Sentenza n. 327/98

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SENTENZA N.327

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2-ter, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, promossi con ordinanze emesse:

  1) il 16 gennaio 1997 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per la Basilicata, di Potenza, nel giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti di Signorella Maria ed altri, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 1997;

  2) il 9 gennaio 1997 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Molise, di Campobasso, nel giudizio di responsabilità a carico di Meffe Domenicantonio ed altri, iscritta al n. 275 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1997.

  Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 25 marzo 1998 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

 

  1.1.— Con ordinanza emessa il 16 gennaio 1997 (R.O. n. 117 del 1997), la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Basilicata ha sollevato — in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, 113, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione — questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2-ter, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, secondo il quale l'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali, per la mancata copertura minima del costo dei servizi.

  1.2.— L'ordinanza é stata emessa nel corso di un giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore regionale nei confronti di tre componenti la giunta del Comune di Miglionico, in carica per l’anno 1989, quali presunti responsabili di danno all’erario per l’importo di L. 7.797.730 (oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali), corrispondente al minore introito realizzato dal Comune, in conseguenza del mancato adeguamento delle tariffe del servizio di smaltimento rifiuti solidi urbani, prescritto dalla legislazione vigente, al fine di raggiungere la copertura minima del 50 per cento dei costi di gestione.

  Intervenuta nel corso del giudizio la disposizione censurata, il rimettente ritiene che essa sia da considerare norma di carattere processuale e quindi, come tale, di immediata applicazione, donde la rilevanza della sollevata questione.

  L'ordinanza ritiene, anzitutto, che la norma denunciata, in contrasto con il principio di buon andamento di cui all'art. 97, primo comma, della Costituzione, comporti "un'alterazione della funzionalità" degli enti locali, dal punto di vista del reperimento dei necessari mezzi finanziari, inducendo, da un lato, gli amministratori locali a non sentirsi vincolati a disporre un impopolare adeguamento delle tariffe, e, dall’altro, impedendo, il risarcimento dei danni da costoro provocati alle amministrazioni locali gestite.

  Nell'assumere violato, altresì, il criterio dell’imparzialità, che "si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale", il rimettente rileva, inoltre, la contraddizione della disposizione con i principi generali posti dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, e dal decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, sull’equilibrio finanziario delle gestioni locali, tale da dar luogo di fatto ad una "sanatoria per le future violazioni di una importante legge che si lascia senza alcuna sanzione effettiva".

  Ricordato che l’ampia discrezionalità del legislatore, nella valutazione del rapporto di compatibilità tra azione amministrativa (e finanziaria) e principio di buon andamento, trova un insuperabile limite nel pubblico interesse, si osserva che, nel caso di specie, il precetto non rinviene nè giustificazioni di ordine generale, nè motivazioni in esigenze di natura economica o finanziaria. Anzi, la perdita di ingenti fondi senza possibilità di recupero, sia pure attraverso il risarcimento dei danni, comporterebbe la violazione anche dell’art. 128 della Costituzione, essendo impedito il perseguimento di finalità di interesse delle comunità locali.

  Nel porsi come negazione di una razionale e coerente attività di amministrazione e fonte di un regime di irresponsabilità, anche per il futuro, "di amministratori infedeli", collocabile tra gli esempi di "diseducazione civile", sui quali la giurisprudenza costituzionale si é più volte pronunciata, la disposizione, ad avviso del giudice a quo, contrasta, altresì, con l’art. 3 della Costituzione, per la posizione di ingiustificato privilegio attribuita agli amministratori locali (tra i quali i convenuti) nei confronti sia degli amministratori di enti non locali, sia dei dipendenti della stessa categoria di enti, come pure dei dipendenti dello stesso "comune di appartenenza"; a sua volta si verificherebbe, in via speculare, una situazione di disparità di trattamento fra gli enti locali e gli enti non inquadrabili in tale categoria, mentre, per converso, l'ente locale, cui appartengono gli amministratori destinatari della disposizione in questione, verrebbe a trovarsi in posizione di svantaggio altrettanto ingiustificata nei confronti degli amministratori medesimi e di quelli futuri.

  Dal quadro normativo in questione scaturirebbe anche la violazione degli artt. 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, risultando il Comune di Miglionico — come tutti gli altri enti locali — privato della tutela innanzi al giudice contabile, realizzata attraverso l’azione del competente Procuratore della Corte dei conti, nonchè innanzi a qualsiasi altro giudice.

  La disposizione censurata sarebbe, inoltre, irrispettosa dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, non recando la legge n. 639 del 1996 una previsione di copertura finanziaria della minor entrata derivante, agli enti locali, dal mancato recupero dei danni provocati alla loro finanza.

  Atteso il c.d. carattere derivato della finanza locale, al minore introito realizzato dagli enti locali dovrebbe, infatti, sopperire il bilancio statale, con ulteriori trasferimenti di fondi.

  Risulterebbero violati, infine, gli artt. 103, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, giacchè l’intervento del legislatore non potrebbe, ragionevolmente, giungere ad escludere ipotesi di responsabilità rientranti nell’ambito della contabilità pubblica, intesa secondo l’accezione tradizionale della nozione. Al tempo stesso il principio del giudice naturale precostituito per legge impedirebbe qualunque sottrazione di sfera giurisdizionale, successivamente al verificarsi del fatto generatore di responsabilità, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che in quello di esclusione di ogni forma di giurisdizione.

  1.3.— E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

  L'Avvocatura dello Stato esclude, anzitutto, che, con la legge in questione, sia stata realizzata, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, una limitazione generale ed ingiustificata della responsabilità degli amministratori degli enti locali, avendo il legislatore conformato la responsabilità degli stessi amministratori alle mutate realtà. La disposizione censurata ha escluso che possa essere esercitata l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori locali, unicamente nel caso di mancata copertura minima del costo dei servizi, in quanto esiste già una "sanzione specifica", costituita dalla riduzione del trasferimento di fondi da parte dello Stato, ferma restando la responsabilità politica degli amministratori locali, nei confronti della collettività locale come corpo elettorale.

  Rilevato che la previsione di statuti differenziati in tema di responsabilità non dà luogo, di per sè, ad un ingiustificato trattamento di favore, l'Avvocatura reputa, inoltre, insussistente la violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, in quanto il Comune potrebbe sempre avvalersi degli strumenti ordinari di tutela, nei confronti degli amministratori infedeli, per il danno erariale, rappresentato, in questo caso, dalla riduzione del trasferimento di fondi statali.

  Neppure pertinente alla fattispecie sarebbe il richiamo al principio del giudice naturale, di cui all’art. 25, primo comma, della Costituzione, il quale non impedisce al legislatore di "escludere che un determinato atto sia suscettibile di danno erariale dopo che l'atto sia stato posto in essere". Nè può dirsi violata la disposizione di cui all'art. 103, secondo comma, della Costituzione, che riserva alla Corte dei conti la giurisdizione in materia di contabilità pubblica, e che va letta in collegamento con l’art. 97 della Costituzione, atteso che, in tema di responsabilità nei confronti dei pubblici amministratori, non può affermarsi l'esistenza di un principio di inderogabilità delle comuni regole di responsabilità. Si tratta, quindi, di materia rimessa alla discrezionalità del legislatore, sindacabile unicamente in caso di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza delle scelte.

  In realtà, la disposizione censurata andrebbe inquadrata nel contesto del mutato assetto dell’organizzazione della pubblica amministrazione scaturente dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che collega la valutazione del personale ai risultati conseguiti; richiedendo che la responsabilità venga vagliata in concreto, sulla base dei canoni di prevedibilità e prevenibilità, e prendendo in considerazione non solo la produzione di un "danno patrimoniale conseguente ad una condotta gravemente colposa", ma anche "l’utilità conseguita dall’amministrazione o dalla comunità".

  Nè la norma censurata presenterebbe una valenza diretta ad introdurre un onere per il bilancio dello Stato, in contrasto con l’obbligo di copertura sancito dall’art. 81 della Costituzione, in quanto si limita ad escludere l’azione di responsabilità, ma non nega l’esistenza del principio della copertura minima dei costi dei servizi pubblici.

  D’altra parte — prosegue l’Avvocatura erariale — lo stesso procedimento di risarcimento del danno erariale non assicurerebbe "in modo indefettibile" l’integrale recupero, da parte dell’ente pubblico, della somma corrispondente alla mancata entrata, poichè sulla quantificazione del danno viene ad incidere sia l’elemento psicologico, sia l’eventuale esercizio del potere riduttivo da parte della Corte dei conti.

  2.1.— Con ordinanza emessa il 9 gennaio 1997, anche la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Molise ha sollevato questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3, comma 2-ter, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, denunciandone il contrasto con gli artt. 24, primo comma, 25, primo comma, 81, quarto comma, 103, secondo comma, 97, nonchè con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, con riferimento all’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), all’art. 58 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), ed alla normazione in materia di copertura dei costi dei servizi comunali.

  2.2.— L’ordinanza é stata emessa nel corso di un giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore regionale nei confronti dell'ex sindaco nonchè di quattro assessori del Comune di Torella del Sannio, in carica nel periodo tra il settembre-dicembre 1987 ed il 1988, quali presunti responsabili del danno, quantificato in L. 4.600.000 circa (oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di lite), per l’asserita violazione delle disposizioni che, per l’anno 1988, prescrivevano la copertura obbligatoria dei costi complessivi del servizio comunale di nettezza urbana, nella quota percentuale minima del 60 per cento.

  Sopravvenuta, nel corso del giudizio, la disposizione censurata, il giudice a quo, muovendo, così come l'altro rimettente, dalla premessa che si tratti di norma processuale, immediatamente applicabile ai giudizi in corso, reputa la norma stessa in contrasto, anzitutto, con l’art. 24, primo comma, della Costituzione, avendo l’effetto di impedire alla collettività locale di adire qualsiasi sede giurisdizionale, per ottenere il ristoro del danno subito a causa del comportamento antigiuridico dei suoi amministratori.

  La disposizione risulterebbe contraria anche all’art. 25, primo comma, della Costituzione, in quanto, intervenendo a posteriori su specifiche situazioni e controversie analiticamente individuate, le sottrarrebbe arbitrariamente al giudice legislativamente precostituito, nel caso di specie, dall’art. 58 della legge 8 giugno 1990, n. 142 e dalle altre norme più generali da esso richiamate.

  Il rimettente ritiene, altresì, violato l’art. 103, secondo comma, della Costituzione, in correlazione con i principi di razionalità e ragionevolezza desumibili dall'art. 3, in quanto la disposta esclusione dell’azione di responsabilità amministrativa, per la mancata copertura dei costi dei servizi comunali, verrebbe ad incidere sulla stessa sfera delle attribuzioni riservate alla Corte dei conti dal predetto articolo della Costituzione, al quale il legislatore ordinario ha dato attuazione, con le leggi n. 142 del 1990 (art. 58), n. 19 e 20 del 1994 e — da ultimo — con la stessa legge n. 639 del 1996, riservando alla giurisdizione contabile la cognizione delle ipotesi di responsabilità derivanti da fatti illeciti commessi dagli amministratori locali. La deroga in questione si presenterebbe incoerente con il sistema delineato attraverso le norme di carattere generale sopraindicate, nonchè arbitraria perchè influente su singoli giudizi già incardinati, senza che si possa individuare alcun interesse pubblico, tale da giustificare l’elisione della garanzia giurisdizionale prevista dal legislatore; nei sensi sopraesposti la nuova disposizione, nel quadro di una più radicale violazione della garanzia fondamentale di tutela offerta dall'art. 24 della Costituzione, risulterebbe, quindi, collidere con l'art. 103, secondo comma, della Costituzione.

  Nè la disposta deroga alla generale regola della perseguibilità degli illeciti commessi dagli amministratori dell’ente locale, si può giustificare con l’esercizio della discrezionalità riservata al legislatore ordinario: invero, quest’ultima non può consentire l’introduzione di una limitazione o preclusione meramente processuale, in contrasto immotivato con i principi generali individuati, dallo stesso legislatore, in tema di responsabilità amministrativa.

  Secondo il giudice a quo la disposizione si pone, perciò, in contrasto con il principio di ragionevolezza desumibile dall’art. 3 della Costituzione, per il diverso trattamento riservato ad una fattispecie non dissimile da quelle che danno luogo alla responsabilità amministrativa. Si osserva, altresì, che, specularmente, in violazione del principio di uguaglianza e della certezza del diritto (art. 3, primo comma, della Costituzione), risultano previsti trattamenti analoghi sia per gli amministratori che hanno rispettato l’obbligo di provvedere alla copertura minima dei costi dei servizi, sia per quelli che, invece, l’hanno disatteso.

  La mancata perseguibilità degli amministratori locali, disposta dalla norma censurata, risulterebbe contraria, altresì, al principio di cui all’art. 81, quarto comma, della Costituzione, nel cui ambito di applicazione rientrano anche gli interventi legislativi che addossino oneri finanziari agli enti ricompresi nella cosiddetta "finanza pubblica allargata", secondo quanto enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, atteso che, a causa dell'imperseguibilità dei responsabili del danno, l’onere finanziario corrispondente al costo minimo dei servizi verrebbe a gravare, inevitabilmente, sui bilanci degli enti locali — mancando l'indicazione della relativa copertura — con il conseguente aggravamento delle situazioni di squilibrio tra entrate e spese.

  Infine, il giudice a quo rileva che la disposizione censurata, in contrasto con l’art. 97 della Costituzione, prevede una "sorta di immunità personale sopravvenuta in capo agli amministratori locali colpevolmente inadempienti", che priva le norme, che impongono la copertura minima del costo dei servizi, della loro forza persuasiva ed incide "negativamente sul raggiungimento di quelle espresse finalità di buona amministrazione che lo stesso legislatore aveva inteso perseguire".

  2.3.— Intervenendo anche in questo giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, svolgendo argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nell'atto depositato nel giudizio di cui al R.O. n. 117 del 1997.

Considerato in diritto

 

  1.— Entrambe le ordinanze in epigrafe — emesse, rispettivamente, dalla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Basilicata (R.O. n. 117 del 1997) e da quella per il Molise (R.O. n. 275 del 1997) — dubitano, evocando parametri in gran parte coincidenti, della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2-ter, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, il quale dispone che "l'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi comunali".

  Le censure sollevate dai giudici rimettenti attengono agli effetti che la contestata disposizione comporta, in contrasto con vari canoni costituzionali, da un canto, sugli equilibri di gestione degli enti locali e sulle connesse responsabilità e, dall'altro, sui mezzi riservati agli enti medesimi per la tutela in via giurisdizionale dei loro interessi.

  2.— Sotto il primo aspetto, assume rilievo, fra i vari articoli della Costituzione evocati dai giudici rimettenti, anzitutto, l'art. 3 della Costituzione, che, secondo la prima ordinanza (R.O. n. 117 del 1997), risulterebbe inciso per l'inammissibilità del privilegio cui dà luogo una condizione di "perpetua" irresponsabilità, anche futura, per atti dannosi; ne discenderebbe, altresì, una diffusa disparità di trattamento fra soggetti che versano nella medesima situazione giuridica, e cioé fra gli amministratori degli enti locali e quelli di enti non locali, come pure fra i primi e i dipendenti dei medesimi enti locali che abbiano partecipato all'illecito; ed, infine, fra il Comune e gli altri enti non rientranti nella medesima categoria.

  A sua volta, la seconda ordinanza (R.O. n. 275 del 1997), nell'evidenziare il trattamento singolarmente derogatorio riservato, in maniera irragionevole ed immotivata, ad una fattispecie astrattamente inquadrabile nell'ipotesi generale di responsabilità per danno, quale si desume dai principi recati, tra l'altro, dalla legge n. 20 del 1994 e dall'art. 58 della legge n. 142 del 1990, lamenta la violazione dello stesso art. 3, primo comma, sotto il profilo del principio di eguaglianza e della certezza del diritto, per aver riservato il medesimo trattamento agli amministratori che hanno rispettato le norme in materia e a quelli che le hanno violate.

  3.— Le ordinanze ritengono, poi, che la denunciata disposizione contrasti con:

  — l'art. 97, primo comma, della Costituzione, per la lesione recata al principio di buon andamento, dal momento che essa, da un canto, induce gli amministratori a non sentirsi vincolati a disporre un impopolare adeguamento delle tariffe e, dall'altro, impedisce il risarcimento dei danni, così violando anche il principio di imparzialità (R.O. n. 117 del 1997);

  — il medesimo art. 97, giacchè viene a mancare, per le norme sulla copertura minima del costo dei servizi, "una parte della loro forza persuasiva", con riflessi negativi sul raggiungimento delle finalità di buona amministrazione che lo stesso legislatore aveva inteso perseguire (R.O. n. 275 del 1997);

  — l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, per la mancata indicazione dei mezzi di copertura della minore entrata, derivante dal mancato recupero delle somme andate perdute dalle finanze locali.

  4.— Inoltre, in relazione ai mezzi di tutela giurisdizionale, apprestati dall'ordinamento in favore dell'ente locale, la prima ordinanza (R.O. n. 117 del 1997), ritiene incisi:

  — gli artt. 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, venendo meno la possibilità per il Comune di far valere i suoi diritti innanzi al giudice contabile o ad altro giudice;

  — gli artt. 103, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, per l'esclusione di ipotesi specifiche di responsabilità, "tradizionalmente e genericamente", rientranti nella materia della contabilità pubblica, nonchè per la sottrazione al giudice di una sfera di giurisdizione, successivamente al verificarsi del fatto generatore della responsabilità, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che in quello di esclusione di ogni forma di giurisdizione.

  In termini più o meno analoghi, la seconda ordinanza (R.O. n. 275 del 1997) denuncia violazione:

  — dell'art. 24, primo comma, della Costituzione, a causa dell'esclusione della tutela giurisdizionale delle collettività locali, in ordine al ristoro del danno ingiustamente cagionato dagli amministratori;

  — dell'art. 25, primo comma, della Costituzione, in quanto la norma, intervenendo a posteriori su specifiche controversie, analiticamente individuate, le sottrae, arbitrariamente ed irrazionalmente, al giudice precostituito per legge, senza che se ne possa individuare alcun altro competente a giudicare;

  — dell'art. 103, secondo comma, della Costituzione, per l'incidenza che la censurata disciplina ha sulla sfera di attribuzione riservata, in via generale, alla Corte dei conti, appalesandosi la deroga ora introdotta incoerente con il sistema preesistente, come pure irragionevole ed arbitraria, perchè interferisce su singoli giudizi già incardinati, al di fuori di alcun interesse pubblico che tale interferenza giustifichi.

  5.— Infine, la sola prima ordinanza ritiene che la disposizione collida anche con l'art. 128 della Costituzione, per l'ostacolo che da essa deriverebbe al perseguimento di finalità di immediato interesse per le comunità locali.

  6.— I giudizi, avendo ad oggetto questioni analoghe ovvero connesse, possono essere riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

  7.— Le questioni non sono fondate in riferimento ad alcuno dei richiamati parametri.

  8.— Onde delineare il quadro normativo nell'ambito del quale le stesse si collocano, giova rammentare che la contestata disposizione ha il suo presupposto sistematico nelle varie leggi in materia di finanza locale, che hanno previsto, nel tempo, l'obbligo, per gli enti locali, di adeguare le tariffe dei servizi pubblici erogati (segnatamente, quelli c.d. a domanda individuale, quello di smaltimento dei rifiuti solidi urbani nonchè quello degli acquedotti), al fine di raggiungere il livello minimo di copertura del costo di erogazione fissato in misure legislativamente predeterminate, contemplando, come sanzione, in caso di inosservanza, la perdita di una quota del c.d. fondo perequativo. Tali leggi, per quanto riguarda particolarmente lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, hanno disposto — negli anni in contestazione innanzi ai giudici rimettenti, e cioé gli anni 1988 e 1989 — una percentuale di copertura ammontante, rispettivamente, al 60 per cento, secondo quanto stabilito dall'art. 16 del decreto-legge 31 agosto 1987, n. 359, convertito, con modificazioni, nella legge 29 ottobre 1987, n. 440, e del 50 per cento, in virtù dell'art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 1989, n. 144; a sua volta seguito dall'art. 14 del decreto-legge 28 dicembre 1989, n. 415, convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 38, che stabilì tale percentuale del 50 per cento, quale livello minimo a regime.

  Senonchè, detti criteri, con gli elementi di rigidità che comportavano nella gestione di enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita, sono stati in gran parte superati dalla legislazione successiva che, a partire dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 dicembre 1992, n. 421), ha ristretto in linea di massima l'obbligo di copertura minima ai servizi degli enti in situazione strutturalmente deficitaria (art. 45), di pari passo con il potenziamento della capacità impositiva degli enti locali, a seguito della contestuale istituzione dell'imposta comunale sugli immobili. Tenuto conto, poi, degli ulteriori più recenti interventi, é dato, allo stato, rilevare che detto obbligo, ormai, risulta di portata generale soltanto in ordine al servizio comunale di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, secondo la disciplina dettata dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, restando, viceversa, limitato, quanto agli altri servizi, solo agli enti che denotano disfunzioni gestionali, secondo le ipotesi legislativamente previste (per cui, vedi, tra l'altro, l'art. 19 del decreto legislativo 13 settembre 1997, n. 342).

  In via del tutto generale non va, inoltre, ignorato che, correlativamente all'abbandono del menzionato sistema di vincoli gestionali, in tempi più recenti é venuta, invece, emergendo la tendenza verso regole volte più ad orientare, che a condizionare, le scelte degli enti locali, in modo maggiormente rispettoso della loro autonomia decisionale. In tal senso va considerata l'introduzione di un sistema di indicatori delle linee di politica tariffaria e fiscale dell'ente (il c.d. "sforzo tariffario" e il c.d. "sforzo fiscale"), previsto dalla legge delega 23 dicembre 1996, n. 662, alla quale ha dato attuazione il decreto legislativo 30 giugno 1997, n. 244, che, fra gli strumenti di provvista finanziaria in favore degli enti locali, ha annoverato (art. 1) il fondo per "la perequazione e gli incentivi", destinato, tra l'altro, all'erogazione degli "incentivi allo sforzo tariffario", che vengono commisurati al "maggiore tasso di copertura dei costi, con introiti da tariffa, realizzato, nel corso dell'ultimo biennio precedente". I singoli contributi sono attribuiti "agli enti che hanno valori superiori a quelli medi generali", nell'ambito degli "aggregati" in cui sono suddivisi i comuni.

  A fronte di un orientamento legislativo volto a salvaguardare maggiormente la sfera dell'autonomia gestionale ed a rendere, nel contempo, recessivo il criterio dei vincoli rigidi di copertura dei costi dei servizi, non può ritenersi impedito al legislatore di stabilire che il mancato rispetto dei parametri legislativamente predeterminati, in tema di copertura del costo dei servizi, non costituisca in sè fonte di responsabilità amministrativa, riconducendo, in tal modo, le determinazioni che incidono sul grado di copertura all'area della discrezionalità. E ciò avuto riguardo anche ai nuovi principi introdotti in materia di responsabilità proprio dall'articolo in cui é contenuta la contestata disposizione; e cioé l'art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, il cui primo comma espressamente contempla, con riferimento ai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, "l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali".

  9.— Innanzitutto, la norma impugnata non può considerarsi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, invocato da entrambe le ordinanze sotto il profilo della irragionevolezza del peculiare trattamento riservato, in deroga alle regole generali della responsabilità amministrativa, agli amministratori che non abbiano osservato l'obbligo di copertura minima e, per converso, agli enti locali danneggiati.

  Invero, il parametro della eguaglianza contenuto nel predetto art. 3, come la Corte altra volta ha avuto occasione di rilevare (sentenza n. 89 del 1996), non determina affatto l'obbligo di rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti e rapporti, ma individua la relazione che deve funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o rapporti al paradigma dell'armonico trattamento che ai destinatari di tale disciplina deve essere riservato. Lo stesso non impedisce, dunque, al legislatore ordinario di emanare norme differenziate quando la disparità di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione, purchè si rinvenga una motivazione obiettivata nel sistema, che consenta di riscontrare una "causa" o ragione della disciplina introdotta, tale da renderla non irragionevole e per ciò stesso non arbitraria.

  Per le stesse ragioni, non appare fondata, nel quadro dei nuovi indirizzi legislativi in tema di gestioni locali, nemmeno la censura sollevata sotto il profilo della violazione dei principi dell'art. 97 della Costituzione.

  10.— Quanto agli altri parametri evocati con riferimento all'ambito dei rimedi giurisdizionali, é sufficiente rilevare che la garanzia apprestata dall'art. 24 della Costituzione opera attribuendo la tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve e si modella sui concreti lineamenti che il diritto riceve dall'ordinamento (sentenza n. 118 del 1969). E' evidente, perciò, che tale tutela resta esclusa quando il legislatore, in modo non irragionevole e non arbitrario, stabilisce — sia pure attraverso una norma riguardante lo jus postulandi del Procuratore della Corte dei conti — di far venir meno, come é dato ritenere dalla ricostruzione del quadro normativo più sopra operata, proprio il riconoscimento delle situazioni sottostanti. Nel contempo va negato anche il vulnus all'art. 25 e all'art. 103 della Costituzione, dovendosi rilevare, quanto alla prima disposizione, che la finalità della stessa é quella di assicurare che il giudice venga individuato attraverso criteri precostituiti per legge, e non in vista di singole controversie, sì da garantirne l'assoluta imparzialità; e, quanto alla seconda, che il suo obiettivo é quello di riservare alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, secondo ambiti la cui concreta determinazione é rimessa alla discrezionalità del legislatore. Ma nè l'uno nè l'altro precetto sono tali da impedire al legislatore stesso di escludere, in modo non irragionevole e non arbitrario, dal novero dei casi fonte di danno erariale, una fattispecie dopo che la stessa sia venuta in essere.

  Ciò non induce, perciò, a considerare illegittima la norma, essendo evidente che, come già altra volta rilevato, il legislatore e il giudice agiscono su piani diversi: l'uno su quello suo proprio introducendo nell'ordinamento un quid novi; l'altro applicando al caso concreto la legge (sentenza n. 155 del 1990).

  11.— Non maggiore appare il fondamento della censura prospettata in riferimento all'art. 81, quarto comma, della Costituzione, il quale contempla per il legislatore ordinario l'onere — a fronte della previsione di nuove spese ovvero, come chiarito dalla giurisprudenza, di minori entrate — di indicare i mezzi di copertura, secondo una regola che questa Corte ha ritenuto valere anche per il caso in cui detti oneri ricadano sugli enti rientranti nella finanza pubblica allargata.

  Infatti l'art. 81 esprime un principio che attiene ai limiti che il legislatore ordinario é tenuto ad osservare nella sua politica finanziaria, ma non può certo investire la scelta che il legislatore compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità amministrativa.

  12.— Non pertinente appare, infine, l'evocazione sia del parametro dell'art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione, che assicura la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, sia del parametro dell'art. 128, il quale stabilisce che le province ed i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni; articoli, entrambi, che, invero, non appaiono assumere specifico rilievo ai fini della problematica qui affrontata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

  dichiara:

  — non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2-ter, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, 113, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione, dalla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Basilicata, con la prima delle ordinanze in epigrafe;

  — non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 81, quarto comma, 97 e 103, secondo comma, della Costituzione, dalla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per il Molise, con la seconda delle ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Massimo VARI

Depositata in cancelleria il 24 luglio 1998.