Sentenza n. 232/98

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SENTENZA N.232

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 309, commi 5 e 10, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 giugno 1997 dalla Corte di cassazione, iscritta al n. 674 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visti gli atti di costituzione di Cianciaruso Salvatore e di Giannetti Giovanni, nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 1998 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;

uditi gli avvocati Pasquale Caroli e Alfredo Gaito per Cianciaruso Salvatore, Pasquale Caroli per Giannetti Giovanni, e l’Avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

  1.– Investita di un ricorso promosso ex art. 311 del codice di procedura penale avverso un'ordinanza del Tribunale di Lecce, che in sede di riesame aveva confermato l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere a carico di alcuni indiziati, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 9 giugno 1997, pervenuta a questa Corte il 15 settembre 1997 (R.O. n. 674 del 1997), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24 della Costituzione, dell’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen. nella parte in cui "non é prevista la perdita di efficacia dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva in caso di non immediato avviso della presentazione della richiesta di riesame all'autorità giudiziaria procedente".

  Il remittente premette che avverso l'ordinanza del Tribunale di Lecce avevano proposto ricorso per cassazione tutti gli indagati, deducendo tra l’altro la sopravvenuta inefficacia dell’ordinanza impositiva della misura per il mancato rispetto da parte del presidente del collegio dell’obbligo, stabilito dall’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., di dare immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente dell’avvenuta presentazione della richiesta di riesame; e che la prima sezione penale della Corte di cassazione, rilevata la possibilità dell’insorgenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla rilevanza e agli effetti dell’inosservanza dell’obbligo di cui al comma 5 dell’art. 309 cod. proc. pen., aveva rimesso i ricorsi alle Sezioni unite con ordinanza in data 25 marzo 1997.

In tale ordinanza si rilevava come, sebbene gli unici precedenti di legittimità sul punto fossero nel senso del carattere non perentorio della prescrizione di immediatezza dell’avviso e della conseguente assenza di sanzione processuale in ipotesi di inosservanza, argomenti testuali e sistematici avrebbero potuto consentire una diversa lettura della disciplina. In particolare, il riferimento alla mancata trasmissione degli atti "nei termini di cui al comma 5", contenuto nel comma 10, potrebbe intendersi come comprensivo del termine sotteso all’obbligo del presidente di dare immediatamente l’avviso all’autorità giudiziaria procedente, assegnando anche alla prescrizione di immediatezza dell’avviso valenza di termine processuale e considerando l’ambito di applicazione della sanzione della perdita di efficacia della misura cautelare esteso all’inosservanza di tutti i termini prescritti nel comma 5 dell’art. 309; ritenendo, cioé, "il termine per la trasmissione degli atti come necessariamente connesso e coordinato a quello per la comunicazione dell’avviso e da questo inscindibilmente dipendente ai fini della verifica della sua avvenuta osservanza".

  Nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite si puntualizzava inoltre che, in conformità a quanto già affermato dalle stesse Sezioni unite, la questione doveva ritenersi legittimamente proposta innanzi alla Corte di cassazione, anzichè davanti al giudice per le indagini preliminari, in quanto erano state prospettate contestualmente anche questioni concernenti la legittimità originaria del provvedimento cautelare.

  Con ordinanza in data 29 aprile 1997 i ricorsi venivano tuttavia restituiti dalle Sezioni unite alla prima sezione penale in ragione della natura meramente ipotetica del contrasto giurisprudenziale prospettato. Il collegio - nuovamente investito dei ricorsi, ma in diversa composizione rispetto a quella che aveva adottato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite - con l’ordinanza introduttiva del presente giudizio di costituzionalità ha ritenuto non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen. nei termini indicati.

  2.– Nel merito, il giudice a quo afferma di assumere "alla stregua di diritto vivente" e, comunque, a "necessaria premessa della ritenuta non manifesta infondatezza della questione" l’interpretazione che attribuisce valenza meramente ordinatoria all’obbligo di immediato avviso all’autorità procedente, e dunque l'assenza di sanzione processuale, in particolare di quella della perdita di efficacia della ordinanza custodiale stabilita dal comma 10 dell'art. 309, per la violazione di tale obbligo. Tale interpretazione sarebbe confortata, a giudizio della Corte remittente, anche da un argomento esegetico desumibile dalla formulazione dell’art. 172, comma 1, cod. proc. pen.: nel prevedere che "i termini processuali sono stabiliti a ore, a giorni, a mesi o ad anni", tale disposizione non consentirebbe infatti di configurare un vero e proprio termine nei casi in cui la norma si limiti, come nella specie, a prescrivere genericamente un obbligo di "immediato" compimento di un dato adempimento.

  Così univocamente interpretata, la disciplina non si sottrarrebbe, secondo il giudice a quo, a fondati sospetti di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, primo comma, 13, primo comma, e 24, secondo comma, Cost.

  Sotto il primo profilo, l'ordinanza osserva che il combinato disposto dei commi 5 e 10 dell’art. 309 cod. proc. pen. determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni omologhe e meritevoli di uguale tutela, in contrasto tra l’altro con la finalità della legge 8 agosto 1995, n. 332, che nel modificare le disposizioni impugnate ha inteso estendere le garanzie dell'indagato colpito da misura custodiale ed assicurare la rapida definizione del procedimento di riesame. Da un lato, infatti, viene ad essere sanzionato con la caducazione dell’efficacia della misura ogni ritardo, anche minimo, nella trasmissione degli atti necessari al giudice del riesame, dall’altro si lascia priva di sanzione processuale qualsiasi, anche rilevante, dilazione nella comunicazione all’autorità procedente dell’avviso della presentazione della richiesta di riesame, "così sostanzialmente vanificando l’effettività delle garanzie introdotte dal legislatore e lasciando inopinatamente affidata ad una variabile indipendente dal resto della sequela procedimentale l’inizio del decorso del rigoroso termine stabilito, a pena di inefficacia del provvedimento coercitivo, per la trasmissione degli atti al tribunale".

  Tale disciplina sarebbe contrastante con il principio di ragionevolezza desumibile dall'art. 3 della Costituzione, non potendosi rinvenire alcuna plausibile ragione per la diversità di regolamentazione di situazioni sostanzialmente omologhe. Essa sarebbe altresì contrastante - prosegue il giudice remittente - con gli artt. 13 e 24 della Costituzione, poichè da essa deriverebbe "pregiudizio per una reale, e non meramente formale e nominalistica, tutela della libertà personale e per la effettività del diritto di difesa, non adeguatamente garantite da un meccanismo processuale che, consentendo la persistenza di un passaggio procedimentale il cui rispetto non é presidiato da sanzioni di sorta, risultando rimesso esclusivamente alla diligenza dell’organo competente, rischia di vanificare tutto il sistema di tutela approntato dal legislatore".

  Ritiene, infine, il remittente che la questione sia rilevante nel giudizio a quo, risultando documentalmente provato che il deposito della richiesta di riesame era avvenuto il 23 ottobre 1996 e che solo il 2 novembre 1996 il presidente aveva disposto che ne fosse dato avviso all’autorità procedente: apparendo dunque "non opinabile" l’inosservanza dell’obbligo di immediatezza di cui al comma 5 della norma impugnata, da intendersi come equivalente alla prescrizione di provvedere "non appena sia configurabile la possibilità giuridica e materiale dell’adempimento". L’accoglimento della questione imporrebbe infatti di dichiarare inefficace il provvedimento coercitivo, cui gli indagati risultano tuttora sottoposti.

  3.– Con distinte ma identiche memorie, una delle quali depositata fuori termine, si sono costituite in giudizio le parti private, chiedendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, sulla base di considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione. In particolare si fa rilevare che la scelta del legislatore, compiuta con le modifiche recate alle disposizioni in esame dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, é stata quella di rendere certo il dies a quo da cui decorre il termine di dieci giorni entro il quale deve intervenire la decisione del tribunale del riesame.

Ora, secondo la parte, la scelta legislativa di imprimere ritmi serrati all’attività di verifica del collegio de libertate risulterebbe vanificata se i termini stabiliti come perentori per la trasmissione degli atti e per la decisione fossero in fatto elastici a causa del mancato ancoraggio ad un dies a quo certo e determinato, con l'aggravante di lasciare proprio all'organo di controllo una disponibilità del termine assegnatogli per la decisione. L'obbligo di "immediato" avviso sarebbe espressione della volontà legislativa tesa a conseguire la puntuale osservanza dei tempi scanditi per la verifica della misura coercitiva: si deve provvedere subito, in modo automatico e senza possibilità alcuna di ritardo, in quanto ciò che rileva é la determinazione da parte del legislatore di un arco complessivo di tempo (risultante dai due termini per la trasmissione degli atti e per la deliberazione dell'organo di riesame) entro il quale deve intervenire la decisione.

Il fine di massima celerità evidenziato dalla fissazione dei termini processuali, coniugato con il rango primario del bene della libertà personale, dovrebbe orientare l'interprete verso una lettura delle norme coerente con i principi del favor libertatis e della tassatività delle ipotesi di privazione della libertà personale.

Sarebbe, secondo la parte, evidente il pregiudizio al fine di garanzia che deriverebbe dalla indeterminatezza del dies a quo da cui prende impulso l'intera procedura di controllo e decorre il termine, dal rispetto del quale dipende l'efficacia del titolo cautelare. Sarebbe inoltre evidente la disparità di trattamento tra i soggetti in vinculis derivante dalla celerità o meno dell’adempimento presidenziale: disparità che si sostanzierebbe nella durata del procedimento di riesame contenuta al massimo nei quindici giorni qualora il Presidente provveda ad horas e nella durata di fatto indeterminata tutte le volte in cui il Presidente del collegio ritardi l’avviso all’autorità procedente.

Si avrebbe così l'anomalo effetto di far ricadere sul soggetto in vinculis le conseguenze negative del mancato adempimento di un obbligo posto dalla legge a carico di un ufficio giudiziario.

Consentendosi l'elusione dei limiti temporali stabiliti dalla legge per le incombenze del procedimento di riesame si darebbe luogo, come ha ritenuto la Corte remittente, a pregiudizio per la reale tutela della libertà personale e per l'effettività del diritto di difesa.

Da ultimo la parte osserva che la prassi in vigore sarebbe di dubbia conformità alle norme delle convenzioni internazionali, richiamate dalla legge di delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura, le quali sanciscono il diritto del soggetto privato della libertà personale di fare ricorso ad un tribunale affinchè questo decida, entro brevi termini, sulla legalità della detenzione.

  4.– Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

  L’Avvocatura, premesso che l’immediatezza deve essere intesa in senso non solo cronologico (di "rapidità" dell’azione) ma procedimentale (di consequenzialità di un’azione all’altra senza "intermediazione" di atti diversi), fa rilevare che la disciplina impugnata appare ragionevole in considerazione della "diversa posizione del giudice chiamato al riesame di un atto da altri posto in essere, rispetto alla posizione di questi, il cui atto é contestato", "sicchè può ben considerarsi giusto porre termini più precisi per quest’ultimo".

A giudizio dell’Avvocatura, "le garanzie temporali della libertà personale poste dall’art. 13 Cost. non appaiono lese, nemmeno con riferimento al rinvio alla legge ordinaria previsto dal suo ultimo comma", poichè si deve riconoscere all’aggettivo 'immediato' "un contenuto giuridico, valido pur al di là di un termine cronologico preciso definibile in ore, giorni, mesi o anni (art. 172 cod. proc. pen.)"; nè sarebbe violato l’art. 24 della Costituzione, poichè l'inviolabilità del diritto di difesa é compatibile con la disciplina processuale dello stesso.

Considerato in diritto

1.– La questione di legittimità costituzionale investe il combinato disposto dei commi 5 e 10 dell'art. 309 cod. proc. pen., da cui discenderebbe, secondo l'interpretazione fatta propria dal giudice a quo, che l'inosservanza dell'obbligo di dare "immediato avviso" all'autorità procedente dell'avvenuta presentazione della richiesta di riesame - avviso dal cui ricevimento decorrerebbe il termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale competente, che a sua volta deve decidere entro dieci giorni dal ricevimento degli atti (comma 9 del medesimo art. 309) - non avrebbe conseguenze processuali, in particolare non darebbe luogo alla decadenza dell'efficacia della misura coercitiva, ai sensi del citato comma 10.

Tale situazione normativa, secondo la Corte remittente, confliggerebbe con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, per la irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe; con l'art. 13, primo comma, per il pregiudizio che ne deriverebbe ad una reale, e non meramente formale, tutela della libertà personale; con l'art. 24, secondo comma, per la inadeguata garanzia della effettività del diritto di difesa.

2.– La questione non é fondata nei sensi di seguito precisati.

L'art. 309 del codice di procedura penale, nella formulazione originaria, prevedeva: la presentazione della richiesta di riesame alla cancelleria del tribunale competente per il riesame medesimo (comma 4); l'"immediato avviso", a cura del Presidente, della presentazione della richiesta all'autorità procedente, che entro il giorno successivo doveva trasmettere gli atti al tribunale (comma 5); l'obbligo di questo di decidere entro dieci giorni dalla ricezione degli atti (comma 9); la sanzione della perdita immediata di efficacia della misura coercitiva "se la decisione sulla richiesta di riesame" non fosse intervenuta "entro il termine prescritto" (comma 10).

Quest'ultima disposizione risponde all'esigenza di assicurare un termine breve e certo per la verifica giudiziale, in contraddittorio, dei presupposti della misura cautelare, come strumento di garanzia della libertà personale, alla cui protezione la Costituzione attribuisce particolare rilevanza; ciò anche alla luce delle norme delle convenzioni internazionali, che sanciscono il diritto di chi sia privato della libertà personale di ricorrere ad un tribunale perchè sia deciso "entro brevi termini" (art. 5, comma 4, della convenzione europea firmata a Roma il 4 novembre 1950, per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) o "senza indugio" (art. 9, comma 4, del patto internazionale di New York, del 19 dicembre 1966, relativo ai diritti civili e politici), sulla legalità della detenzione.

E' evidente che in tanto può realizzarsi tale finalità di garanzia, in quanto il termine fissato dalla legge decorra da un momento a sua volta definito e determinabile con certezza. A poco varrebbe infatti un termine breve e perentorio per la decisione, assistito dalla sanzione processuale della perdita di efficacia della misura in caso di inosservanza, se la decorrenza del termine medesimo fosse determinata da eventi o adempimenti rimessi, sia pure sotto la comminatoria di termini ordinatori, alla stessa autorità giudiziaria che procede o che ha adottato la misura restrittiva, ovvero all'autorità chiamata a decidere sulla richiesta di riesame. In tal modo la garanzia della libertà personale, attraverso la tempestiva decisione sul riesame, resterebbe di fatto affidata alla spontanea, e non scontata, sollecitudine degli organi giudiziari.

Nè basterebbe, ai fini di garanzia che si sono detti, l'ipotetica responsabilità disciplinare dei titolari di uffici giudiziari che colpevolmente ritardassero gli adempimenti loro rimessi, poichè la sorte del destinatario della misura restrittiva resterebbe comunque assoggettata ad andamenti temporali incontrollabili: si sa, del resto, che, in assenza di termini perentori, le difficoltà organizzative o le vischiosità delle prassi burocratiche possono portare facilmente, anche al di fuori di dimostrabili negligenze individuali, al protrarsi dei procedimenti nel tempo.

3.– Ben si comprende, quindi, che il legislatore abbia avvertito il bisogno di perfezionare la disciplina in questione, e di rendere effettiva la garanzia del breve termine perentorio per la decisione sulla richiesta di riesame, stabilendo che non solo l'inosservanza di questo termine, ma anche di quello, precedente e condizionante, stabilito dalla legge per la trasmissione degli atti al tribunale – trasmissione dalla quale lo stesso termine per la decisione é fatto decorrere dall'art. 309, comma 9 – sia sanzionata dalla perdita di efficacia de jure della misura coercitiva: in tal senso infatti si é disposto con il nuovo testo dell'art. 309, comma 10, introdotto dall'art. 16, comma 5, della legge 8 agosto 1995, n. 332.

Contestualmente, il termine per la trasmissione degli atti, originariamente fissato nel "giorno successivo", é stato portato a "non oltre il quinto giorno" (comma 5 dell'art. 309, anch'esso novellato dall'art. 16 della legge n. 332 del 1995): evidentemente considerando che, atteso il carattere perentorio ora attribuito al termine medesimo, esso dovesse essere ragionevolmente allungato per tener conto delle eventuali difficoltà degli uffici nell'adempiere subito all'obbligo di trasmissione degli atti, così da consentirne il rispetto in ogni caso.

L'originario termine del "giorno successivo" é rimasto nella nuova formulazione della disposizione, ad esso aggiungendosi l'inciso "e comunque non oltre il quinto giorno". Ma, poichè non si possono, evidentemente, considerare contemporaneamente perentori, agli stessi effetti, due termini diversi per il medesimo adempimento, l'imperfetta dizione del nuovo testo potrebbe intendersi solo in due modi: o ritenendo che i due termini decorrano da diversi dies a quo, e cioé l'uno, quello del "giorno successivo", dalla ricezione dell'avviso, l'altro, quello del "quinto giorno", dalla presentazione della richiesta di riesame (e allora potrebbe acquistare un senso il riferimento del comma 10 al mancato rispetto dei "termini", al plurale, "di cui al comma 5"); oppure ritenendo che l'unico termine assistito dalla sanzione della perdita di efficacia della misura sia quello, stabilito ex novo, di cinque giorni.

In quest'ultimo caso, il riferimento apparente a più "termini" contenuto nel comma 10 dovrebbe ritenersi frutto di una difettosa formulazione. Infatti, alla ricomprensione, fra i "termini" assistiti dalla sanzione della decadenza della misura, di quello - ipotetico - stabilito perchè sia dato avviso alla autorità procedente della presentazione della richiesta (secondo una interpretazione in un primo momento considerata non implausibile dalla Corte di cassazione, nel rimettere alle sezioni unite la questione interpretativa, da queste poi non risolta ritenendosi inesistente un effettivo contrasto giurisprudenziale), osta, sul piano testuale, il riferimento del comma 10 al solo adempimento della "trasmissione degli atti", oltre che, sul piano logico, la considerazione, fatta valere dalla Corte remittente, che l'obbligo di avviso "immediato" non configura un vero e proprio termine in senso tecnico-giuridico, non facendosi riferimento ad alcuno spazio temporale scandito in ore, giorni, mesi o anni, secondo quanto prevede l'art. 172, comma 1, cod. proc. pen. per i termini processuali in generale: senza dire dell'incertezza, contraria essa stessa alle esigenze di garanzia che dominano la materia, e foriera di contenzioso, cui darebbe luogo la necessità di valutare in concreto, caso per caso, se vi sia stata violazione dell'obbligo di "immediatezza" dell'avviso, alla quale conseguirebbe la sanzione processuale della perdita di efficacia della misura coercitiva (come peraltro sarebbe necessario anche nell'ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme nel senso prospettato dal giudice a quo).

In ogni caso, é decisiva la considerazione che la ratio del nuovo termine perentorio stabilito dal legislatore del 1995 per la trasmissione degli atti é quella di impedire che il termine per la decisione decorra da un dies a quo lasciato alla determinazione degli organi giudiziari, non astretti nei loro adempimenti a vincoli temporali assistiti da sanzione processuale. In ciò sta il senso del conferimento del carattere di perentorietà, a pena di decadenza della misura, anche al termine per la trasmissione degli atti: in tal modo l'indagato sa che, al massimo entro quindici giorni (cinque per la trasmissione degli atti, e altri dieci per la decisione) interverrà la risposta alla sua richiesta di riesame. E questo é proprio l'effetto di garanzia che il legislatore ha voluto attribuire alla rigida disciplina in questione.

4.– Ora, é evidente che questo effetto di garanzia verrebbe ancora una volta frustrato, se lo stesso termine per la trasmissione degli atti, che condiziona quello per la decisione, venisse fatto decorrere da eventi o adempimenti rimessi alle determinazioni e alla sollecitudine degli organi procedenti, senza il vincolo di termini perentori e la relativa sanzione processuale. Questo é invece quanto propriamente si verifica, se si assume – secondo l'interpretazione finora adottata in giurisprudenza, e accolta anche dalla Corte remittente – che il termine per la trasmissione degli atti non decorre dalla presentazione della richiesta di riesame, bensì dalla ricezione, da parte dell'autorità procedente, dell'avviso della sua avvenuta presentazione, e che l'obbligo di "immediato avviso", a cura del Presidente del tribunale del riesame, non é assistito, nel caso di inadempimento, da alcuna sanzione processuale.

Una situazione normativa così ricostruita non potrebbe sfuggire alle censure di incostituzionalità mosse dal giudice a quo, poichè verrebbe meno, in un ambito particolarmente delicato com'é quello dei rimedi apprestati dall'ordinamento a tutela della libertà personale, la effettività del diritto di difesa, di cui fa parte il diritto alla decisione "entro brevi termini" o "senza indugio" – secondo le convergenti previsioni delle convenzioni internazionali sui diritti, sottoscritte dall'Italia – sul ricorso al tribunale chiamato a decidere se sussistano i presupposti legali per la misura coercitiva.

5.– Tuttavia, la lettura del sistema normativo accolta dal remittente non é l'unica possibile: prima di far luogo ad una interpretazione che condurrebbe inevitabilmente al riconoscimento della incostituzionalità delle norme, é dovere dell'interprete esaminare se non si dia la possibilità di una diversa lettura, compatibile col testo e con il sistema, tale da evitare la conseguenza dell'illegittimità costituzionale; e, ove tale diversa lettura sia possibile, é dovere dell'interprete procedervi direttamente, secondo il canone, costantemente affermato da questa Corte, dell'interpretazione conforme alla Costituzione.

Si é già chiarito come la scelta legislativa compiuta nel 1995 sia inequivoca, nel senso della volontà di sottrarre i tempi del procedimento di riesame ad ogni determinazione degli organi giudiziari non vincolata a termini certi e non disponibili, nemmeno nel loro dies a quo, così da dare piena garanzia alla persona colpita dalla misura circa i tempi massimi della decisione.

In questo contesto, la scelta di prevedere la presentazione della richiesta di riesame alla cancelleria del tribunale competente, con il successivo obbligo per l'autorità procedente, unica a disporre degli atti, sulla cui base la misura restrittiva é stata adottata, di trasferirli ad esso entro un termine perentorio, appare ispirata all'intento di facilitare l'organizzazione dei procedimenti da parte del tribunale del riesame, ma non certo a quello di inserire nel procedimento una nuova fase, dotata di autonomo significato processuale, come tale vincolata a specifici adempimenti formali e a termini entro cui essi debbano essere compiuti. L'immediato avviso che della presentazione della richiesta deve essere dato, a cura del Presidente del tribunale del riesame, all'autorità procedente, perchè essa provveda alla trasmissione degli atti, non costituisce cioé adempimento dotato di una sua autonoma funzione processuale, ma é solo la condizione materiale, per dir così, affinchè l'autorità procedente, che degli atti dispone, possa adempiere all'obbligo di trasmetterli.

Ciò significa che non si é introdotto un nuovo atto nella sequenza procedimentale: occorre soltanto che l'ufficio presso cui la richiesta é presentata ne dia immediata contezza all'autorità procedente, così consentendo gli adempimenti richiesti e per i quali sono imposti termini perentori, vale a dire la trasmissione degli atti, e, conseguentemente, la decisione. L'avviso può essere dato in qualsiasi modo, utilizzando i mezzi di comunicazione più opportuni, compresi quelli che si avvalgono di forme di trasmissione che non comportano intervallo fra "spedizione" e "ricezione" dell'avviso. L'unica cosa che importa é che l'autorità procedente venga portata, in qualsiasi modo, a conoscenza del fatto che deve trasmettere gli atti per il riesame della misura adottata.

Libera essendo la forma dell'avviso, e semplice essendone il contenuto (la comunicazione dell'avvenuta presentazione della richiesta di riesame di un determinato provvedimento restrittivo), e poichè esso si configura non come un atto singolarmente imputabile al Presidente e da lui sottoscritto, ma come un adempimento materiale dell'ufficio, che il Presidente deve solo "curare" sia compiuto, non vi é nessun ostacolo giuridico a che l'avviso venga di norma inoltrato nello stesso contesto temporale in cui perviene la richiesta, facendo così coincidere il momento dell'avviso con quello della presentazione della richiesta stessa.

La prescrizione secondo cui l'avviso deve essere "immediato" significa, appunto, che l'eventuale intervallo temporale fra la presentazione della richiesta e l'avviso della avvenuta presentazione non assume rilievo giuridico. Ciò che é "immediato", per definizione, non tollera intervalli temporali predefiniti ( e quindi termini), prima del decorso dei quali possa non ritenersi giuridicamente compiuto l'adempimento.

Ma se é così, deve ulteriormente concludersi che il termine perentorio per la trasmissione degli atti, assistito dalla sanzione processuale della decadenza della misura, non decorre da un evento, come la ricezione dell'avviso da parte dell'autorità procedente, che non ha, come si é detto, giuridica autonomia, ma decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta, inteso come spazio temporale definito e giuridicamente rilevante (posto che i termini in questione sono stabiliti a giorni) entro il quale si collocano sia la presentazione stessa, sia l'avviso relativo all'autorità procedente.

Occorre solo precisare che – ferma la disciplina delle modalità e dei termini per la proposizione della richiesta di riesame, di cui agli artt. 309, commi 1 e 4, 582 e 583 cod. proc. pen. – ai fini della decorrenza di detto termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti vale, come dies a quo, il giorno in cui la richiesta stessa perviene alla cancelleria del tribunale del riesame.

Dal punto di vista testuale, anche se il giorno "successivo" cui la disposizione continua a riferirsi si intenda come quello immediatamente seguente al giorno di ricezione dell'avviso da parte dell'autorità procedente (che peraltro dovrebbe di norma coincidere, per quanto si é detto, con il giorno di ricezione della richiesta da parte del tribunale del riesame), in conformità a quanto tuttora prevede l'art. 100, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., nell'ambito di una disciplina significativamente riferita agli adempimenti degli uffici, a prescindere dall'obbligo del rispetto dei termini processuali stabiliti dal codice, nulla vieta invece di considerare che il "quinto giorno", entro il quale devono "comunque" essere trasmessi gli atti, a pena di decadenza della misura ai sensi del comma 10, sia il quinto giorno successivo alla presentazione (nel senso precisato) della richiesta di riesame, potendosi ritenere implicito il riferimento proprio a quell'atto (la richiesta) al quale invariabilmente alludono i commi dell'art. 309 precedenti a quello in esame.

Quanto poi agli ostacoli di fatto che si possano eventualmente frapporre ad una cognizione effettivamente immediata, da parte dell'autorità procedente, dell'avvenuta presentazione della richiesta – dagli orari di chiusura degli uffici, ai ritardi nella individuazione dell'autorità procedente o agli errori incorsi in tale individuazione – essi, da un punto di vista di principio, non assumono rilievo giuridico, in forza della preminenza attribuita dalla legge all'esigenza di garanzia legata alla perentorietà del termine per la trasmissione degli atti.

Dal punto di vista pratico, siffatte difficoltà dovranno essere evitate o superate mediante le più opportune misure organizzative, affidate ai responsabili degli uffici.

6.– L'obiezione secondo cui non si potrebbe far decorrere il termine per la trasmissione degli atti, adempimento posto a carico dell'autorità procedente, prima che quest'ultima abbia avuto conoscenza, mediante l'avviso, dell'avvenuta presentazione della richiesta di riesame, può (e deve) essere superata considerando che nella specie il legislatore non ha configurato una sequenza procedimentale in cui intervengano con atti e funzioni processualmente autonomi le due istanze giudiziarie, il tribunale del riesame e l'autorità procedente, ma un unico fatto idoneo a far decorrere i termini, cioé la presentazione della richiesta, lasciando che la comunicazione fra i due uffici avvenga in forma libera, pur sempre entro l'unico arco temporale del primo termine perentorio stabilito, quello per la trasmissione degli atti.

Il legislatore avrebbe potuto - e potrebbe, se facesse una diversa scelta - prevedere, ad esempio, la presentazione della richiesta di riesame alla stessa autorità procedente, così rendendo superflua la comunicazione fra i due uffici giudiziari, e consentendo alla medesima autorità di conoscere senz'altro, direttamente, la circostanza che fa decorrere il termine perentorio per la trasmissione degli atti. Ma la scelta effettuata, se può in ipotesi essere valutata come inopportuna o foriera di difficoltà organizzative, non può condurre a frustrare in via interpretativa la ratio garantistica della statuizione di termini perentori per il procedimento di riesame.

Nè può ritenersi, tale scelta, priva di logica o palesemente in contraddizione con le esigenze minime di organizzazione degli uffici giudiziari. Nel bilanciamento fra queste esigenze e quelle, pur sempre prevalenti, legate al favor libertatis e alla garanzia effettiva di un rapido riesame delle misure coercitive, non é illogico avere posto a carico degli uffici giudiziari l'onere di comunicazioni informali idonee a consentire il compimento degli atti processuali entro i termini perentori stabiliti. E non é irragionevole l'aver ricompreso nel termine di cinque giorni dalla presentazione della richiesta, stabilito per la trasmissione degli atti - termine considerevolmente protratto, proprio per tener conto del carattere perentorio ora ad esso attribuito, rispetto a quello originariamente stabilito nel "giorno successivo" - tutti gli adempimenti materiali necessari per rendere concretamente possibile la tempestiva trasmissione degli atti al tribunale del riesame.

7.– Questa Corte é ben consapevole che l'interpretazione da essa proposta non coincide con quella che la giurisprudenza ha finora seguito, e che peraltro la stessa autorità remittente ha mostrato di voler mettere in discussione, contestandone la legittimità costituzionale. E' tuttavia la forza preminente dei principi costituzionali relativi alla garanzia giurisdizionale in materia di libertà personale che impone di non dar seguito, anzitutto in sede interpretativa, ad una ricostruzione del sistema, la quale si tradurrebbe nella lesione di quei principi: fermo restando, evidentemente, che il legislatore, se riterrà che dalla norma, come qui interpretata, discendano eccessive difficoltà organizzative per gli uffici, potrà introdurre altre modifiche della disciplina in esame, sempre nell'ambito di un bilanciamento non irragionevole fra gli interessi in gioco, senza vanificare la essenziale funzione di garanzia che ai termini, e alle sanzioni processuali per la loro inosservanza, si ricollega nel sistema vigente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 309, commi 5 e 10, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° giugno 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Valerio ONIDA

Depositata in cancelleria il 22 giugno 1998.