Sentenza n. 271/99

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SENTENZA N. 271

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), promosso con ordinanza emessa il 18 marzo 1997 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra Buono Maria Rosaria e l’ENEL s.p.a. – Compartimento di Napoli iscritta al n. 639 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1999 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

Nel corso di una controversia promossa per la corresponsione dell’indennità di maternità la Corte di cassazione, Sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, della Costituzione.

In punto di fatto la Corte di cassazione premette che la lavoratrice, il cui rapporto di lavoro a tempo pieno era stato trasformato in rapporto a tempo parziale a decorrere dal gennaio 1988, aveva concordato con il datore di lavoro la cessazione di quest’ultima modalità dal 31 marzo 1990, sicchè dal successivo 1° aprile il lavoro avrebbe ripreso le modalità del tempo pieno. Senonchè proprio a far data dal 1° aprile 1990 la lavoratrice era stata collocata in aspettativa per maternità ai sensi dell’art. 5 della legge n. 1204 del 1971, ed il datore di lavoro le aveva corrisposto la relativa indennità assumendo come parametro la retribuzione percepita durante il part-time, e non quella percepita durante il tempo pieno.

Promosso il giudizio per il riconoscimento dell’indennità in misura proporzionata alla retribuzione ricevuta durante il periodo del tempo pieno, la relativa domanda era stata accolta in primo grado e respinta in appello, sicchè la lavoratrice aveva avanzato ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado.

Sulla base di queste osservazioni la Corte di cassazione nota che l’art. 16 della legge n. 1204 del 1971 fissa come parametro di calcolo della retribuzione ai fini del computo dell’indennità di maternità "la retribuzione media globale giornaliera percepita nel periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità". Siffatta formulazione non consente, secondo il giudice a quo, alcuna interpretazione diversa da quella fatta propria dal giudice d’appello, il che dovrebbe portare al rigetto del ricorso ed alla conferma dell’impugnata sentenza.

La Cassazione osserva però che una simile interpretazione, che é l’unica possibile, imponendo nel caso di specie di commisurare l’indennità di maternità alla retribuzione percepita durante il part-time, mentre era già concordata tra le parti la ripresa del lavoro a tempo pieno, confligge con le finalità dell’indennità stessa, più volte richiamate dalla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, la sentenza n. 132 del 1991 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, "nella parte in cui, per le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, allorquando il periodo di astensione obbligatoria abbia inizio più di 60 giorni dopo la cessazione della precedente fase di lavoro, esclude il diritto all’indennità giornaliera di maternità, anche in relazione ai previsti successivi periodi di ripresa dell’attività lavorativa". La Corte costituzionale ha quindi riconosciuto che l’indennità di maternità, la cui funzione é quella di garantire alla donna lavoratrice il mantenimento della necessaria tranquillità economica in una fase tanto importante della vita sua e del bambino, deve essere corrisposta anche in mancanza di un lavoro in atto nel momento in cui inizia il periodo di astensione obbligatoria, a condizione che la lavoratrice non si sia volontariamente allontanata dal circuito lavorativo. Diversamente argomentando, infatti, la donna verrebbe a perdere una retribuzione che avrebbe certamente conseguito in assenza della gravidanza e del puerperio.

I principi enunciati nella sentenza ora richiamata paiono al giudice a quo pienamente adattabili al diverso caso in esame, nel quale la lavoratrice, pur essendo formalmente in part-time all’inizio del periodo di astensione, avrebbe certamente prestato il proprio lavoro a tempo pieno durante il prosieguo, in assenza della gravidanza. E nel caso specifico, non avendo il rapporto di lavoro subito alcun sostanziale mutamento, negare la commisurazione dell’indennità alla retribuzione conseguita durante il tempo pieno si risolve in una violazione degli indicati parametri. E’ irragionevole, infatti, la discriminazione che si viene a creare tra la lavoratrice che ha sempre prestato il proprio lavoro a tempo pieno e quella che ha, solo occasionalmente, collaborato a tempo parziale; la decurtazione dell’indennità, inoltre, si risolve in una riduzione di tutela economica della famiglia ed in una compressione del diritto della donna lavoratrice a svolgere le proprie funzioni di madre.

Considerato in diritto

1.— La Corte di cassazione, Sezione lavoro, dubita che l'art. 16, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, "nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, nel quale ultimo abbia inizio o venga comunque a protrarsi il periodo di astensione obbligatoria della lavoratrice, l’indennità di maternità debba essere determinata con riferimento alla retribuzione che sarebbe a costei spettata in relazione al regime a tempo pieno", sia in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, della Costituzione.

Dal complessivo contenuto dell’ordinanza si evince che il punto cruciale della questione, individuato attraverso il richiamo alla sentenza n. 132 del 1991 di questa Corte, consiste nella presunta diminuzione del reddito che la lavoratrice part-time verrebbe a subire, in conseguenza dell’astensione obbligatoria per maternità, in costanza di una già concordata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.

2.— La questione non é fondata.

3.— Giova premettere che la norma sottoposta allo scrutinio della Corte dispone testualmente che la misura della retribuzione rilevante ai fini della determinazione dell’indennità di maternità (fissata, in base al precedente art. 15, nell’ottanta per cento della retribuzione per tutto il periodo di astensione obbligatoria) é quella "percepita nel periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità". Occorre tuttavia rilevare che già dallo stesso art. 16 della legge del 1971 risulta che tale criterio non é l’unico utilizzato dalla legge, poichè i commi successivi al primo consentono di considerare – per la retribuzione da assumere come parametro – anche altri elementi, ivi comprese le esigenze particolari dell’azienda e della lavoratrice.

Indipendentemente da questa precisazione, la Corte osserva che, mentre la tutela delle lavoratrici madri ha ricevuto una regolazione legislativa fin dal 1971 (appunto con la legge n. 1204), una vera e propria normativa sul lavoro part-time si é avuta solo in epoca successiva, in particolare con l’art. 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 19 dicembre 1984, n. 863. Da quel momento il lavoro part-time é stato oggetto di diversi altri interventi legislativi, anche in materia di pubblico impiego.

Da tanto consegue che i rapporti intercorrenti tra determinazione dell’indennità di maternità ed eventuale trasformazione del rapporto di lavoro (da tempo pieno a tempo parziale o viceversa) non sono espressamente disciplinati dalla norma oggi impugnata, e ciò spiega l’apparente lacuna segnalata dalla Corte rimettente. In realtà, l’ipotesi di una trasformazione del rapporto é stata riconosciuta dalla normativa del 1984, come si evince dal comma 11 del citato art. 5 del decreto-legge n. 726 del 1984, che ha regolato tale trasformazione, i cui effetti si riverberano anche sulla determinazione dell’ammontare del trattamento pensionistico.

Questa Corte ha già avuto modo di scrutinare, con la menzionata sentenza n. 132 del 1991, un diverso articolo della legge n. 1204 del 1971 e di dichiararne l’illegittimità costituzionale sotto il profilo del rapporto esistente tra una particolare figura di part-time, quello cosiddetto verticale, e la spettanza dell’indennità di maternità; anche nel presente giudizio é una norma della stessa legge del 1971, benchè dettata in un momento storico precedente rispetto a quello d’introduzione del part–time, quella da prendere in considerazione per la risoluzione di un’analoga questione in tema di misura dell’indennità di maternità.

Sono d’altronde evidenti l’identità di ratio tra le due situazioni ed il collegamento esistente tra la tutela delle lavoratrici madri ed il nuovo fenomeno del lavoro a tempo parziale.

4.— Ciò posto per il corretto inquadramento della questione, la medesima appare infondata alla luce dell’interpretazione delle disposizioni in esame, nel quadro dei principi che regolano la materia.

È indubbio che l’art. 16 della legge n. 1204 del 1971, con una regola ancorata all’id quod plerumque accidit, colleghi il computo dell’indennità di maternità all’ultima retribuzione percepita nel periodo antecedente rispetto a quello dell’astensione e che continuerebbe ad essere percepito se non si verificasse l’astensione. Tale previsione, però, dettata per evitare facili frodi nei confronti dell’ente assicurativo, va letta nell’àmbito di una prospettiva sistematica.

La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo stabilito alcuni fondamentali criteri che devono guidare l’interprete nella ricostruzione della disciplina a tutela delle lavoratrici madri. In particolare, si é ribadito in più di un’occasione che l’astensione obbligatoria di cui all’art. 4 della legge n. 1204 del 1971 ha il fine di proteggere la salute della donna nel periodo precedente ed immediatamente successivo al parto, sottolineandosi peraltro che la tutela della madre "non si fonda solo sulla condizione di donna che ha partorito, ma anche sulla funzione che essa esercita nei confronti del bambino", avendo quindi come obiettivo la protezione della salute di entrambi (sentenza n. 1 del 1987). Per assicurare tale obiettivo occorre rimuovere quegli ostacoli di ordine economico che renderebbero in concreto più difficile per la donna lo svolgimento del proprio insostituibile ruolo di madre; di qui la necessità di evitare che dalla disciplina del rapporto di lavoro derivi una sostanziale menomazione economica a motivo della maternità (v., le sentenze n. 3 del 1998, 423 del 1995, n. 150 del 1994).

Queste essendo, dunque, le finalità e le ragioni della normativa di protezione delle lavoratrici madri, la questione oggi posta dalla Corte di cassazione può ricevere una soluzione interpretativa, senza che la norma offra il fianco alle lamentate censure di incostituzionalità. Ed infatti, qualora la lavoratrice ed il datore abbiano già concordato, come nel caso di specie, la ripresa del lavoro con le modalità del tempo pieno per un periodo coincidente in parte con quello dell’astensione obbligatoria, sottrarre alla donna il diritto alla corresponsione dell’indennità di maternità calcolata in base alla retribuzione fissata per il tempo pieno si tradurrebbe in una violazione degli obiettivi appena richiamati. Ne consegue, perciò, che l’indennità può non essere commisurata alla retribuzione costituente il corrispettivo del lavoro che la donna avrebbe normalmente svolto nel periodo di sospensione.

In questo senso é pertinente il richiamo che l’ordinanza di rimessione fa alla menzionata sentenza costituzionale n. 132 del 1991, perchè in quel caso come in quello presente la donna, "per effetto della maternità, viene a perdere una retribuzione di cui avrebbe certamente - e non solo probabilmente - goduto se non si fosse dovuta astenere dal lavoro in ragione del suo stato". Le medesime argomentazioni utilizzate nella citata pronuncia in ordine all’an valgono oggi, pur con i diversi aspetti delle due situazioni, in rapporto al quantum.

Se la norma ora impugnata non poteva prevedere, per le ragioni già viste, che in caso di concordata trasformazione del rapporto di lavoro valesse il principio della retribuzione più favorevole alla lavoratrice–madre, tale lettura non é impedita dal testo della legge, ove lo stesso venga interpretato nel nuovo contesto normativo in relazione alle finalità che il legislatore del 1971 intendeva perseguire.

Tale corretta interpretazione, in armonia con i richiamati principi, appare alla Corte idonea alla soluzione della presente questione sottraendo la norma a profili di incostituzionalità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, Sezione lavoro, con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 30 giugno 1999.