Ordinanza n. 33/98

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ORDINANZA N.33

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 438 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 25 marzo 1997 dalla Corte d’appello di Trieste nel procedimento penale a carico di Vitiello Raffaele, iscritta al n. 347 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto che con ordinanza del 25 marzo 1997 emessa nel corso di un giudizio penale la Corte d’appello di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, 25 e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 cod. proc. pen., nella parte in cui "subordina al consenso del pubblico ministero l’esperibilità del rito abbreviato chiesto dall’imputato";

che il rimettente riferisce che nel corso del procedimento di primo grado il giudice aveva respinto, stante il dissenso del pubblico ministero, la richiesta di giudizio abbreviato formulata dall’imputato e aveva altresì rigettato un’eccezione del medesimo relativa all’incostituzionalità della disciplina del rito speciale nella parte in cui stabilisce l’insindacabilità del diniego dell’organo di accusa; che la pronuncia dibattimentale di condanna resa dal giudice di primo grado era appellata dall’imputato, il quale riproponeva, tra i motivi di impugnazione, l’eccezione anzidetta, alla quale ritiene ora di dare seguito il giudice di appello, previa affermazione della rilevanza della questione, il cui accoglimento determinerebbe, a norma dell’art. 442 cod. proc. pen., la riduzione di un terzo della pena applicabile;

che ad avviso della Corte d’appello la necessità, per l’accesso al giudizio abbreviato, del consenso del pubblico ministero attribuisce a quest’ultimo un insindacabile potere di veto, tale da influire in modo incontrollabile sulla determinazione della pena; compito, questo, che il codice e ancor prima la Costituzione affidano al giudice;

che l’attribuzione di un siffatto potere risulta, ad avviso del rimettente, in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, per ingiustificata possibilità di trattamento differenziato di casi analoghi, in quanto dedotti in procedimenti trattati da diversi pubblici ministeri; b) con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, per la violazione del diritto di difesa; c) con l’art. 25 della Costituzione, per la lesione del principio del giudice naturale e d) con l’art. 101, secondo comma, della Costituzione, per la soggezione del giudice alla volontà del pubblico ministero invece che soltanto alla legge;

che é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o comunque per l’infondatezza della questione.

Considerato che la Corte d’appello rimettente prospetta una dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 438 cod. proc. pen. che elimini dai presupposti di ammissibilità del giudizio abbreviato il consenso del pubblico ministero, così da superare una disciplina che, ad avviso della Corte stessa, accorda all’organo di accusa un insindacabile potere di " veto" sull’esperibilità del giudizio speciale, con le conseguenze sostanziali che ne derivano;

che questa Corte con la sentenza n. 81 del 1991 - menzionata dallo stesso giudice a quo - ha introdotto nella disciplina del giudizio abbreviato il controllo del giudice sul dissenso del pubblico ministero, come garanzia rispetto a un possibile diniego ingiustificato, e ha indicato al contempo - ricavandolo dal sistema - il criterio alla cui stregua verificare la legittimità del dissenso, cioé la definibilità del processo allo stato degli atti, conseguentemente riconoscendo al giudice del merito il potere di applicare la riduzione di un terzo della pena quando il mancato consenso risulti ingiustificato;

che nell’anzidetta riconfigurazione dello schema procedimentale del rito speciale i dubbi di costituzionalità prospettati dal rimettente perdono rilievo, poichè il sindacato del giudice, anche dell’impugnazione, sulla legittimità del diniego del giudizio abbreviato consente di applicare all’imputato la riduzione di pena quando la mancata trattazione del processo nella forma abbreviata sia dipesa da un dissenso ingiustificato dell’accusa, così da escludere che possano ravvisarsi gli inconvenienti e le arbitrarie differenziazioni tra imputati, lamentati dal giudice a quo;

che la richiesta di eliminazione del presupposto del consenso del pubblico ministero ai fini dello svolgimento del giudizio abbreviato risulterebbe d’altra parte eccessiva e impropria allo stato attuale della disciplina, in quanto equivarrebbe alla possibilità di adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero e sulla base della sola volontà dell’imputato, espressa in funzione dei propri interessi di difesa, possibilità che questa Corte ha ravvisato come non coerente con il disegno attuale del processo penale (sentenza n. 81 del 1991 citata; sentenza n. 284 del 1990);

che inoltre questa Corte ha sottolineato come la pura e semplice eliminazione del presupposto del consenso del pubblico ministero verrebbe a determinare ulteriori disarmonie di dubbia costituzionalità nel sistema, poichè alla perdita, per l’accusa, della facoltà di interloquire sulla scelta del rito dovrebbero accompagnarsi una nuova disciplina sull’esercizio del diritto alla prova e una modifica delle limitazioni alla facoltà di impugnazione (sentenze n. 442 del 1994 e n. 92 del 1992), secondo scelte e soluzioni che sono affidate al legislatore, cui più volte questa Corte ha d’altra parte indirizzato l’invito a provvedere al riguardo;

che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata, sotto ogni profilo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, 25 e 101, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Trieste, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Gustavo ZAGREBELSKY

Depositata in cancelleria il 26 febbraio 1998.