente riguardo all'art. 18 d.P.R. n. d.P.R. n. 633 del 1972, unica norma, tra quelle impugnate, avente rilievo nel giudizio in corso;

che perciò la questione sollevata risulta sotto ogni profilo manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 10 e 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 della Costituzione, dal Giudice di pace di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 luglio 2000.