Sentenza n. 419/99

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 419

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Avv. Massimo VARI 

- Dott. Cesare RUPERTO 

- Dott. Riccardo CHIEPPA 

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY 

- Prof. Valerio ONIDA 

- Prof. Carlo MEZZANOTTE 

- Avv. Fernanda CONTRI 

- Prof. Guido NEPPI MODONA 

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof. Annibale MARINI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito, da ultimo, dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), promosso con ordinanza emessa il 20 ottobre 1998 dalla Corte d’appello di Trento nel procedimento civile vertente tra Clara Faceni e Luigia Marchesini ed altro, iscritta al n. 903 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Udito nella camera di consiglio del 23 giugno 1999 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza emessa il 20 ottobre 1998 nel corso di un giudizio promosso per la determinazione della quota della pensione di reversibilità da attribuire al coniuge divorziato, al quale il titolare della pensione deceduto era obbligato a somministrare un assegno, la Corte d’appello di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito, da ultimo, dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio).

La disposizione denunciata prevede che una quota della pensione e degli altri assegni spettanti al coniuge superstite, che abbia i requisiti per la pensione di reversibilità, è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto matrimoniale, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno previsto dall’art. 5 della stessa legge n. 898 del 1970.

La Corte d’appello ritiene di doversi attenere alla interpretazione, che condivide, data a questa disposizione dalla Corte di cassazione a sezioni unite, la quale, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, ha stabilito che la ripartizione del trattamento pensionistico di reversibilità tra il coniuge divorziato, titolare dell’assegno, ed il coniuge superstite, che abbia i requisiti per la pensione di reversibilità, deve essere effettuata esclusivamente in proporzione alla durata legale dei rispettivi matrimoni, senza che possa essere adottato alcun altro elemento di valutazione, neppure in funzione meramente correttiva del risultato matematico conseguito.

Tuttavia, ad avviso del giudice rimettente, questa interpretazione non consentirebbe di tenere conto delle esigenze del soggetto economicamente più debole, il quale potrebbe vedersi privato di ogni concreta tutela a causa dell’attribuzione all’ex coniuge di una quota rilevante della pensione di reversibilità, anche quando quest’ultimo non abbia esigenze di mantenimento paragonabili a quelle del coniuge superstite.

L’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, interpretato nel senso di attribuire esclusivo rilievo al criterio matematico ed automatico della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali, violerebbe i principi costituzionali di eguaglianza sostanziale e di solidarietà sociale, che caratterizzano il sistema pensionistico (artt. 3 e 38 Cost.), giacché la ripartizione della pensione in proporzione alla durata del matrimonio ostacolerebbe la finalità solidaristica della pensione di reversibilità, non consentendo di valutare le esigenze economiche dei diversi soggetti, tanto che adottando questo criterio potrebbe accadere che il coniuge superstite rimanga in una situazione di completa indigenza. Questo risultato sarebbe estraneo al sistema complessivo della legge sul divorzio, che tende invece a contemperare le esigenze di tutte le persone coinvolte nella vicenda matrimoniale, attribuendo al giudice il compito di provvedere in ciascun caso con una valutazione che tenga conto delle condizioni economiche di tutti i soggetti che vantano diritti patrimoniali.

Il giudice rimettente considera la soluzione del dubbio di legittimità costituzionale pregiudiziale rispetto alla decisione che è chiamato ad adottare, giacché nel caso sottoposto al suo esame l’applicazione del criterio di ripartizione stabilito dalla disposizione denunciata determinerebbe una forte sperequazione in danno del coniuge superstite, il quale, essendo privo di altre fonti di reddito, non riceverebbe quanto necessita, mentre l’ex coniuge percepirebbe una quota di pensione molto superiore all’importo dell’assegno ottenuto in sede di divorzio.

Considerato in diritto

1. ¾ La questione di legittimità costituzionale investe il criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite, che abbia i requisiti per ottenerla, e l’ex coniuge, al quale la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio abbia riconosciuto il diritto all’assegno, alla cui somministrazione era tenuto il titolare del diritto alla pensione, poi deceduto.

La Corte d’appello di Trento ritiene che l’art. 9, comma 3, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) ¾ nel testo sostituito, da ultimo, dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) ¾, prevedendo che la ripartizione dell’ammontare della pensione tra il coniuge e l’ex coniuge, se entrambi vi abbiano diritto, avvenga «tenendo conto della durata del rapporto», imponga di effettuare tale ripartizione esclusivamente secondo il criterio matematico della proporzione fra la estensione temporale dei rispettivi rapporti matrimoniali, senza che il giudice chiamato a determinare le quote di ripartizione della pensione possa utilizzare alcun altro criterio o correttivo, neppure quelli previsti per la determinazione della misura dell’assegno di divorzio, e senza che possa comparare le situazioni di bisogno delle persone che concorrono nella ripartizione della pensione.

Così interpretata, la disposizione denunciata violerebbe i princìpi di razionalità e di solidarietà sociale (artt. 3 e 38 Cost.). Difatti il criterio di ripartizione della pensione, fondato esclusivamente sulla durata del rapporto matrimoniale, porterebbe ad esiti irragionevoli e non suscettibili di correzione, privando delle risorse necessarie il coniuge superstite che versi in stato di bisogno, mentre l’ex coniuge potrebbe godere di un trattamento di molto superiore allo stesso assegno di divorzio.

2. ¾ La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

2.1. ¾ Nel disciplinare i rapporti patrimoniali tra coniugi in caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, il legislatore ha assicurato all’ex coniuge, al quale sia stato attribuito l’assegno di divorzio, la continuità del sostegno economico correlato al permanere di un effetto della solidarietà familiare, mediante la reversibilità della pensione che trae origine da un rapporto previdenziale anteriore al divorzio, o di una quota di tale pensione qualora esista un coniuge superstite che abbia anch’esso diritto alla reversibilità.

In questo caso la pensione di reversibilità realizza la sua funzione solidaristica in una duplice direzione.

Anzitutto nei confronti del coniuge superstite, come forma di ultrattività della solidarietà coniugale, consentendo la prosecuzione del sostentamento prima assicurato dal reddito del coniuge deceduto (sentenze n. 70 del 1999 e n. 18 del 1998).

In secondo luogo nei confronti dell’ex coniuge, il quale, avendo diritto a ricevere dal titolare diretto della pensione mezzi necessari per il proprio adeguato sostentamento, vede riconosciuta, per un verso, la continuità di questo sostegno e, per altro verso, la conservazione di un diritto, quello alla reversibilità di un trattamento pensionistico geneticamente collegato al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale. Si tratta, dunque, di un diritto alla pensione di reversibilità, che non è inerente alla semplice qualità di ex coniuge, ma che ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità attuale dell’assegno, la cui attribuzione ha trovato fondamento nell’esigenza di assicurare allo stesso ex coniuge mezzi adeguati (art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970).

 In presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo che si possa tenere conto, quale possibile correttivo, delle finalità e dei particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità. Ciò che, appunto, il criterio esclusivamente matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale non consente di fare. Difatti una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, né, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica propria di tale trattamento pensionistico, la esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perché il tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità.

La mancata considerazione di qualsiasi correttivo nell’applicazione del criterio matematico di ripartizione renderebbe possibile l’esito paradossale indicato dal giudice rimettente, il quale sottolinea come, con l’applicazione di tale criterio, il coniuge superstite potrebbe conseguire una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita, mentre l’ex coniuge potrebbe conseguire una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto, senza che il tribunale possa tener conto di altri criteri per ricondurre ad equità la situazione.

2.2. ¾ La disposizione denunciata si presta tuttavia ad una diversa interpretazione, che rispecchia un altro orientamento, sia della giurisprudenza di legittimità sia di larga parte della dottrina.

La ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge deve essere disposta «tenendo conto» della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali (art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970). A questa espressione non può essere tuttavia attribuito un significato diverso da quello letterale: il giudice deve "tenere conto" dell’elemento temporale, la cui valutazione non può in nessun caso mancare; anzi a tale elemento può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo, ma non sino a divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico. Una conferma del significato relativo della espressione «tenendo conto» si trova nel sistema della stessa legge, che altre volte usa la medesima espressione per riferirsi a circostanze da considerare quali elementi rimessi alla ponderazione del giudice; e ciò proprio per definire i rapporti patrimoniali derivanti dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970).

La diversa interpretazione, che porta alla ripartizione dell’ammontare della pensione esclusivamente in attuazione di una proporzione matematica, non giustificherebbe, tra l’altro, la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione, come avviene in altri casi nei quali la ripartizione tra più soggetti che concorrono al trattamento di reversibilità è stabilita in base ad aliquote fissate direttamente dal legislatore.

Del resto, quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970).

Conclusivamente è da ritenere che si possa ricavare dalla disposizione denunciata un contenuto normativo che non è in contrasto con i princìpi indicati per la verifica di legittimità costituzionale. Questa interpretazione deve essere preferita, conservando all’ordinamento una norma nel significato, che la disposizione può esprimere, compatibile con la Costituzione.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito, da ultimo, dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 4 novembre 1999.