Ordinanza n. 178/99

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ORDINANZA N. 178

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 febbraio 1997 dalla Corte d’assise di Napoli nel procedimento penale a carico di Giovanni Aprea ed altri, iscritta al n. 328 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1997.

  Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 1999 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

  Ritenuto che la Corte d’assise di Napoli ha sollevato, con ordinanza del 28 febbraio 1997, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio penale nei confronti di un imputato del delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.) il giudice che in precedenza, nell’ambito di un procedimento di prevenzione promosso ai sensi dell’art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), abbia pronunciato o concorso a pronunciare il decreto di applicazione della misura di prevenzione, con il quale "sia stata comunque affermata, in termini di certezza, l’esistenza della medesima associazione di tipo mafioso e l’appartenenza ad essa della stessa persona imputata" nel successivo processo penale;

  che, ad avviso della Corte rimettente, nell’anzidetta ipotesi - che si verifica nella specie - si configura un pregiudizio per l’imparzialità del giudice penale, in termini analoghi a quelli che hanno condotto alla dichiarazione di incostituzionalità dello stesso art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che non potesse partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che avesse pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza, resa nei confronti di altri soggetti ma nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale fosse già stata comunque valutata (sentenza n. 371 del 1996);

  che infatti, secondo la Corte d’assise, gli accertamenti - benchè incidenter tantum - circa l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso, e gli apprezzamenti - benchè fondati su criteri indiziari o probabilistici - circa l’appartenenza del soggetto a detta associazione, quali effettuati dal giudice nell’ambito del procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione, porrebbero il giudice chiamato alla successiva partecipazione al giudizio penale per il reato associativo in condizioni non dissimili da quelle cui ha riguardo la richiamata sentenza n. 371 del 1996, tanto più considerando la sostanziale coincidenza del materiale probatorio utilizzabile nelle due sedi processuali, in tal modo delineandosi la lesione dei parametri costituzionali invocati.

  Considerato che il giudice rimettente, facendo richiamo alla sentenza n. 371 del 1996, chiede a questa Corte una pronuncia che estenda l’istituto dell’incompatibilità del giudice all’ipotesi in cui questi si sia pronunciato nell’ambito di un precedente processo per l’applicazione di una misura di prevenzione;

  che, successivamente alla proposizione della presente questione, questa Corte, richiesta di analoghe estensioni, con numerose pronunce di inammissibilità ha precisato che le regole concernenti l’incompatibilità del giudice nel processo penale sono tutte interne all’articolazione del processo medesimo, giacchè sono poste in rapporto a determinate attività precedentemente svolte nell’ambito di esso, secondo una logica di garanzia dell’imparzialità del giudice che opera in via preventiva e in astratto (sentenze nn. 351, 308, 307 e 306 del 1997);

  che nelle anzidette decisioni questa Corte ha individuato il limite entro il quale il principio costituzionale del giusto processo - sotto il profilo dell’esigenza di imparzialità del giudice - é destinato a operare per il tramite dell’istituto dell’incompatibilità: limite rappresentato, appunto, dallo svolgimento di attività valutative e decisorie nell’ambito dello stesso procedimento penale;

  che, nelle stesse pronunce, questa Corte ha ulteriormente chiarito che, se il pregiudizio che si assume lesivo dell’imparzialità del giudice deriva da attività da questi compiute al di fuori del giudizio in cui é chiamato a decidere - siano esse attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro giudizio -, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione (artt. 36 e 37 cod. proc. pen.), anch’essi preordinati alla salvaguardia delle esigenze di imparzialità della funzione giudicante, ma secondo una logica a posteriori e in concreto;

  che, più in particolare, é alla stregua del predetto criterio di distinzione e delimitazione delle due categorie che questa Corte ha ricondotto all’ambito di operatività dell’astensione e della ricusazione ogni motivo di pregiudizio all’imparzialità del giudice, con riguardo alla relazione tra attività "pregiudicante" nel processo penale e attività "pregiudicata" nel procedimento di prevenzione (sentenza n. 306 del 1997 citata);

  che alla medesima conclusione si deve ora logicamente pervenire rispetto alla relazione tra le medesime sedi processuali, quale sottoposta all’esame della Corte, giacchè la regola di giudizio sopra indicata non muta secondo il rapporto di successione temporale che in concreto può darsi tra l’uno e l’altro procedimento;

  che pertanto la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

  Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte d’assise di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.

Renato GRANATA , Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 18 maggio 1999.