Sentenza n. 400/99

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SENTENZA N. 400

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.  Renato GRANATA, Presidente

- Prof.  Cesare MIRABELLI   

- Prof.  Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv.  Massimo VARI   

- Dott.  Cesare RUPERTO  

- Dott.  Riccardo CHIEPPA   

- Prof.  Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.  Valerio ONIDA   

- Prof.  Carlo MEZZANOTTE   

- Avv.  Fernanda CONTRI   

- Prof.  Guido NEPPI MODONA  

- Prof.  Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.  Annibale MARINI   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), promosso con ordinanza emessa il 15 novembre 1997 dal Pretore di Pisa sul ricorso proposto da Salvini Isabella contro l'INPS, iscritta al n. 911 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1998.

Visti gli atti di costituzione di Salvini Isabella e dell'INPS;

udito nell'udienza pubblica del 13 aprile 1999 il Giudice relatore Fernanda Contri;

uditi gli avvocati Silvano Piccininno per Salvini Isabella e Carlo De Angelis per l'INPS.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un giudizio promosso da Isabella Salvini contro l’INPS, il Pretore di Pisa ha sollevato, in riferimento all’art. 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).

Il procedimento a quo è stato instaurato dalla ricorrente per chiedere il riconoscimento del diritto alla “pensione sociale”, secondo i princìpi formulati nella sentenza di questa Corte n. 88 del 1992, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) - come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114 e dall’art. 3 della legge 3 giugno 1975, n. 160 - nella parte in cui, nell’indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevede un meccanismo differenziato di determinazione per gli ultrasessantacinquenni divenuti invalidi (dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età).

Il giudice a quo - che, in relazione al reddito dichiarato dalla ricorrente per il 1996, afferma la rilevanza della questione sollevata - ritiene il principio formulato dalla Corte nel dispositivo della decisione menzionata applicabile anche “nelle ipotesi in cui l’aspirante al trattamento sociale sia soggetto monoreddito”, in quanto sarebbe identica la posizione del soggetto anziano invalido coniugato e singolo.

Ad avviso del rimettente, il legislatore, con l’impugnato art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995, che ha riformato il sistema di intervento in favore degli anziani indigenti, nel sostituire la pensione sociale con l’assegno sociale, avrebbe illegittimamente omesso di prevedere limiti di reddito differenziati per soggetti ultrasessantacinquenni indigenti non invalidi e soggetti ultrasessantacinquenni indigenti divenuti invalidi dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Il legislatore, in particolare, avrebbe disatteso i princìpi affermati nella citata sentenza n. 88 del 1992, secondo la quale “la previsione rigida e indiscriminata del cumulo per tutti gli anziani - e cioè sia per coloro che vedano normalmente scemate le proprie energie per la vecchiaia, sia per coloro che invece divengano effettivamente e propriamente invalidi, e di conseguenza incapaci di attendere in piena autonomia alle attività e alle occupazioni proprie della loro età - non può non dirsi in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost.”.

Né, osserva il Pretore di Pisa, è più possibile ricorrere alla determinazione giudiziale di un diverso limite di reddito per gli aventi diritto all’assegno sociale divenuti invalidi dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età, poiché “l’istituto è mutato nella sua struttura e poiché è ipotizzabile che l’intenzione del legislatore sia stata proprio quella di escludere dal beneficio gli anziani invalidi aventi un reddito superiore rispetto a quello ex novo previsto dall’art. 3, comma 6” della legge n. 335 del 1995.

2. - Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituita la ricorrente nel procedimento civile a quo svolgendo deduzioni del tutto solidali con l’ordinanza di rimessione.

Ad avviso della ricorrente nel giudizio principale, i princìpi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 88 del 1992 “possono essere applicati, per analogia, anche in relazione all’assegno sociale introdotto dall’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995”.

3. - Nel presente giudizio costituzionale, si è costituito anche l’INPS, per chiedere che la questione sollevata dal Pretore di Pisa sia dichiarata infondata.

L’INPS deduce che la scelta legislativa di parificare il limite di reddito individuale per la concessione dell’assegno mensile di invalidità parziale e quello stabilito per la pensione sociale “sta a significare che solo queste due categorie sono state ricondotte sotto un unico principio, ossia il livellamento dei redditi; rimane, viceversa, autonomamente e diversamente disciplinata l’invalidità totale”. Di conseguenza, osserva la parte convenuta nel procedimento principale, “la volontà del legislatore di non parificare la pensione sociale a quest’ultimo trattamento è indubbia”.

Richiamando la sentenza di questa Corte n. 196 del 1995, l’INPS conclude che la necessaria opera di omogeneizzazione dei vari sistemi di protezione, per la complessità delle scelte che essa implica, compete al legislatore.

4. - In prossimità dell'udienza, la parte ricorrente nel giudizio a quo ha depositato una memoria illustrativa per argomentare ulteriormente la fondatezza della questione sollevata dal Pretore di Pisa e per replicare a quanto dedotto dall'INPS con l'atto di costituzione.

In particolare, al riferimento operato dall'INPS alla volontà del legislatore di non parificare la pensione sociale al trattamento previsto per l'invalidità totale, la parte privata obietta che "è appunto di tale volontà … e della sua coerenza con i principi costituzionali che il Pretore di Pisa a ragione dubita".

Né, si legge nella memoria illustrativa, il richiamo alla sentenza n. 196 del 1995 può attenuare il dubbio prospettato dal rimettente.

La decisione di accoglimento che viene auspicata nella memoria dovrebbe, secondo la parte attrice nel giudizio a quo, dichiarare la disposizione impugnata costituzionalmente illegittima "nella parte in cui non prevede, ai fini del diritto all'assegno sociale, un meccanismo differenziato di determinazione del limite di reddito in favore degli anziani ultrasessantacinquenni divenuti invalidi". Si tratterebbe di una sentenza additiva di principio rispettosa della sfera riservata alla discrezionalità del legislatore e, sempre ad avviso della ricorrente nel procedimento a quo, non immediatamente produttiva di nuovi oneri per la finanza pubblica.

Per quanto riguarda il richiamo alla sentenza n. 88 del 1992, sul quale si basa l'ordinanza di rimessione, nella memoria si nega che assuma rilievo la circostanza che, diversamente che nel caso all'origine del giudizio definito con la predetta decisione, la questione sollevata dal Pretore di Pisa abbia riguardo a soggetti non coniugati o, comunque, monoreddito. Ancorché "non venga in rilievo un problema di actio finium regundorum tra solidarietà coniugale e solidarietà sociale", si osserva, resta fermo quanto già rilevato da questa Corte circa la diversità tra la situazione di chi dopo il sessantacinquesimo anno di età veda normalmente scemare le proprie energie per la vecchiaia e quella di chi, dopo il sessantacinquesimo anno, divenga "effettivamente e propriamente invalido".

5. - Anche l'INPS ha depositato una memoria in prossimità della data fissata per l'udienza, per insistere nella richiesta di una declaratoria di infondatezza della questione sollevata dal Pretore di Pisa.

L'INPS sottolinea l'incertezza e la disomogeneità della giurisprudenza di merito successiva alla sentenza n. 88 del 1992, a ulteriore dimostrazione dell'esclusiva competenza del legislatore in ordine all'attuazione dei principi formulati da questa Corte nella predetta sentenza additiva di principio. La parte convenuta nel procedimento civile a quo afferma in conclusione la necessità di un provvedimento legislativo per la configurazione di un meccanismo differenziato di determinazione del limite di reddito ai fini dell'erogazione della prestazione di cui si tratta.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Pisa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nella parte in cui, ai fini della corresponsione dell’assegno sociale agli ultrasessantacinquenni, non differenzia le condizioni reddituali cui viene subordinato l’accesso alla prestazione, a seconda che si tratti di soggetti non invalidi ovvero di soggetti divenuti invalidi dopo tale soglia di età. Il rimettente prospetta la violazione dell’art. 38, primo comma, della Costituzione, assumendo la piena applicabilità, all’impugnata disciplina dell’assegno sociale, dei princìpi formulati nella sentenza di questa Corte n. 88 del 1992, con implicita evocazione dell’art. 3 della Costituzione.

In particolare, il rimettente si domanda se l’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 (che, a partire dal 1° gennaio 1996, sostituisce la pensione sociale con l’assegno sociale e a norma del quale, se il soggetto possiede redditi propri, l’assegno è attribuito in misura ridotta fino a concorrenza dell’importo in esso indicato, se l'assistito non è coniugato, ovvero fino al doppio di tale importo, se coniugato), violi l’art. 38 della Costituzione, giacché, come affermato nella sentenza n. 88 del 1992, con riferimento al cumulo con il reddito del coniuge, “la previsione rigida e indiscriminata dello stesso limite reddituale per tutti gli anziani - e cioè sia per coloro che vedano normalmente scemate le proprie energie per la vecchiaia, sia per coloro che invece divengano effettivamente e propriamente invalidi, e di conseguenza incapaci di attendere in piena autonomia alle attività e alle occupazioni proprie della loro età - non può non dirsi in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost.”.

2. - La questione non è fondata.

3. - Occorre premettere che i princìpi a suo tempo formulati con la sentenza n. 88 del 1992 non possono essere integralmente estesi alle disposizioni sul limite reddituale individuale, di cui si tratta nel procedimento civile a quo, poiché in quella pronuncia è oggetto di scrutinio di costituzionalità la disciplina legislativa del rapporto tra solidarietà coniugale e solidarietà collettiva ai fini dell’erogazione della prestazione destinata ai soggetti sprovvisti di reddito; disciplina che non assume rilievo nell’ipotesi ora all’esame della Corte, concernente il limite di reddito individuale.

Nel subordinare taluni trattamenti assistenziali a limiti di reddito individuale e a limiti di reddito cumulato, il legislatore mostra infatti di non ispirarsi, nelle due ipotesi, ad una ratio del tutto identica. La previsione di un limite di reddito cumulato, e pertanto la scelta legislativa di annettere al reddito del coniuge un significato ostativo, è frutto di una specifica e solo eventuale opzione di particolare rigore, giustificata dall'esistenza dell’obbligo di assistenza derivante dal rapporto coniugale.

Ciò trova conferma nella circostanza che, in ordine ad alcuni trattamenti assistenziali, il legislatore ha dato rilievo - ai fini dell’erogazione della prestazione - al solo limite di reddito individuale, come nel caso della pensione di inabilità (art. 14-septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, introdotto con la legge di conversione 29 febbraio 1980, n. 33) e nel caso dell’assegno corrisposto agli invalidi parziali (art. 14-septies del citato decreto-legge; art. 9 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 54; art. 12 della legge 30 dicembre 1991, n. 412), oltre che nelle ipotesi di pensione sociale sostitutiva dei predetti trattamenti; mentre in altri casi il limite di reddito cumulato con quello del coniuge non corrisponde al doppio del limite reddituale individuale, come invece dovrebbe essere, se il principio del limite di reddito cumulato rispondesse alla medesima logica del limite reddituale individuale.

A quest’ultimo riguardo, va ricordata la stessa disciplina delle condizioni reddituali di cui all’art. 26 della legge n. 153 del 1969, che subordina la corresponsione della pensione sociale al mancato superamento di un limite di reddito cumulato con quello del coniuge, di importo decisamente superiore al doppio del limite reddituale individuale, secondo un criterio che l’impugnata disciplina dell’assegno sociale modifica sensibilmente, nel senso di maggior rigore, prevedendo un limite di reddito cumulato pari soltanto al doppio del limite di reddito individuale.

Quanto al rilievo assegnato al reddito cumulato, questa Corte, ancora di recente, seppure con riferimento ai limiti di reddito riguardanti l’attribuzione dell’integrazione al trattamento minimo, ha avuto modo di affermare la legittimità costituzionale della previsione del cumulo con i redditi del coniuge, a condizione che, in tal caso, “l’importo che esclude l’attribuzione della integrazione al minimo ... sia adeguatamente superiore all’importo dei redditi propri del titolare della pensione che determina la medesima esclusione” (sentenza n. 127 del 1997).

Va aggiunto che, ove si accogliesse la questione prospettata dal rimettente, in favore dei soggetti divenuti parzialmente invalidi dopo il compimento del sessantacinquestimo anno di età, si verrebbe a creare - con inammissibile interferenza nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore - un regime più favorevole sia rispetto a quello proprio degli invalidi infrasessantacinquenni, sia rispetto a quello applicabile ai soggetti titolari di pensione od assegno sociale attribuiti in sostituzione di un precedente assegno di invalidità, a séguito dell’accertamento dell’invalidità parziale in epoca antecedente al superamento della soglia di età che dà accesso alla pensione od all’assegno sociale.

4. - L’impostazione che il rimettente ritiene preferibile conduce infatti a riconoscere il soggetto indigente divenuto invalido dopo il sessantacinquesimo anno - in quanto afflitto da un duplice svantaggio: la vecchiaia e l’invalidità, seppure parziale - meritevole di tutela più intensa non solo rispetto al soggetto ultrasessantacinquenne solo indigente, ma anche rispetto all’infrasessantacinquenne titolare di assegno mensile per invalidità parziale ed al soggetto riconosciuto invalido parziale prima dei sessantacinque anni che, compiuto il sessantacinquesimo anno, veda trasformato il proprio assegno mensile per l’invalidità parziale in pensione o assegno sociale.

L’attribuzione della pensione o dell’assegno sociale erogati in sostituzione della pensione corrisposta ai soggetti totalmente inabili (art. 12 della legge n. 118 del 1971) e dell’assegno mensile per l’invalidità parziale (art. 13 della medesima legge) risulta subordinata agli stessi limiti di reddito previsti per tali prestazioni, i quali, per altro, risultano più favorevoli di quelli previsti ai fini della pensione o dell’assegno sociale solo nel caso della pensione di inabilità. L’art. 13, comma 3, della legge n. 412 del 1991 ha infatti equiparato i limiti di reddito individuale cui è subordinato il riconoscimento dell’assegno mensile per il soggetto parzialmente invalido ed il riconoscimento della pensione sociale.

5. - La questione va, dunque, circoscritta all’ipotesi di invalidità comportante una totale inabilità lavorativa, accertata dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età, sia perché questo è il caso sottoposto alla cognizione del giudice a quo, sia in considerazione della “tendenziale indistinguibilità fra lo stato di invalidità parziale e quello di vecchiaia” (v. sentenza n. 196 del 1995), che lo stesso legislatore ha implicitamente riconosciuto, introducendo il citato art. 13, comma 3, della legge n. 412 del 1991, il quale ha equiparato le condizioni reddituali cui sono subordinati sia il riconoscimento dell’assegno mensile per l’invalidità parziale sia il riconoscimento della pensione sociale, disponendo che, ai fini dell’accertamento della condizione reddituale per la concessione delle pensioni assistenziali agli invalidi civili - con esclusione dei ciechi, dei sordomuti e degli invalidi totali - da parte del Ministero dell’interno, si applica il limite di reddito individuale stabilito per la concessione della pensione sociale da parte dell’INPS.

Ma ad impedire di estendere alla disciplina dell’assegno sociale le valutazioni della sentenza n. 88 del 1992 è - più ancora che l’attinenza delle stesse al limite di reddito cumulato - il quadro complessivo della riforma, in cui si inserisce la nuova prestazione assistenziale prevista dall’ordinamento per coloro che versano in situazione di indigenza. Riforma operata con la legge n. 335 del 1995 in attuazione dell’art. 38 della Costituzione, che si caratterizza, innanzitutto, per i dichiarati obiettivi di contenimento della spesa previdenziale (art. 1, commi 1-5), oggetto di un bilanciamento in parte discrezionalmente effettuato dal legislatore del 1995 e in parte demandato a provvedimenti delegati sulla base dei criteri e dei princìpi contenuti nell’art. 3, comma 3.

6. - Una riconsiderazione della complessiva disciplina dei rapporti tra misure assistenziali e prestazioni previdenziali, nella materia delle provvidenze per i soggetti sprovvisti di reddito è imposta anche dal passaggio graduale ad un sistema previdenziale di tipo contributivo. A norma dell’art. 1, comma 6, della legge n. 335 del 1995, “alle pensioni liquidate esclusivamente con il sistema contributivo non si applicano le disposizioni sull’integrazione al minimo” (art. 1, comma 16). Si tratta di una disposizione che, nelle intenzioni del legislatore della riforma, configura l’assegno sociale come prestazione unica destinata a sostituire, nell’immediato, la pensione sociale.

Inserito in un contesto normativo notevolmente diverso da quello nel quale si inseriva la disciplina della pensione sociale scrutinata da questa Corte nel 1992, l’assegno sociale, in termini ancor più accentuati rispetto alla pensione sociale, fa fronte a quel particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza, risultando altre prestazioni - assistenza sanitaria, indennità di accompagnamento - preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da grave invalidità o non autosufficienza, insorte in un momento nel quale non vi è più ragione per annettere significato alla riduzione della capacità lavorativa, elemento che, per contro, caratterizza le prestazioni assistenziali in favore dei soggetti infrasessantacinquenni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), sollevata, in riferimento all’art. 38 della Costituzione, dal Pretore di Pisa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 29 ottobre 1999.