Sentenza n. 114/2000

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SENTENZA N. 114

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo  MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido  NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito nella legge 27 novembre 1982, n. 873, promossi con ordinanze emesse il 29 giugno (n. 2 ordinanze) e il 9 ottobre 1998 dalla Corte d’appello di Trieste e il 6 novembre 1999 dal Tribunale di Brescia rispettivamente iscritte ai numeri 733, 734 e 906 del registro ordinanze 1998 ed al numero 731 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1998, n. 2, prima serie speciale, dell’anno 1999 e n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visti gli atti di costituzione della Ferriere G.B. Bertoli fu Giuseppe S.p.A. e della Acciaieria Fonderia Cividale S.p.A. ed altre, della FAREM S.p.A. e dell’INNSE Cilindri s.r.l., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2000 il Giudice relatore Annibale Marini;

uditi gli avvocati Raffaele Mistura per la Ferriere G.B. Bertoli fu Giuseppe S.p.A. e per l’Acciaieria Fonderia Cividale S.p.A. ed altre, Raffaele Mistura e Giuseppe Guarino per la FAREM S.p.A., Raffaele Mistura per l’INNSE Cilindri s.r.l. e l’Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Con tre ordinanze di identico contenuto, emesse le prime due il 29 giugno 1998 e la terza il 9 ottobre 1998, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, nella parte in cui detta norma, ponendo a carico di chi agisca per la ripetizione di imposte di consumo indebitamente corrisposte l’onere di provare documentalmente il mancato trasferimento del peso di tali imposte su altri soggetti, non differenzia l’onere probatorio a seconda della specifica attività d’impresa, nel cui ambito d’esercizio le imposte siano state pagate.

1.1. In merito alla rilevanza della questione la Corte rimettente osserva che i tre giudizi hanno ad oggetto appelli proposti dall’amministrazione finanziaria avverso sentenze di condanna al rimborso di somme indebitamente dalla stessa percepite a titolo di addizionale all’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica e che il mancato assolvimento da parte del solvens dell’onere probatorio di cui alla norma censurata è stato dedotto quale motivo di gravame.

1.2. La non manifesta infondatezza della questione discenderebbe poi - ad avviso del giudice rimettente - dal fatto che le parti private nei tre giudizi esercitano attività d’impresa nel settore siderurgico ed utilizzano pertanto l’energia elettrica nel processo produttivo di un bene il cui prezzo finale è soggetto al variare dei costi di vari componenti base ed è comunque stabilito dal mercato internazionale. La prova documentale richiesta dalla norma si rivelerebbe pertanto, nella specie, praticamente impossibile e comporterebbe la violazione al tempo stesso degli artt. 24 e 53 Cost. posto che l’impedimento della difesa in giudizio del proprio diritto renderebbe irripetibile un tributo indebitamente pagato e si tradurrebbe, in definitiva, in una imposizione fiscale senza il rispetto del canone costituzionale della capacità contributiva.

2. E’ intervenuto nei tre giudizi, con atti di identico contenuto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

2.1. Osserva l’Avvocatura che, riguardo alla specifica attività d’impresa svolta dalle parti private dei tre giudizi, la prova documentale richiesta dalla norma censurata può bensì presentare maggiori difficoltà che in altri casi, ma certamente non è impossibile, potendo essere assolta attraverso l’esibizione delle stesse scritture contabili dell’impresa. Mentre, infatti, la chiusura dell’esercizio in attivo renderebbe palese che tutti i costi (ivi compresi quelli relativi alle imposte di consumo) sono stati trasferiti sugli acquirenti, la chiusura dell’esercizio in passivo ben potrebbe costituire prova della mancata traslazione di alcuni oneri, tra cui eventualmente quello tributario.

3. Si sono altresì costituite nei tre giudizi le parti private G.B. Bertoli fu Giuseppe S.p.A., Acciaieria Fonderia Cividale S.p.A., FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A., Inossman S.p.A. e SAFOP S.p.A.

3.1. La sola FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A. eccepisce, quanto al giudizio promosso con ordinanza del 9 ottobre 1998 (R.O. n. 906 del 1998), il difetto di rilevanza della questione, in quanto il giudizio a quo avrebbe ad oggetto non l’azione di ripetizione disciplinata dalla norma censurata, ma un’azione essenzialmente diversa e precisamente l’opposizione avverso un’ingiunzione emessa dall’amministrazione finanziaria per la riscossione di tributi non versati.

 3.2. Nel merito le parti private concludono, in base a difese di identico contenuto, per l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte d’appello di Trieste con riferimento sia ai parametri di cui agli artt. 24 e 53 Cost., espressamente evocati dalla Corte rimettente, sia all’ulteriore parametro di cui all’art. 3 Cost.

Premettono le parti private di non ignorare che questa Corte ha già esaminato la questione di legittimità costituzionale della stessa norma, con riferimento ai medesimi parametri, dichiarandola manifestamente infondata con le ordinanze nn. 651 e 807 del 1988 ed altre successive. Le motivazioni di tali ordinanze, tuttavia, individuerebbero il fondamento ed il limite della legittimità costituzionale della norma impugnata nel fatto che l’onere probatorio imposto dalla stessa norma dovrebbe riguardare tributi che, per la loro particolare natura e per le dinamiche dell’economia di mercato, siano trasferiti dal solvens su altri soggetti, secondo l’id quod plerumque accidit, e che inoltre la prova documentale richiesta possa essere fornita mediante le scritture contabili.

Circostanze queste che non ricorrerebbero nelle fattispecie in giudizio, aventi ad oggetto la ripetizione di imposte addizionali all’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica, istituite dall’art. 6, comma 2, del decreto-legge 28 novembre 1988, n. 511 (Disposizioni urgenti in materia di finanza regionale e locale), convertito nella legge 27 gennaio 1989, n. 20, e dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1989, n. 332 (Misure fiscali urgenti), convertito nella legge 27 novembre 1989, n. 384.

L’onere tributario relativo all’energia elettrica impiegata nel processo produttivo non avrebbe infatti - secondo le parti private - caratteristiche tali da renderne agevole la diretta traslazione sul prezzo del prodotto, sia perché sarebbe praticamente impossibile determinare l’incidenza dell’imposta su ciascuna unità di prodotto, sia perché il prezzo dei prodotti siderurgici sarebbe indipendente dalla volontà dell’imprenditore, in quanto fissato dal mercato internazionale sulla base dell’andamento della curva della domanda. Poichè in tale mercato operano non soltanto gli imprenditori italiani (tutti assoggettati ad identici oneri tributari), ma anche imprenditori stranieri, la possibilità di trasferire sull’acquirente un aumento dell’imposizione fiscale sarebbe preclusa dalle regole della concorrenza, così da rendere non ragionevole quella presunzione di traslazione che parrebbe costituire la ratio della norma di cui all’art. 19 del d.l. n. 688 del 1982.

Il particolare tipo di imposizione tributaria di cui si tratta, gravante sull’energia elettrica usata nel processo produttivo, renderebbe in ogni caso del tutto impossibile la prova documentale richiesta dalla norma stessa, non essendo a tal fine sufficiente l’esame della documentazione contabile dell’imprenditore, dalla quale non sarebbe dato in alcun modo evincere l’incidenza dell’imposta su ciascuna unità di prodotto.

Ne deriverebbe, perciò, in primo luogo, una disparità di trattamento, contrastante con l’art. 3 Cost., tra i contribuenti che abbiano indebitamente pagato l’addizionale in questione ed i contribuenti che abbiano indebitamente pagato altre imposte, parimenti non caratterizzate da presunzione di traslazione, per la cui ripetizione non è richiesta la prova documentale di non averne riversato su altri il peso economico. Risulterebbe, altresì, leso il diritto di difesa dei contribuenti, assoggettati all’onere di provare documentalmente un fatto negativo, nonché lo stesso principio di capacità contributiva, di cui all’art. 53 Cost., in quanto l’impossibilità di assolvere l’onere probatorio imposto dalla norma renderebbe irripetibile una prestazione tributaria non dovuta e perciò non ricollegabile alla capacità contributiva del soggetto colpito.

4. Con ordinanza emessa il 6 novembre 1999 il Tribunale di Brescia ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa norma, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali.

4.1. Anche in questo caso il giudizio a quo risulta promosso nei confronti dell’amministrazione finanziaria da una società esercente attività industriale siderurgica al fine di ottenere, sul presupposto dell’indebito pagamento, la restituzione di quanto pagato a titolo di imposte addizionali sul consumo di energia elettrica istituite dai decreti-legge n. 511 del 1988 e n. 332 del 1989.

La fondatezza della domanda in punto di diritto è ammessa - come rileva il rimettente - dalla stessa amministrazione convenuta, alla luce della norma interpretativa, sopravvenuta in corso di causa, di cui all’art. 4 del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito in legge dall’art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 349, che ha escluso l’assoggettamento alle predette addizionali dell’energia elettrica utilizzata come materia prima nei processi industriali elettrochimici ed elettrometallurgici, ivi comprese le lavorazioni siderurgiche e delle fonderie. Cionondimeno la domanda stessa dovrebbe essere respinta, su conforme eccezione dell’amministrazione convenuta, non avendo la società attrice fornito la prova documentale, richiesta dall’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982, del mancato trasferimento su altri soggetti del peso economico di tali imposte.

E’ ben vero - aggiunge il rimettente - che secondo l’orientamento di una parte della giurisprudenza di merito il detto art. 19, in quanto disposizione di carattere eccezionale, non sarebbe applicabile analogicamente alle imposte addizionali, da tale norma non espressamente contemplate. Tale assunto, tuttavia, non appare al medesimo rimettente condivisibile, in quanto l’imposta addizionale sul consumo di energia elettrica, avendo per definizione il medesimo presupposto dell’imposta base, non può che considerarsi una species del genus imposte di consumo e, in quanto tale, ricompresa nell’ambito applicativo della norma censurata.

4.2. Così chiarita la rilevanza della questione, la norma, secondo il rimettente, gravando il contribuente dell’onere di fornire una prova praticamente impossibile, sarebbe lesiva sia dell’art. 24 Cost., per la violazione del diritto di agire in giudizio, sia dell’art. 53 Cost., per i riflessi, già evidenziati, di carattere sostanziale che deriverebbero, nella specie, dall’impedimento alla difesa del proprio diritto.

Non ignora il rimettente che la medesima questione è già stata risolta in senso negativo da questa Corte con l’ordinanza n. 651 del 1988: ritiene tuttavia che essa meriti di essere riproposta con ulteriori argomenti, anche in considerazione della diversità della fattispecie sottoposta al suo giudizio, rispetto a quella che aveva dato origine al precedente giudizio di legittimità costituzionale.

Nella predetta ordinanza è, infatti, affermato che "presunzione ispiratrice della norma" è quella "secondo la quale l’operatore economico percosso da alcuni tipi di imposta, normalmente, la riversa sui soggetti che da lui acquistano beni o servizi" e che "tale presunzione ... non appare irragionevole"; ed a riprova è citata la fattispecie oggetto del giudizio a quo, in cui il comitato provinciale prezzi aveva consentito la maggiorazione per una certa aliquota del prezzo del prodotto, fino al totale recupero dell’imposta di cui si chiedeva il rimborso.

Nel caso sottoposto al giudizio del rimettente, invece, i beni prodotti dalla società attrice non sono soggetti a prezzi amministrati o controllati né risulta che siano stati aumentati in conseguenza dell’introduzione delle addizionali.

Ciò basterebbe - secondo il giudice a quo - a giustificare un nuovo esame della questione. Vi è peraltro da aggiungere - ad avviso ancora del rimettente - che l’ordinanza n. 651 del 1988 esprime una concezione "semplicistica ed autarchica" dei fenomeni economici, prescindendo totalmente da qualsiasi considerazione delle leggi di mercato. E’ noto infatti che ogni aumento di prezzo determina di regola, come conseguenza, una diminuzione della domanda (con possibile contrazione dei profitti) ed espone inoltre il produttore alla concorrenza di chi riesca a vendere ad un prezzo più basso. Per tale motivo, in un mercato internazionale, non sempre è possibile per il produttore aumentare il prezzo in conseguenza di un aumento degli oneri fiscali, in quanto tali oneri non gravano in egual misura sui concorrenti stranieri. E’ insomma il mercato, e non il singolo produttore, a stabilire il prezzo, spesso imponendo, in luogo della traslazione di un nuovo onere fiscale, una contrazione dei profitti.

L’ordinanza non potrebbe nemmeno essere condivisa - sempre secondo il rimettente - laddove assume che la lamentata difficoltà probatoria sarebbe esclusa dall’obbligo di conservazione dei libri e delle scritture contabili: la mera lettura delle scritture contabili non consentirebbe infatti di discernere le componenti economiche dei prezzi praticati né di effettuare dei validi raffronti tra i prezzi praticati prima e quelli praticati dopo un determinato evento, data la molteplicità delle possibili variabili suscettibili di incidere sui costi. La prova richiesta dalla norma denunciata potrebbe semmai trarsi, a tutto concedere, da una consulenza tecnica d’ufficio fondata sui dati contabili, ma in tal caso le scritture contabili sarebbero assunte - diversamente da quanto la norma stessa richiede - non come prove documentali, ma come meri elementi indiziari. In ogni caso, anche a voler ritenere ammissibile un simile strumento di indagine, il diritto del contribuente rimarrebbe comunque esposto all’alea propria di una valutazione - quella appunto peritale - avente una indiscutibile componente soggettiva.

5. E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

L’Avvocatura contesta, in primo luogo, che la soluzione negativa cui la Corte è pervenuta nell’ordinanza n. 651 del 1988 sia collegata alla circostanza che, in quel caso, il prodotto fosse sottoposto a prezzi amministrati e comunque ricorda che la medesima questione è stata dichiarata manifestamente infondata, con ordinanza n. 807 del 1988, anche in riferimento ad una fattispecie nella quale non si trattava di prezzi amministrati.

Quanto agli argomenti riferiti alle leggi di mercato, l’Avvocatura osserva che essi sono stati già necessariamente esaminati e disattesi dalla Corte nelle ricordate ordinanze di manifesta infondatezza, mentre, per quanto concerne l’asserita impossibilità di fornire la prova richiesta in ragione della specifica attività produttiva esercitata dall’impresa avente diritto al rimborso, deduce che la valutazione dell’incidenza del tributo sul costo di produzione, nell’ipotesi di produzione di beni ontologicamente diversi da quelli utilizzati per ottenerli (come nel caso delle imprese siderurgiche), può presentare maggiore difficoltà rispetto ad altre ipotesi ma non può mai risultare materialmente impossibile, tanto più che nell’ordinanza n. 651 del 1988 la Corte ha chiarito che l’onere probatorio può essere soddisfatto mediante scritture "dalle quali il fatto da provare possa dedursi anche indirettamente".

6. Si è costituita in giudizio la INNSE CILINDRI s.r.l., deducendo in via principale l’irrilevanza della questione sollevata dal Tribunale di Brescia.

Osserva infatti la parte privata che tra le imposte la cui ripetizione è subordinata all’eccezionale onere probatorio previsto dall’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982 non sono espressamente indicate le addizionali all’imposta di consumo sull’energia elettrica, cosicché taluni giudici di merito hanno ritenuto che l’azione di ripetizione delle suddette addizionali sia soggetta agli ordinari principi sull’onere della prova.

Nel merito la parte privata conclude per l’accoglimento della questione con riferimento sia ai parametri di cui agli artt. 24 e 53 Cost., espressamente evocati dal rimettente, sia all’ulteriore parametro di cui all’art. 3 Cost., sulla scorta di argomentazioni del tutto analoghe a quelle svolte dalle altre parti private costituite negli altri tre giudizi.

7. Nell’imminenza dell’udienza pubblica le parti private G.B. Bertoli fu Giuseppe S.p.A., Acciaieria Fonderia Cividale S.p.A., FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A., Inossman S.p.A. e SAFOP S.p.A. hanno depositato memorie illustrative di identico contenuto, ribadendo le difese di merito già svolte ed eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

Deducono le parti che successivamente all’ordinanza di rimessione taluni giudici di merito hanno escluso l’applicabilità della norma denunciata alle domande di ripetizione di addizionali all’imposta di consumo sull’energia elettrica. Sulla scorta di tale giurisprudenza, le parti private osservano che dette addizionali non sarebbero comprese tra i tributi espressamente indicati nella norma stessa, avente carattere sicuramente eccezionale, e che il rapporto di accessorietà esistente tra l’addizionale e l’imposta di consumo, consistendo "solamente in un rapporto tra le due imposte relativo alla coincidente base imponibile", non potrebbe di per sé consentire - in mancanza di un espresso rinvio - l’applicazione della norma anche alla fattispecie di ripetizione dell’addizionale. Lo stesso legislatore del resto avrebbe ritenuto necessario - nelle norme istitutive delle addizionali in questione - rinviare espressamente, quanto alla liquidazione e alla riscossione, alla disciplina dell’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica (v. art. 6, comma 5, del decreto-legge n. 511 del 1988 e art. 4, comma 5, del decreto-legge n. 332 del 1989), con ciò implicitamente escludendo una generalizzata applicabilità delle disposizioni dettate per l’imposta base.

Non ignorano le parti private che tale orientamento non è condiviso da altri giudici di merito, ma proprio le conclusioni a cui costoro pervengono renderebbero palese - a loro avviso - l’illegittimità costituzionale della norma in quanto interpretata nel senso della sua applicabilità all’azione di ripetizione delle addizionali de quibus. E ciò in quanto mentre si è ritenuto che la traslazione possa avvenire anche mediante incorporazione del tributo pagato nel prezzo di vendita del prodotto, si è escluso per altro verso che la prova documentale richiesta dall’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982 possa essere fornita mediante una consulenza tecnica sulle scritture contabili, in quanto tale consulenza tecnica avrebbe un carattere inammissibilmente esplorativo e comunque perverrebbe alla dimostrazione del fatto da provare in via di presunzione e non documentalmente come richiesto dalla legge.

8. La sola FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A. ha depositato una ulteriore memoria integrativa, insistendo con nuovi argomenti per la declaratoria di inammissibilità della questione.

Premessa la tassatività dell’indicazione, contenuta nello stesso art. 19, delle imposte cui la norma è applicabile, la parte deduce che l’energia elettrica utilizzata come materia prima sarebbe del tutto estranea - per espresso disposto legislativo (art. 4 del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250) - all’area delle imposte di consumo. La citata norma intepretativa, infatti, nel chiarire che l’energia elettrica utilizzata come materia prima "non è assoggettata" alle addizionali stesse, avrebbe implicitamente confermato la estraneità, sin dall’origine, dell’energia elettrica all’area delle imposte di consumo, con la conseguente inapplicabilità, nella specie, sempre ad avviso della parte, della disciplina di cui alla norma censurata.

 La particolare natura dei beni prodotti dall’industria siderurgica, in quanto prodotti intermedi e non destinati al consumo di massa, renderebbe, poi, sotto altro aspetto, palese l’insussistenza delle condizioni stesse perché possa operare la traslazione dell’indebito.

Considerato in diritto

1. La Corte d’appello di Trieste, con tre ordinanze, ed il Tribunale di Brescia, con una ordinanza successiva, dubitano, in riferimento agli articoli 24 e 53 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, nella parte in cui detta norma, senza differenziare le singole attività di impresa, pone a carico del contribuente, che agisca per la ripetizione di imposte di consumo indebitamente corrisposte, l’onere di provare documentalmente che il peso economico dell’imposta non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti. Onere probatorio che, secondo quanto ritenuto da entrambi i rimettenti, risulterebbe nei giudizi a quibus di impossibile assolvimento.

I quattro giudizi, data la sostanziale identità delle questioni, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. La FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A., in riferimento al giudizio promosso dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza emessa il 9 ottobre 1998 (R.O. n. 906 del 1998), eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità della questione, per difetto di rilevanza, in quanto, non avendo il giudizio a quo ad oggetto un’azione di ripetizione di indebito, risulterebbe, nella specie, inapplicabile proprio la norma della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita.

2.1. L’eccezione è fondata.

Il giudizio a quo, infatti, come la stessa Avvocatura ha esplicitamente riconosciuto in udienza e come del resto risulta dagli atti, consiste, diversamente da quanto si legge nell’ordinanza di rimessione, nell’opposizione proposta dalla FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A. avverso l’ingiunzione emessa dall’amministrazione finanziaria per il pagamento dell’addizionale all’imposta sul consumo dell’energia elettrica.

E’, pertanto, evidente come la norma censurata, in quanto diretta a disciplinare la ripetizione di imposte indebitamente pagate, risulti del tutto estranea al giudizio principale sopra specificato rendendo irrilevante e, quindi, inammissibile la questione sollevata.

3. Va invece disattesa - con riferimento agli altri tre giudizi - l’eccezione di inammissibilità della questione, per difetto sempre di rilevanza, sollevata dalle parti private sull’assunto che le addizionali istituite dall’art. 6, comma 2, del decreto-legge 28 novembre 1988, n. 511 (Disposizioni urgenti in materia di finanza regionale e locale), convertito nella legge 27 gennaio 1989, n. 20, e dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1989, n. 332 (Misure fiscali urgenti), convertito nella legge 27 novembre 1989, n. 384, non avrebbero natura di imposte di consumo e che pertanto alla relativa azione di rimborso non sarebbe applicabile la norma denunciata.

In contrario, è sufficiente rilevare che il diverso presupposto interpretativo da cui muovono i rimettenti ai fini della valutazione di rilevanza - che cioè alle suddette addizionali debba riconoscersi la medesima natura, di imposta di consumo, propria della imposta-base - è sicuramente non implausibile e non può, perciò, essere censurato in questa sede.

4. Ulteriore eccezione di inammissibilità della questione è stata sollevata dalla difesa della FAREM-Fonderie Acciaio Remanzacco S.p.A., secondo cui - pur ammesso che le addizionali in questione siano assimilabili alle imposte di consumo - l’irrilevanza, rispetto ai giudizi a quibus, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982 discenderebbe dal fatto che la norma interpretativa di cui all’art. 4 del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito in legge dall’art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 349, chiarendo che l’energia elettrica utilizzata come materia prima nelle lavorazioni siderurgiche non è assoggettata alle addizionali stesse, avrebbe sancito l’assoluta estraneità di quel bene all’area delle imposte di consumo. Estraneità alla quale conseguirebbe, sempre ad avviso della stessa parte privata, l’inapplicabilità all’azione di ripetizione delle addizionali sull’energia elettrica di una norma, quale quella denunciata, specificamente riguardante la ripetizione delle imposte di consumo.

Anche tale eccezione va disattesa. L’insussistenza dell’obbligo tributario, quali che siano le ragioni che conducano ad escludere la debenza dell’imposta, costituisce, infatti, presupposto applicativo dell’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982 e non certamente limite al suo ambito di operatività. L’indicazione dei diversi tipi di imposta contenuta nella norma denunciata va evidentemente riferita al titolo della pretesa, indebita, esercitata dall’amministrazione finanziaria, con la conseguenza che la norma stessa deve ritenersi applicabile (per quanto qui rileva) ad ogni azione di ripetizione di somme indebitamente percepite dall’amministrazione a titolo di imposta di consumo.

5. Nel merito i rimettenti ritengono che la norma sia innanzitutto in contrasto con l’art. 24 Cost. in quanto, subordinando la ripetizione dell’indebito alla prova documentale che l’onere economico dell’imposta non è stato trasferito su altri soggetti, renderebbe in molti casi impossibile o comunque eccessivamente difficile l’esercizio del diritto.

La questione è fondata, nei limiti di seguito precisati.

5.1. Va premesso che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688, sollevata in riferimento al medesimo parametro, è già stata in passato esaminata da questa Corte, che è pervenuta a ripetute declaratorie di manifesta infondatezza (ordinanze nn. 651 e 807 del 1988 e nn. 172 e 197 del 1989).

Si afferma in buona sostanza in tali pronunce che la deroga apportata dalla norma in esame alla generale disciplina della ripetizione di indebito stabilita dall’art. 2033 del codice civile - consistente nel porre appunto a carico del solvens la prova della mancata traslazione dell’onere economico dell’imposta - non sarebbe di per sé lesiva del diritto di agire in giudizio e che tale diritto non sarebbe vanificato o illegittimamente compresso nemmeno dalla previsione della sola prova documentale.

Conclusioni che devono essere parzialmente riconsiderate, anche alla luce dei mutamenti del quadro normativo successivamente intervenuti.

5.2. Giova ricordare, al riguardo, che la Corte di giustizia delle Comunità europee, in sede di ricorso pregiudiziale ex art. 177 del trattato CEE, ebbe a suo tempo a ritenere - con esclusivo riferimento ai tributi nazionali riscossi in contrasto con quanto disposto dal diritto comunitario - l’incompatibilità dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688, con gli obblighi che il trattato CEE impone agli Stati membri in base all’assunto che, pur essendo consentito al sistema giuridico nazionale di subordinare il rimborso di tali tributi alla loro mancata traslazione, doveva, invece, escludersi la legittimità, in sede processuale, di qualsivoglia disciplina probatoria che, come quella sancita dalla citata norma, avesse l’effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (sentenza 9 novembre 1983, in causa 199/82).

La medesima Corte, con successiva sentenza del 24 marzo 1988 (in causa 104/86), ha ribadito il giudizio di contrarietà all’ordinamento comunitario della norma e ha dichiarato che la Repubblica italiana, mantenendola in vigore, è venuta meno agli obblighi ad essa imposti dal trattato.

In conseguenza di tali pronunce il legislatore è intervenuto con l’art. 29 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee), diversificando il regime della prova nell’azione di ripetizione dell’indebito tributario a seconda che i tributi di cui si chiede il rimborso abbiano o meno rilevanza per l’ordinamento comunitario. Mentre per i secondi si è mantenuta ferma (art. 29, terzo comma) l’applicabilità dell’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982, per quelli riscossi in violazione di norme comunitarie (art. 29, secondo comma) l’eventuale traslazione dell’imposta è stata configurata come fatto estintivo del diritto al rimborso, la cui prova spetta - secondo i principi - all’amministrazione convenuta.

Premesso che il sindacato della Corte è in questa sede limitato ai parametri costituzionali evocati dai rimettenti - tra i quali non figura l’art. 3 Cost., richiamato dalle sole parti private - la nuova disciplina dettata per il rimborso dei tributi riscossi in violazione di norme comunitarie, necessitata dalle pronunce della Corte di giustizia, risulta espressiva della necessità di garantire il diritto di agire in giudizio, per la ripetizione di imposte indebitamente corrisposte, in termini più ampi di quelli risultanti dall’art. 19 del decreto-legge n. 688 del 1982.

E se da un lato può ribadirsi che la mera inversione dell’onere della prova non è di per sé in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di materia indubbiamente rimessa alla discrezionalità del legislatore, deve per altro verso ritenersi che il prevedere che tale onere possa essere assolto solamente per mezzo della prova documentale - intesa evidentemente in senso tecnico - comporti una sicura lesione del diritto di agire in giudizio del solvens. Siffatta previsione viene infatti a subordinare la tutela giurisdizionale ad una prova che, secondo criteri di normalità, si palesa impossibile, non potendo in via generale essere ipotizzata l’esistenza di un documento contenente la diretta rappresentazione del fatto negativo costituito dalla mancata traslazione del peso economico di un’imposta.

Va perciò dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma denunciata, nella parte in cui prevede che la prova del mancato trasferimento su altri soggetti dell’onere economico dell’imposta possa essere fornita solo documentalmente, restando assorbita, in tale pronuncia, ogni altra e diversa censura formulata dai rimettenti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, nella parte in cui dispone che la prova ivi prevista possa essere data solo documentalmente.

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, sollevata dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza emessa il 9 ottobre 1998.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in cancelleria il 21 aprile 2000.