Ordinanza n. 23/98

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ORDINANZA N.23

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI              

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 210, comma 4, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 novembre 1996, dalla Corte d’Appello di Palermo, nel procedimento penale a carico di Riina Salvatore ed altri, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che la Corte di appello di Palermo, nel corso di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 210, comma 4, del codice di procedura penale, in riferimento agli articoli 3, 24, comma secondo, e 97 della Costituzione, nella parte in cui riconosce agli imputati in un procedimento connesso la facoltà di non rispondere anche quando tali soggetti siano stati condannati con sentenza passata in giudicato o ammessi a programma di protezione "rispettivamente per la ricostruzione dei fatti in ordine ai quali la loro responsabilità é stata accertata con sentenza definitiva o é stata ammessa nell’ambito della collaborazione e positivamente valutata con l’ammissione al programma";

che ad avviso del giudice rimettente la norma censurata comprimerebbe irragionevolmente il diritto di difesa della persona proposta per l’applicazione della misura di prevenzione, essendo consentito, ai sensi dell’art. 513, comma 2, cod. proc. pen., nel testo risultante dopo l’intervento della sentenza di questa Corte n. 254 del 1992, di utilizzare ai fini della decisione le dichiarazioni rese da chi si é avvalso della facoltà di non rispondere;

che il giudice a quo, in base al presupposto che nel procedimento di prevenzione possono essere assunti i mezzi di prova previsti dal libro III del codice di procedura penale, rileva che, nelle due specifiche situazioni da lui evocate, l’esigenza di bilanciamento del diritto di difesa degli imputati in un procedimento connesso (nella sua manifestazione del diritto al silenzio) con il diritto del destinatario della misura di prevenzione alla verifica delle fonti di prova perderebbe "ogni sua concreta giustificazione per debordare nel campo dell’irrazionale privilegio": ad avviso del giudice rimettente, infatti, la responsabilità dei soggetti indicati dall’art. 210, comma 1, cod. proc. pen. in ordine ai fatti oggetto di prova in un caso é già stata accertata con sentenza passata in giudicato, nell’altro é stata ammessa nell’ambito della collaborazione e positivamente accertata con il provvedimento di ammissione al programma di protezione, con la conseguenza che non potrebbe derivare al dichiarante alcun pregiudizio dall’essere chiamato a rendere dichiarazioni contra se;

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso sostenendo l’infondatezza della questione.

Considerato che, successivamente all’ordinanza di rimessione, la legge 7 agosto 1997, n. 267, avente ad oggetto "Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove", ha tra l’altro modificato la disciplina complessiva dell’utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese da un imputato in un procedimento connesso;

che in particolare, pur lasciando inalterato l’art. 210, comma 4, cod. proc. pen., oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale, la legge n. 267 del 1997 ha innovato gli articoli 238, e 513, comma 2, cod. proc. pen., ai quali il giudice rimettente di fatto si richiama nel delineare il sistema di utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese dall’imputato in un procedimento connesso; sistema che costituisce l’essenziale punto di riferimento della presente questione di legittimità costituzionale;

che spetta alla Corte di appello rimettente valutare se di tali nuove disposizioni possa farsi applicazione nel giudizio a quo;

che pertanto deve disporsi la restituzione degli atti affinchè il giudice rimettente possa riesaminare, alla stregua delle nuove disposizioni, la rilevanza della questione sollevata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti alla Corte di appello di Palermo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Guido NEPPI MODONA

Depositata in cancelleria il 18 febbraio 1998.