Ordinanza n. 156/2000

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ORDINANZA N. 156

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI         

- Cesare RUPERTO    

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 262 del cod. pen. promosso con ordinanza emessa il 5 febbraio 1999 dalla Corte di assise di appello di Roma nel procedimento penale a carico di Pugliese Vincenzo ed altri iscritta al n. 229 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che la Corte di assise di appello di Roma, con ordinanza emessa il 5 febbraio 1999, premesso di essere chiamata a giudicare sull’appello proposto dalle parti civili e da due imputati, condannati alla pena di anni due di reclusione per il reato di rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione, di cui all’art. 262 cod. pen., ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del citato art. 262 cod. pen.;

che, dedotta preliminarmente la rilevanza della questione in considerazione "delle statuizioni della Corte di primo grado" e del "tenore delle impugnazioni proposte", il giudice a quo ha osservato che la norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità prevede per il reato da essa descritto la pena della reclusione non inferiore a tre anni, con la conseguenza che la pena massima, non esplicitamente indicata, resta stabilita, ai sensi dell’art. 23 cod. pen., in anni ventiquattro di reclusione;

che, ad avviso del rimettente, il rilevante divario tra il minimo ed il massimo edittale renderebbe meramente apparente la predeterminazione legislativa della misurazione della pena, violando così il principio di legalità sancito dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione;

che, infatti, al lume di quanto affermato da questa Corte con sentenza n.299 del 1992, se pure il conferimento al giudice del potere discrezionale di determinare in concreto la sanzione da irrogare, "individualizzandola" in rapporto al singolo caso, é il mezzo più idoneo per il conseguimento delle finalità della pena, quali previste dal nostro ordinamento, tale potere rischia di trasformarsi in arbitrio quando venga lasciato al giudice un così ampio margine di scelta (nella specie si va da una pena suscettibile di sospensione condizionale, ove applicata nel minimo ed in presenza di una circostanza attenuante, ad una pena di ben ventiquattro anni di reclusione) da non risultare in alcun modo correlabile alla variabilità delle fattispecie concrete;

che la Corte rimettente dubita, altresì, della ragionevolezza dell’indicato trattamento sanzionatorio, rilevando come la pena massima prevista dall’art. 262 cod. pen. per il delitto di rivelazione di notizie c.d. riservate risulti uguale a quella comminata dall’art. 261 cod. pen. per il più grave reato di rivelazione di segreti di Stato.

Considerato che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale del’art. 262 cod. pen. con esclusivo riferimento al trattamento sanzionatorio ivi prefigurato, sotto il duplice profilo della eccessiva divaricazione fra il minimo ed il massimo edittale, che si assume elusiva del principio di legalità della pena, e della irragionevolezza della pena edittale massima, in quanto corrispondente a quella prevista dall’art. 261 cod. pen. per il più grave reato di rivelazione di segreti di Stato;

che, peraltro, come indicato nelle premesse in fatto dell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo si trova a dover fare applicazione della norma denunciata nell’ambito del giudizio di appello avverso la sentenza emessa dalla Corte di assise di Roma il 21 dicembre 1996, sentenza che ha, tra l’altro, dichiarato due degli imputati colpevoli del reato di cui all’art. 262 cod. pen., condannandoli, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di anni due di reclusione, e che ha viceversa assolto gli stessi ed altro imputato dal medesimo reato in relazione all’addebito concernente uno specifico documento;

che detta sentenza é stata impugnata dagli imputati, relativamente al capo di condanna, e dall’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza delle parti civili Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero della difesa, quanto all’assoluzione;

che, in tale situazione processuale, il profilo dell’eccessivo divario tra la pena minima e la pena massima comminate per il reato in questione, e del conseguente rischio che il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena in concreto assuma i connotati dell’arbitrio, esula evidentemente dal perimetro del thema decidendum sottoposto al giudice a quo, il quale non é in alcun modo chiamato ad esercitare l’anzidetto potere discrezionale, rivedendo la scelta sanzionatoria già concretamente operata dal giudice di primo grado;

che, infatti, mentre l’impugnazione delle parti civili contro la sentenza di proscioglimento é per definizione limitata alla sola responsabilità civile (art. 576, comma 1, cod. proc. pen.), il divieto di reformatio in peius, sancito dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. in rapporto ai casi in cui appellante sia il solo imputato, impedisce altresì alla Corte rimettente di modificare la pena inflitta dal giudice di primo grado con il capo di condanna, la quale non può essere nè ulteriormente ridotta (in quanto irrogata nel minimo), nè per converso aumentata, anche in caso di rigetto dell’appello (ostandovi il citato divieto);

che, per le omologhe ragioni, non viene del pari concretamente in rilievo nel giudizio a quo l’asserita irragionevolezza della pena massima comminata dalla norma impugnata;

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 del codice penale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dalla Corte di assise di appello di Roma con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 maggio 2000.