Sentenza n. 241/99

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SENTENZA N. 241

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 luglio 1997 dalla Corte d'appello di Venezia, iscritta al n. 668 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1999 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza in data 9 luglio 1997, la Corte d'appello di Venezia, nel corso di un procedimento di ricusazione, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti del medesimo imputato su reato formalmente concorrente, ai sensi dell'art. 81, comma primo, cod. pen., con quello sul quale é chiamato a decidere.

Il remittente premette che la dichiarazione di ricusazione é stata proposta nei confronti dei componenti del Tribunale di Rovigo, in quanto i fatti addebitati al ricusante (violazione della legge penale tributaria di cui all'art. 1, comma 2, lettera b, della legge 7 agosto 1982, n. 516) integrerebbero un reato in concorso formale con il delitto di bancarotta (artt. 223, in relazione all'art. 216, comma primo, numero 1, e 219 della legge fallimentare) per il quale egli é già stato giudicato da quel tribunale nella medesima composizione.

Il giudice a quo ricorda che il criterio della "forza della prevenzione" ha condotto questa Corte a negare che il giudice, il quale si sia pronunciato sulla res iudicanda, anche solo per valutare la sussistenza di gravi indizi di reità, possa poi pronunciare o concorrere a pronunciare sentenza nel medesimo processo, e ad affermare, con la sentenza n. 371 del 1996, l'incompatibilità del giudice che si sia espresso in sentenza, sia pure incidenter tantum, sulla posizione collegata di un terzo.

A suo avviso, la situazione prospettata non potrebbe dirsi risolta dalla citata sentenza n. 371 del 1996 per un duplice ordine di ragioni: quella sentenza riguarda l'ipotesi in cui il giudice si sia espresso sulla posizione di un terzo, laddove nel caso di specie si tratterebbe di pronuncia relativa ad imputato in un precedente processo, successivamente chiamato a rispondere di reato concorrente ex art. 81, comma primo, cod. pen.; nella ipotesi in esame il giudice non si sarebbe anteriormente pronunciato incidenter sulla medesima o su una connessa imputazione, ma principaliter sulla medesima condotta oggetto della successiva res iudicanda.

Secondo il remittente, la stessa ratio che ha ispirato la sentenza n. 371 del 1996 ricorrerebbe nel caso di specie, poichè i medesimi magistrati, quali membri dello stesso organo giudicante, dopo avere giudicato l'imputato su un determinato comportamento (integrante il delitto di bancarotta, per avere, quale amministratore di società dichiarata fallita, distratto merce per lire 74.994.000 o l'importo corrispondente a detta merce), "sono chiamati a decidere nei confronti del medesimo imputato in ordine ad un'accusa che assume come punto di riferimento fenomenico l'identico comportamento, seppure sotto un diverso profilo, per ricondurlo a un titolo di reato formalmente concorrente con quello sul quale si sono già pronunciati" (il reato di cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 516 del 1982, per avere effettuato cessioni per il controvalore di lire 74.994.000, ossia esattamente le cessioni dell'identica merce, senza fatturarle e senza annotarle nelle scritture contabili obbligatorie).

La Corte d'appello di Venezia osserva che, pur trattandosi di reati diversi, la prima sentenza ricomprendeva tra le imputazioni quella concernente la sottrazione della stessa somma oggetto dell'attuale imputazione e rileva che il tribunale ha fondato l'affermazione della responsabilità dell'imputato per bancarotta sull'accertamento della mancata giacenza delle merci, la cui cessione non documentata costituisce il fulcro della nuova imputazione per violazione della legge n. 516 del 1982.

Considerato in diritto

1. — L'ordinanza di rimessione ha ad oggetto l'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, del quale viene denunciata l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudizio per il giudice che abbia già pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti del medesimo imputato in relazione a un reato formalmente concorrente, ai sensi dell'art. 81, comma primo, cod. pen., con quello su cui é chiamato a decidere.

Ad avviso del giudice a quo, la mancata previsione di una causa di incompatibilità in una situazione in cui lo stesso giudice, dopo avere deciso su un determinato comportamento (azione od omissione), sia chiamato a decidere nei confronti del medesimo imputato "in ordine ad un'accusa che assume come punto di riferimento fenomenico l'identico comportamento, seppure sotto un diverso profilo, per ricondurlo a un titolo di reato formalmente concorrente", contrasterebbe con il principio del giusto processo, desumibile dagli artt. 3 e 24 della Costituzione, potendo il giudizio essere condizionato dalla cosiddetta "forza della prevenzione", cioé dalla naturale tendenza a mantenere fermo un giudizio già espresso.

2. — La questione é fondata.

Il remittente afferma di avere già valutato, in una precedente sentenza, la responsabilità penale dell'imputato, in quanto chiamato a giudicare di un reato che assume essere stato realizzato in concorso formale con altro reato oggetto del precedente giudizio e con esso, quindi, compenetrato; sicchè la sostanza costituzionalistica del quesito può essere ridotta nei seguenti termini: se sia consentito che uno stesso fatto venga valutato più volte in punto di responsabilità penale, in successive sentenze, dallo stesso giudice nei confronti dello stesso imputato, o se, invece, una simile eventualità sia contraria al principio del giusto processo. E in questo caso ci si deve inoltre chiedere quale debba essere l'istituto del processo penale da utilizzare per ovviare alla violazione.

L'ultimo quesito, che investe l'identificazione del rimedio da impiegare, non é stato esplicitamente posto dal remittente, il quale, sollecitando una sentenza additiva sull'art. 34 cod. proc. pen., tendente a introdurre una nuova fattispecie di incompatibilità, sembra escludere che tale rimedio possa essere ricercato soltanto nell'ambito degli istituti della astensione e della ricusazione. E tuttavia, per rendere più agevole l'inquadramento della ratio decidendi della presente pronuncia nell'ormai cospicuo contesto della giurisprudenza costituzionale in materia, anche questo profilo deve essere affrontato, poichè questa Corte ha già più volte affermato che alla tutela del principio del giusto processo sono ordinate non soltanto le incompatibilità determinate da atti compiuti nel procedimento (art. 34 cod. proc. pen.), ma anche l'astensione (art. 36) e la ricusazione (art. 37), questi ultimi istituti essendo finalizzati, al pari delle prime, alla garanzia dell'imparzialità del giudice, intesa come terzietà-non pregiudizio.

3. — Benchè le varie figure di incompatibilità previste dall'art. 34 siano destinate a risolversi in altrettante cause di astensione e di ricusazione, il tratto caratteristico che le accomuna, distinguendole da queste, sta nella loro vocazione ad essere assunte, a ulteriore garanzia contro il rischio di pregiudizio del giudice, come criterio di organizzazione preventiva dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, cosicchè il principio di indipendenza abbia uno svolgimento fisiologico e si atteggi, nel sistema processuale penale, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo o come diritto-dovere del giudice a veder assicurata la sua posizione di terzietà, come modo d'essere della giurisdizione.

Nella giurisprudenza costituzionale é peraltro chiaro che l'esigenza di una preventiva organizzazione della terzietà del giudice come emanazione del principio del giusto processo é ragionevolmente assunta solo se riferita, di regola, ad un medesimo procedimento e a funzioni tipiche definibili in astratto, e non anche al concreto contenuto degli atti nei quali tali funzioni si estrinsecano (sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997): altrimenti, nella varietà delle relazioni che possono instaurarsi tra procedimenti distinti, e nella molteplicità dei contenuti che gli atti di giurisdizione sono in essi suscettibili di assumere, l'intera materia delle incompatibilità verrebbe dispersa in una casistica senza fine, sì da rendere vano ogni tentativo di realizzare quella terzietà in via preventiva sul piano organizzativo.

4. — A questo criterio distintivo, che, pur nella unitaria finalità garantistica che le ispira, rende non completamente fungibili le discipline poste dagli articoli 34, da un lato, e 36 e 37 cod. proc. pen., dall'altro, la Corte si é generalmente attenuta, giacchè nelle numerose sentenze in materia di incompatibilità é stata assecondata la scelta del legislatore di riferire il pregiudizio all'avvenuto esercizio di funzioni nello stesso procedimento, sul presupposto che solo in questi casi l'esigenza di terzietà del giudice possa essere apprezzata fin dal momento della formazione dei collegi e degli uffici giudicanti, possa essere quindi soddisfatta con tempestive deroghe alle tabelle o agli ordinari criteri di assegnazione degli affari e non resti affidata soltanto all'iniziativa del singolo giudice o delle parti. Negli altri casi, nei quali il pregiudizio consegua all'esercizio di funzioni in un diverso procedimento, lo strumento di tutela del principio del giusto processo si attiene, di norma, alla sola area degli istituti dell'astensione e della ricusazione.

5. — L'anzidetta scelta sistematica, alla quale é improntata la disciplina positiva, non é contraddetta dalla sentenza n. 371 del 1996, nella quale il principio del giusto processo ha condotto a configurare una incompatibilità che non consegue all'esercizio di funzioni in un medesimo procedimento, ma ad atti compiuti in un procedimento diverso, essendosi dichiarato illegittimo l'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata.

Le ragioni che in quella sentenza hanno portato a disattendere il criterio sistematico risultante dal codice di procedura penale ed hanno imposto una diversa collocazione dello strumento di tutela del principio del giusto processo sono state già spiegate da questa Corte: di fronte all'eventualità che un medesimo giudice-persona fisica ritornasse con una sentenza successiva su valutazioni di responsabilità già compiute in una precedente sentenza penale, appariva necessario che il principio di terzietà-non pregiudizio si dispiegasse al pieno delle sue capacità qualificatorie, così da far ritenere pregiudicanti, e quindi motivo di incompatibilità, le valutazioni espresse dal giudice in un precedente procedimento penale, che era sì formalmente diverso ma riguardava una vicenda sostanzialmente unitaria (sentenze nn. 306, 307, 308 del 1997) che avrebbe potuto, ed anzi normalmente dovrebbe, essere giudicata nel medesimo contesto processuale. In simili casi l'onere di organizzazione preventiva che si é venuto ad imporre all'amministrazione della giustizia penale appare certo impegnativo, ma congruo rispetto all'entità dei principi in gioco.

6. — A più forte ragione l'esigenza di un dispiegamento del principio del giusto processo al più alto grado delle sue potenzialità, e con esso l'onere di organizzazione preventiva dell'esercizio della funzione di giudizio, va affermata nella presente fattispecie. Se infatti nella sentenza n. 371 del 1996 si é ritenuto che l'incompatibilità debba essere estesa all'ipotesi in cui il giudice abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nella quale, per quello stesso fatto, siano state comunque compiute valutazioni incidenter tantum in ordine alla responsabilità penale di un terzo estraneo al processo, non può non essere affermata, quale garanzia indefettibile della terzietà, l'incompatibilità del giudice che in una precedente sentenza abbia già valutato o concorso a valutare il medesimo fatto, ai fini della responsabilità penale, non di un terzo, ma di quello stesso imputato.

Deve perciò essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell'articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia già giudicato con sentenza quello stesso imputato per il medesimo fatto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti di quello stesso imputato per il medesimo fatto.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria l’17 giugno 1999.