Ordinanza n. 277/99

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ORDINANZA N. 277

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 marzo 1997 dal Tribunale di Pistoia, iscritta al n. 325 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 1999 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, con ordinanza del 17 marzo 1997, il Tribunale di Pistoia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che, come componente del tribunale del riesame o dell'appello, si sia pronunciato sull'ordinanza che ha disposto una misura cautelare personale nei confronti di quello stesso imputato in altro procedimento per reato diverso, il cui accertamento sia pregiudizialmente connesso a quello su cui é chiamato a giudicare;

che il remittente premette:

– che il giudizio a quo concerne alcuni imputati di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta reale e documentale relativo a società dichiarata fallita;

– che i beni che sarebbero stati sottratti dagli amministratori consistono nelle somme di danaro ricevute dalla società fallita in relazione a compravendite e a contestuali contratti di locazione finanziaria, in riferimento ai quali si é proceduto separatamente nei confronti degli stessi imputati per i reati di truffa aggravata e di associazione a delinquere;

– che ad alcuni degli imputati sottoposti al suo giudizio per il delitto di bancarotta é stato contestato il ruolo di promotori ed organizzatori dell'associazione a delinquere, reato per il quale é pendente separato procedimento innanzi al medesimo tribunale in una diversa composizione;

– che due dei componenti del collegio, chiamato a giudicare sul reato di bancarotta, hanno fatto parte del tribunale del riesame e dell'appello che si é pronunciato, nell'ambito del procedimento separato, sulle impugnazioni proposte da uno degli imputati avverso provvedimenti emessi dal Giudice per le indagini preliminari sulla sua libertà personale;

che, ad avviso del remittente, la prova dell'esistenza dell'associazione a delinquere e del ruolo in essa svolto da quest'ultimo imputato sarebbe decisiva in ordine al contestato suo concorso nel reato di bancarotta, poichè, tra l'altro, i beni distratti sarebbero consistiti proprio nei proventi delle truffe, reati ai quali l'associazione stessa era finalizzata;

che, secondo il giudice a quo, il caso sottoposto al suo esame non sarebbe previsto tra le cause di incompatibilità fissate dall'art. 34 del codice di procedura penale a seguito delle numerose pronunce additive di questa Corte, e, in particolare, a seguito della sentenza n. 371 del 1996;

che, infatti, questa sentenza, con la quale la Corte ha "superato" l'identità del procedimento come presupposto per l'incompatibilità del giudice, richiede la sussistenza, sempre ai fini dell'incompatibilità, di determinate condizioni, che non ricorrerebbero nella fattispecie, e cioé che si tratti di un unico reato a concorso necessario o eventuale, che l'atto processuale compiuto nel procedimento a carico di uno dei presunti concorrenti abbia comportato una penetrante valutazione di merito in ordine alla responsabilità penale di altro soggetto non imputato in quel procedimento, e, infine, che detta valutazione, anche solo incidentale, sia contenuta in una sentenza;

che, tuttavia, secondo il remittente, le stesse ragioni che hanno determinato la citata decisione di questa Corte sarebbero estensibili anche alla fattispecie sottoposta al suo esame, nella quale il giudice si sarebbe in precedenza pronunciato "in modo altrettanto penetrante", non avendo rilievo alcuno "la forma del provvedimento che determina il sospetto di prevenzione", poichè l'art. 34 cod. proc. pen. nella sua formulazione originaria riguarderebbe anche atti processuali diversi dalla sentenza;

che, in particolare, la mancata previsione di questa causa di incompatibilità sarebbe lesiva degli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto, nel caso sottoposto al suo esame, la valutazione conclusiva di responsabilità potrebbe essere o apparire condizionata dalla propensione del giudice a confermare una sua precedente decisione, dato l'intimo collegamento esistente sul piano probatorio processuale e su quello sostanziale tra i due reati per i quali si é proceduto separatamente, in quanto la prova del concorso dell'imputato nei reati fallimentari si fonderebbe sulla sua partecipazione alla associazione a delinquere e lo scopo dell'associazione e delle relative truffe si identificherebbe sostanzialmente nella distrazione fallimentare;

che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Considerato che, successivamente alla proposizione della questione oggetto del presente giudizio, questa Corte, con la sentenza n. 331 del 1997, ha dichiarato inammissibile analoga questione di costituzionalità, rinviando alle sue pronunce nn. 306, 307 e 308 del 1997 per l'individuazione dei limiti entro i quali il principio del giusto processo postula la previsione di un'ipotesi di incompatibilità e chiarendo che, se il pregiudizio deriva non da una sentenza, ma, come si assume essere avvenuto nel caso di specie, da un'ordinanza adottata in un procedimento diverso, lo strumento di tutela non può essere ravvisato in ulteriori sentenze additive sull'art. 34 cod. proc. pen., ma deve essere ricercato nell'area degli istituti dell'astensione e della ricusazione, anch'essi preordinati alla salvaguardia della terzietà del giudice;

che i precedenti appena citati sono idonei ad offrire la soluzione della presente questione, poichè le pronunce in sede di riesame o di appello su aspetti non esclusivamente formali delle misure cautelari personali sono adottate con ordinanza e comportano valutazioni del medesimo genere di quelle compiute dal giudice in sede di applicazione di tali misure (sentenza n. 131 del 1996);

che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Pistoia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 30 giugno 1999.