Sentenza n.53/98

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SENTENZA N.53

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO  

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE  

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  

- Prof. Annibale MARINI  

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 15, comma 1, e 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promossi con ordinanze emesse il 29 ottobre 1996 dalla Commissione tributaria provinciale di Crotone, il 24 gennaio 1997 dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta e l'11 aprile 1997 dalla Commissione tributaria provinciale di Macerata, rispettivamente iscritte ai nn. 28, 248 e 482 del registro ordinanze 1997 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6, 20 e 30, prima serie speciale, dell'anno 1997.

  Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

 

  1.1. - Nel corso di un procedimento promosso da un contribuente per la declaratoria di illegittimità dell'iscrizione a ruolo, da parte del competente Ufficio distrettuale imposte dirette, di un debito di imposta, la Commissione tributaria provinciale di Crotone, con ordinanza emessa il 29 ottobre 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), che subordina la condanna alle spese di lite alla soccombenza della parte che ne viene gravata, e del successivo art. 46, comma 3, dove si prevede, per l'ipotesi di declaratoria di cessazione della materia del contendere, che le spese di lite restino a carico della parte che le ha anticipate.

  La rimettente - preso atto della concorde richiesta delle parti di dichiarare la cessazione della materia del contendere, per l'intervenuto riconoscimento da parte dell'amministrazione convenuta della fondatezza dell'esperita opposizione - sospetta che le norme censurate si pongano in contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui "non prevedono la possibilita' di condannare una delle parti in lite, ritenuta aver dato ingiustamente luogo al contenzioso tributario, poi venuto meno per riconoscimento spontaneo da parte della stessa della fondatezza delle ragioni della controparte, alla rifusione a quest'ultima delle spese e competenze".

  Osserva il giudice a quo che nel nuovo rito tributario - essendo imposto alla parte ricorrente, per le liti di valore superiore ai cinque milioni di lire, l'assistenza tecnica - é stato introdotto il generale obbligo, per chi dia luogo ingiustamente ad una lite, di rifondere delle relative spese la controparte costretta ad attivarsi per resistere alle sue infondate pretese. Peraltro, nella specie, il riconoscimento da parte dell'Amministrazione finanziaria, nel primo atto difensivo, della fondatezza dei rilievi dell'opponente, determinando una obbligata pronunzia di cessazione della materia della lite, beneficia l'Amministrazione stessa di una posizione di privilegio, che la pone ingiustamente al riparo dall'onere di sopportare le spese di lite anticipate dalla controparte, con conseguente irragionevolezza delle denunciate norme, confliggenti con il principio di uguaglianza.

  1.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità della sollevata questione ovvero per la sua infondatezza, ricordando che la giurisprudenza costituzionale, sul prevalente rilievo della specificità del processo tributario, ha escluso - nel precedente regime di contenzioso - ogni violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa riguardo alle disposizioni che non prevedevano la condanna alle spese processuali per il caso di soccombenza.

  Osserva inoltre l'Avvocatura che, se l'art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992 - considerato l'adeguamento del processo tributario a quello civile, richiesto dalla legge delega 31 dicembre 1991, n. 413 - é perfettamente aderente alle regole generali fissate dagli artt. 92 e 96 del codice di procedura civile, altrettanto va detto per la previsione relativa alla ripartizione delle spese in caso di estinzione del giudizio. Mentre la previsione normativa della cessazione della materia del contendere quale causa di estinzione del processo tributario si ricollega alla peculiarità di tale processo ed alla specificità del rapporto sostanziale controverso, che può venir meno per varie circostanze.

  2.1. - Nel corso di analogo procedimento - in cui, a séguito di domanda d'annullamento d'un accertamento fiscale ed avviso di irrogazione della sanzione relativi all'anno di imposta 1991, il competente Ufficio IVA aveva comunicato la regolarità della domanda di condono presentata dal ricorrente e la sua idoneità a far cessare la materia del contendere - la Commissione tributaria provinciale di Caserta, con ordinanza emessa il 24 gennaio 1997, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 46, comma 3, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992.

  Secondo la rimettente, che svolge considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle sviluppate dalla Commissione tributaria provinciale di Crotone, la norma censurata si porrebbe in contrasto: a) con l'art. 3 Cost., attesa la disparità di trattamento rispetto alla regola generale della "soccombenza virtuale" vigente nel processo civile e l'ingiustificato privilegio concesso all'Amministrazione finanziaria rendendola irresponsabile per i danni subiti dal contribuente a seguito d'un comportamento di essa qualificabile come negligente; b) con l'art. 24, primo comma, Cost., in ragione della conseguente limitazione della tutela giurisdizionale nonchè della menomazione del diritto di difesa dei contribuenti stessi, scoraggiati ad accedere a qualunque forma di giustizia; c) con il primo comma dell'art. 97 Cost., legittimando anche per il futuro ed a tempo indeterminato la violazione dei diritti dei contribuenti da parte dell'Amministrazione finanziaria.

  2.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta infondatezza della questione. Alle argomentazioni svolte nel precedente giudizio, l'Avvocatura aggiunge l'ulteriore considerazione relativa alla ragionevolezza della classificazione, operata dal legislatore, della cessazione della materia del contendere nel processo tributario quale fattispecie legale tipica di giusti motivi di compensazione delle spese, che non rappresenta un ingiustificato privilegio dell'amministrazione finanziaria, quanto piuttosto un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di giustizia e quelle di pronta definizione del relativo contenzioso.

  3.1. - In un analogo procedimento - nel corso del quale, a séguito della richiesta di annullamento d'un avviso d'accertamento da parte di un contribuente, il competente Ufficio distrettuale imposte dirette aveva successivamente provveduto al suo annullamento - la Commissione tributaria provinciale di Macerata, con ordinanza emessa l'11 aprile 1997, ha sollevato, con motivazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte dagli altri rimettenti, questione di legittimità costituzionale dell'art. 46, comma 3, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992, prospettando la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, e 24 Cost.

  3.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo, sulla base di considerazioni identiche a quelle svolte negli altri giudizi, per la manifesta infondatezza della sollevata questione.

Considerato in diritto

 

  1. - Le Commissioni tributarie rimettenti dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto non prevede la possibilità di condannare la parte in lite che abbia dato ingiustamente luogo al contenzioso tributario, poi venuto meno per suo riconoscimento spontaneo della fondatezza delle ragioni della controparte, alla rifusione delle spese processuali.

  In particolare, secondo la Commissione tributaria provinciale di Crotone - la quale é la sola a censurare, sulla base di identiche considerazioni, anche l'art. 15, comma 1, del citato provvedimento legislativo -, le denunciate norme si porrebbero in contrasto con l'art. 3 Cost., stante l'irrazionale posizione di privilegio di cui verrebbe a godere l'Amministrazione finanziaria, posta ingiustamente al riparo dall'onere di sopportare le spese di lite anticipate dalla controparte.

  A giudizio delle Commissioni tributarie di Caserta e Macerata, invece, alla lesione del principio di uguaglianza - conseguente alla disparità di trattamento rispetto alla regola generale della "soccombenza virtuale", valevole nel processo civile, ed all'ingiustificato privilegio concesso all'Amministrazione finanziaria, irresponsabile per i danni subiti dal contribuente a séguito di un comportamento di essa qualificabile come negligente - si accompagnerebbe la violazione dell'art. 24 Cost., per la limitazione della tutela giurisdizionale e la menomazione del diritto di difesa che ne deriverebbero al contribuente, il quale, pur avendo ragione, potrebbe essere indotto a non ricorrere contro l'Amministrazione stessa.

  Per la sola Commissione tributaria di Caserta, infine, il censurato comma 3 dell'art. 46 violerebbe altresì l'art. 97, primo comma, Cost., legittimando di fatto, anche per il futuro ed a tempo indeterminato, la violazione dei diritti dei contribuenti da parte dell'Amministrazione finanziaria.

  2. - I giudizi, riguardanti questioni sostanzialmente identiche, possono essere riuniti e congiuntamente decisi.

  3. - Le questioni non sono fondate.

  3.1.1. - Quanto alla prospettata lesione del principio di uguaglianza, va anzitutto rilevata l'incomprensibilità della censura rivolta dalla Commissione tributaria di Crotone all'art. 15, comma 1, col quale il legislatore delegato non ha fatto altro che conformare la disciplina delle spese nel nuovo processo tributario a quella prevista dal codice di procedura civile, in evidente correlazione con la obbligatorietà dell'assistenza tecnica della parte privata nel giudizio (disposta dall'art. 12, con eccezione per le sole controversie di valore inferiore a 5 milioni di lire).

  3.1.2. - Dal paradigma processuale del giudizio civile (al cui specifico àmbito appartiene la costruzione giurisprudenziale della "soccombenza virtuale") si diparte invece il successivo art. 46, che nel comma 1 ricomprende tra le ipotesi di estinzione del giudizio la cessazione della materia del contendere, stabilendo poi nel comma 3 che "le spese del giudizio estinto a norma del comma 1 restano sempre a carico della parte che le ha anticipate".

  Va però notato che il processo tributario, rispetto a quello civile ed amministrativo, conserva una sua spiccata specificità, correlata sia alla configurazione dell'organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio. Rapporto che attiene alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l'esercizio delle sue funzioni attraverso l'attività dell'Amministrazione finanziaria, la quale ha il potere-dovere di provvedere, con atti autoritativi, all'accertamento ed alla pronta riscossione dei tributi.

  Stante la piena autonomia dei sistemi processuali messi a confronto, che si presentano in sè compiuti e riguardano liti in materie non omogenee, la non simmetrica costruzione delle relative singole norme non é dunque idonea a produrre il prospettato vulnus al principio di uguaglianza (v. sentenza n. 79 del 1997). Basti in proposito ricordare il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui un modello processuale non può essere assunto a parametro per un rito diverso.

  3.1.3. - D'altronde, la obbligatorietà della compensazione delle spese é prevista in ogni caso di cessazione della materia del contendere, venendo sotto questo profilo le parti del processo tributario poste sullo stesso piano. Donde l'assenza dell'asserito privilegio a favore della pubblica amministrazione.

  Il legislatore con la denunciata disposizione non ha fatto altro che ricondurre ad una regola sistematica (peraltro residuale) quanto in precedenza era stato disposto da provvedimenti normativi a contenuto particolare, specie in occasione dei ciclici condoni tributari, costruendo - come la dottrina non ha mancato di rilevare - una categoria astratta di situazioni comportanti sempre il medesimo effetto, "salvo diverse disposizioni di legge". Ed appare evidente come tale regola sia frutto di un bilanciamento tra le istanze dei singoli e la conservazione delle peculiari caratteristiche di snellezza del processo tributario, la cui articolazione assai semplice, funzionale all'esigenza della massima celerità, avrebbe mal tollerato la indubbia complicazione costituita dall'accertamento di merito necessario onde stabilire la "soccombenza virtuale", comportante una pronunzia soggetta ad impugnazione.

  Tanto basta per ritenere che il legislatore non abbia nella specie superato il limite della razionalità nell'opera di conformazione degli istituti processuali che é del tutto affidata alla sua discrezionalità; e dunque per escludere anche sotto questo profilo la prospettata violazione dell'art. 3 Cost.

  3.2. - Privi di consistenza sono altresì i dubbi sollevati con riferimento all'art. 24 Cost.

  Questa Corte - ripetutamente investita del vaglio di costituzionalità dell'art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, che sanciva l'inapplicabilità al processo tributario (come allora regolato) delle disposizioni del giudizio civile riguardanti la ripartizione tra le parti delle spese processuali - aveva già ritenuto non incostituzionale detta norma, osservando che l'istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese stesse ha sì carattere generale ma non anche portata assoluta, potendosene profilare la derogabilità, oltre che ad opera del giudice del singolo processo quando ricorrano giusti motivi ai sensi del secondo comma dell'art. 92 cod. proc. civ., anche per previsione normativa in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione della regola generale sancita nel codice di rito civile (v. sentenza n. 196 del 1982 e successive ordinanze n. 41 del 1984, n. 335 del 1987, n. 244 del 1989, n. 29 del 1991).

  In tali occasioni la Corte aveva altresì affermato e ribadito - facendo riferimento alla diversità e maggiore snellezza del procedimento tributario rispetto a quello civile ordinario - come l'effettiva predisposizione delle difese in giudizio prescindesse dalla possibilità di conseguire la (eventuale) ripetizione delle spese processuali; con ciò escludendo la paventata violazione dell'art. 24 Cost.

  Da codeste conclusioni non v'é ragione di discostarsi, pur in presenza delle innovazioni apportate al sistema processuale del contenzioso tributario dal decreto legislativo n. 546 del 1992 onde adeguarlo a quello civile, in attuazione dei princìpi e criteri contenuti nell'art. 30, lettera g), della legge delega 30 dicembre 1991, n. 413. Ed a fortiori, allora, deve ritenersi che l'obbligo per il giudice di dichiarare compensate le spese processuali non comporta la lamentata menomazione del diritto di difesa.

  Principio insuperabile é esclusivamente quello che la parte vittoriosa non venga gravata, in tutto o in parte, delle spese di lite (v. sentenza n. 46 del 1975). La compensazione é, invece, istituto di regola lasciato al potere discrezionale del giudice, sulla base d'un apprezzamento dell'esistenza di giusti motivi, la quale, appunto, nella normativa de qua viene sostanzialmente affermata dal legislatore con la previsione di una fattispecie legale tipica.

  3.3. - Palesemente priva di fondamento, infine, é la prospettata violazione dell'art. 97 Cost., poichè tale parametro attiene esclusivamente alle leggi concernenti l'ordinamento degli uffici giudiziari nonchè al loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, e non é invece riferibile a norme, quali quella sottoposta al presente scrutinio, che regolano l'esercizio della funzione giurisdizionale (v., da ultimo, sentenze n. 182 e n. 225 del 1996).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  riuniti i giudizi,

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 15, comma 1, e 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Crotone, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

  dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta ed, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Macerata, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Cesare RUPERTO

Depositata in cancelleria il 12 marzo 1998.