Ordinanza n. 217/2000

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ORDINANZA N. 217

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 47 e 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promossi con ordinanze emesse l’8 luglio 1999 (n. 2 ordinanze), il 30 agosto 1999 (n. 2 ordinanze) ed il 4 novembre 1999 dalla Commissione tributaria regionale di Perugia, rispettivamente iscritte ai nn. 564, 565, 727 e 728 del registro ordinanze 1999 ed al n. 62 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1999 e nn. 3 e 9, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto che la Commissione tributaria regionale di Perugia, con cinque ordinanze di identico contenuto emesse nelle date indicate in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 47 e 49 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413);

che la Commissione rimettente - investita di istanze di sospensione della esecutività di sentenze della Commissione tributaria provinciale di Perugia, ex art. 283 del codice di procedura civile, in pendenza di appelli ritualmente proposti dalle parti private soccombenti - ritiene che la norma del codice di rito invocata dalle parti istanti non sia applicabile al processo tributario, sia perché l’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 espressamente esclude l’applicabilità dell’art. 337 cod. proc. civ. e quindi anche delle norme da quest’ultimo richiamate, tra cui appunto l’art. 283, sia in quanto l’art. 47 del medesimo decreto legislativo renderebbe palese l’intenzione del legislatore di limitare la tutela cautelare solamente al primo grado di giudizio;

che l’esclusione di ogni possibilità di tutela cautelare nei confronti della efficacia esecutiva della sentenza di primo grado rappresenterebbe tuttavia - ad avviso dello stesso rimettente - una lesione del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, del quale l’azione cautelare costituirebbe sicura espressione;

che le norme censurate sarebbero altresì lesive del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento che esse determinerebbero, quanto alla tutela giurisdizionale offerta ai contribuenti, tra le controversie in materia di imposte e tasse devolute alla cognizione del giudice ordinario, nelle quali troverebbero applicazione gli artt. 283 e 373 cod. proc. civ., e quelle attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie, nelle quali non è invece prevista la possibilità di sospensione delle sentenze di primo e secondo grado;

che è intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

Considerato che i giudizi, aventi identico oggetto, vanno riuniti per essere decisi con unica pronunzia;

che questione sostanzialmente identica, sollevata dallo stesso rimettente, è stata già dichiarata non fondata con la sentenza n. 165 del 2000;

che in tale sentenza si rileva, quanto alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost., «come la garanzia costituzionale della tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga - con efficacia esecutiva - la domanda, rendendo superflua l’adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela. Con la conseguenza che la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive a siffatta pronuncia, in favore della parte soccombente nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore»;

che la censura riferita alla violazione del principio di eguaglianza ed incentrata sulla differente latitudine dei poteri del giudice nel processo civile e nel processo tributario è stata del pari disattesa in quanto in aperta contraddizione con la giurisprudenza di questa Corte che ha costantemente escluso l’esistenza di un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo;

che non vengono prospettati profili nuovi o diversi tali da indurre ad una diversa valutazione della questione;

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

 Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 47 e 49 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale di Perugia con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 giugno 2000.