Sentenza n. 239/98

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SENTENZA N. 239

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI  

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 42, quarto comma, della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra), e dell’art. 37, quinto comma, del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), come modificato dall’art. 20 della legge 6 ottobre 1986, n. 656 (Modifiche ed integrazioni alla normativa sulle pensioni di guerra), promosso con ordinanza emessa il 10 luglio 1996 dalla Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana sul ricorso proposto da Maria Catena Bonfiglio contro il Ministero del tesoro - Direzione generale per le pensioni di guerra, iscritta al n. 1269 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 1996.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 29 ottobre 1997 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 10 luglio 1996 nel corso di un giudizio promosso, per ottenere la pensione di guerra, da una donna che non aveva potuto contrarre matrimonio con un militare per la morte di quest’ultimo avvenuta a causa della guerra in Albania nel 1940, la Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, quarto comma, della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra), e dell’art. 37, quinto comma, del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), come modificato dall’art. 20 della legge 6 ottobre 1986, n. 656 (Modifiche ed integrazioni alla normativa sulle pensioni di guerra).

Nel contesto di una disciplina che, ai soli effetti della pensione di guerra, considera come vedova la donna che non abbia potuto contrarre matrimonio per la morte del militare avvenuta a causa della guerra qualora il militare abbia rilasciato procura per la celebrazione del matrimonio o siano state chieste le prescritte pubblicazioni, le disposizioni denunciate stabiliscono che, anche in mancanza della procura o delle pubblicazioni, é riconosciuto alla donna il diritto a pensione quando il militare, durante lo stato di guerra, abbia dichiarato di voler contrarre con essa matrimonio, purchè risulti, da apposito atto stragiudiziale o da altro documento certo, uno stato preesistente di convivenza da almeno un anno e purchè le circostanze che impedirono la celebrazione del matrimonio non risultino imputabili alla volontà delle parti.

Il giudice rimettente ritiene irrazionale ed arbitrario che il limite di durata minima della convivenza, per almeno un anno, valga anche quando questa durata sia stata impedita dagli stessi eventi le cui conseguenze pregiudizievoli la norma é diretta ad indennizzare. Difatti la durata della convivenza dovrebbe comprovare il serio intento matrimoniale, che costituisce l’elemento comune ai tre criteri alternativi di assimilazione alla vedova di guerra, prescelti dal legislatore nel corso della evoluzione della disciplina in questa materia: la procura per la celebrazione del matrimonio, le pubblicazioni matrimoniali, la dichiarazione di voler contrarre matrimonio unitamente alla preesistente convivenza. Ad avviso dello stesso giudice, sarebbe irragionevole escludere l’assimilazione alla vedova quando la valutazione della stabilità della convivenza possa essere desunta da circostanze diverse dalla sua durata, che non si realizza per il periodo minimo prestabilito dalla legge a causa di eventi non attribuibili alla volontà delle parti. In questo caso l’assimilazione alla vedova di guerra verrebbe paradossalmente frustrata proprio dagli stessi eventi assunti a giustificazione dell’intervento solidaristico.

La soluzione del dubbio di legittimità costituzionale é considerata rilevante nel giudizio principale, giacchè il militare deceduto aveva dichiarato di voler contrarre matrimonio con la ricorrente, ma la convivenza aveva avuto una durata inferiore all’anno anche se dall’unione era nato un figlio, di cui era stata accertata giudizialmente la paternità ed al quale era stata poi concessa la pensione di guerra.

2. - E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L’Avvocatura ritiene che rientri nella discrezionalità del legislatore stabilire che vi sia stato almeno un anno di convivenza per attribuire alla donna il diritto a pensione di guerra: ciò sarebbe conforme al razionale obiettivo di porre un limite alle aspettative nascenti dal rapporto con un militare, non seguito dal matrimonio. Sul piano della razionalità la scelta del legislatore sarebbe contestabile solo dal suo interno. L’ammettere al beneficio la donna, nei cui confronti esisteva una procura a contrarre matrimonio o la richiesta di pubblicazioni, sarebbe fondato sulla presunzione che la guerra abbia impedito di contrarre un matrimonio seriamente programmato. La ricostruzione della volontà del militare non basata su di un atto solenne ed impegnativo, ma riferita ad una convivenza protrattasi per oltre un anno, costituirebbe un’eccezione alla quale il giudice rimettente vorrebbe ulteriormente derogare se la durata della convivenza risulti impedita dagli stessi fatti che hanno reso impossibile il matrimonio; ma in tal modo si cadrebbe in un vizio logico, giacchè l’elemento che ha impedito il matrimonio svolgerebbe il duplice ruolo di sorreggere sia la deroga che l’eccezione, e si finirebbe con l’ammettere al beneficio la donna che, comunque, possa vantare l’intenzione del militare di sposarla al suo ritorno.

Considerato in diritto

 

1. - Il dubbio di legittimità costituzionale investe le disposizioni che - nel considerare come vedova, agli effetti della pensione di guerra, la donna che non abbia potuto contrarre matrimonio per la morte del militare avvenuta a causa della guerra non solo quando sia stata rilasciata procura per la celebrazione del matrimonio o siano state richieste le prescritte pubblicazioni, ma anche quando il militare abbia dichiarato di voler contrarre matrimonio e risulti uno stato preesistente di convivenza, purchè le circostanze che impedirono il matrimonio non risultino imputabili alla volontà delle parti - richiedono sempre, in quest’ultimo caso, una durata della convivenza di almeno un anno.

  La Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana ritiene che questa disciplina - dettata dall’art. 42, quarto comma, della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra), e dall’art. 37, quinto comma, del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), come modificato dall’art. 20 della legge 6 ottobre 1986, n. 656 (Modifiche ed integrazioni alla normativa sulle pensioni di guerra) - sia irrazionale ed arbitraria, quindi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui fa dipendere l’assimilabilità alla vedova dalla condizione della durata minima di un anno della convivenza, senza eccettuare il caso in cui tale durata minima sia stata impedita dagli stessi eventi le cui conseguenze pregiudizievoli la norma é diretta ad indennizzare, quando la stabilità della convivenza possa essere desunta da circostanze diverse dalla sua durata.

2. - La questione é fondata nei termini di seguito precisati.

La legislazione pensionistica di guerra, sin dalla iniziale disciplina delineata dal decreto luogotenenziale 27 ottobre 1918, n. 1726 (Norme per la concessione delle pensioni privilegiate di guerra), ha previsto l’attribuzione della pensione alla vedova del militare morto per causa di servizio di guerra; ma ha anche considerato la situazione della donna che non abbia potuto contrarre matrimonio per essere il militare deceduto, assimilandola, ai soli effetti della pensione, alla vedova del militare, purchè sussistessero particolari requisiti, previsti dal legislatore come idonei a presumere che il matrimonio sarebbe stato contratto se la celebrazione, voluta dagli interessati, non fosse stata impedita dalle circostanze belliche.

Le diverse norme che hanno disciplinato, succedendosi nel tempo (cfr. art. 2 del regio decreto-legge 9 luglio 1936, n. 1470; art. 55 della legge 10 agosto 1950, n. 648), questa materia, hanno sempre considerato come vedova la donna che non abbia potuto contrarre il matrimonio per il quale il militare abbia rilasciato procura o siano state richieste le pubblicazioni, quando la morte sia intervenuta entro un determinato termine da tali atti e la mancata celebrazione non sia imputabile alle parti. In tal modo si é attribuito rilievo presuntivo della volontà di contrarre matrimonio, rimasta inattuata a causa della guerra, ad atti formali, per loro natura preordinati alla celebrazione delle nozze.

  Altre norme hanno anche riconosciuto - ma con discontinuità nella successione delle diverse discipline, giacchè la situazione ora considerata non era prevista come idonea a costituire titolo per l’attribuzione della pensione di guerra dal regio decreto-legge 9 luglio 1936, n. 1470 - il medesimo rilievo presuntivo della volontà di contrarre matrimonio alla dichiarazione, resa dal militare nel corso della guerra, purchè vi fosse un preesistente e certo stato di convivenza. Nel tempo sono state disciplinate in modo non uniforme le puntuali condizioni nelle quali si sarebbe dovuto trovare il militare per rilasciare la dichiarazione, la forma della stessa, la prova della convivenza. Per quest’ultima la disciplina iniziale non richiedeva che lo stato di preesistente convivenza avesse una durata minima (art. 12 del decreto luogotenenziale n. 1726 del 1918).

Le norme denunciate, introducendo nuovamente l’assimilazione, alla procura ed alle pubblicazioni di matrimonio, della dichiarazione di voler contrarre matrimonio purchè sussistesse uno stato certo di preesistente convivenza, hanno introdotto l’ulteriore elemento temporale della durata di tale convivenza per almeno un anno; questo in un contesto legislativo che, anche in altre situazioni, prevedeva una determinata durata del rapporto come essenziale perchè avesse rilievo la situazione idonea a dare titolo a pensione (nel caso del matrimonio contratto dopo le ferite o malattie di guerra la vedova acquistava il diritto a pensione solo se il matrimonio fosse durato non meno di un anno), prima che con la sentenza n. 450 del 1991 fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 della legge n. 313 del 1968.

  Lo stato di preesistente convivenza ha, nelle norme denunciate, la finalità di avvalorare la serietà della dichiarazione di volontà di contrarre matrimonio, quando non siano stati compiuti gli atti formali preordinati alla sua celebrazione ma risulti una situazione che renda inequivoca tale volontà.

  L’elemento della durata connota uno stato di convivenza non episodico o transeunte ed il periodo minimo, predeterminato dal legislatore, può ragionevolmente avere efficacia presuntiva, appunto, della stabilità che corrobora la serietà della dichiarazione matrimoniale; ma, in funzione dell’elemento che la durata del rapporto tende a comprovare, é incongruo rispetto alle finalità perseguite, ed in contrasto quindi con il principio di ragionevolezza, attribuire al dato temporale un valore così assoluto, da precludere che uno stato di convivenza che abbia avuto, a causa delle vicende belliche, una durata inferiore a quella prefissata, non possa essere in alcun modo idoneo ad avvalorare la presunzione che il matrimonio sarebbe stato contratto se non vi fosse stato l’impedimento della guerra; ciò quando il preesistente stato di convivenza sia accompagnato da elementi, quali la nascita di un figlio o altre circostanze, che comprovino in modo non equivoco la stabilità del rapporto quale indice della volontà di contrarre il matrimonio che non é stato celebrato a causa della guerra.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSSTITUZIONALE

  dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, quarto comma, della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra), e dell’art. 37, quinto comma, del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), come modificato dall’art. 20 della legge 6 ottobre 1986, n. 656 (Modifiche ed integrazioni alla normativa sulle pensioni di guerra), nella parte in cui non prevedono che il diritto a pensione può essere riconosciuto anche se lo stato di preesistente convivenza abbia avuto, a causa della guerra, durata inferiore ad un anno, purchè sia accompagnato da altri elementi e circostanze che dimostrino in modo non equivoco la volontà del militare di contrarre matrimonio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° giugno 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Cesare MIRABELLI

Depositata in cancelleria il 3 luglio 1998.