Sentenza n. 18/98

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SENTENZA N.18

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI    

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), promossi con ordinanze emesse il 13 gennaio 1996 dal Pretore di Lecce sul ricorso proposto da Greco Assunta contro l’INPS, iscritta al n. 236 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 1996 ed il 25 settembre 1996 dal Tribunale di Firenze sul ricorso proposto da Carnevali Giuseppa contro l’INPS, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visti gli atti di costituzione dell’INPS, di Greco Assunta e di Carnevali Giuseppa nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 ottobre 1997 il Giudice relatore Fernanda Contri;

uditi gli avvocati Carlo De Angelis per l’INPS, Gabriella Del Rosso per Carnevali Giuseppa e l’Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un giudizio - iniziato da Assunta Greco nei confronti dell’INPS per ottenere l’integrazione al trattamento minimo della pensione diretta, con conseguente riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità nella misura del sessanta per cento di quella, già integrata, spettante al suo dante causa - il Pretore di Lecce, con ordinanza emessa il 13 gennaio 1996, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, periodo secondo, ultima parte, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella sua interezza, o per la parte in cui non prevede la necessità di una domanda dell’interessato per l’integrazione al trattamento minimo della pensione di riversibilità costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione obbligatoria non inferiore a 781.

Al fine di stabilire quale fra le due pensioni - inferiori al trattamento minimo ed a carico della stessa gestione - spettanti alla ricorrente fosse da integrare, l’INPS aveva applicato l’art. 6, comma 3, il quale, dopo aver premesso che "nel caso di titolarità di pensioni dirette ed ai superstiti a carico della stessa gestione inferiori al trattamento minimo, l’integrazione al trattamento minimo é garantita sulla sola pensione diretta" (sempre che non risultino superati i limiti di reddito di cui ai precedenti commi dell’art. 6), recita: "nel caso in cui una delle pensioni risulti costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione obbligatoria, effettiva e figurativa con esclusione della contribuzione volontaria e di quella afferente a periodi successivi alla data di decorrenza della pensione, non inferiore a 781, l’integrazione al trattamento minimo spetta su quest’ultima pensione".

Osserva il giudice rimettente che il criterio risultante dal combinato disposto della prima e della seconda parte del riportato periodo secondo del comma 3 dell’art. 6 del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, impone di integrare al trattamento minimo la pensione di riversibilità costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781, qualora questa concorra con una pensione diretta costituita per effetto di un numero inferiore di settimane di contribuzione.

Il giudice a quo dubita della costituzionalità dell’ultima parte del secondo periodo - correttamente, ad avviso del rimettente, applicata dall’INPS per determinare il trattamento spettante alla ricorrente, ciò che consente di affermare la rilevanza della questione - isolatamente considerata, ovvero in combinato disposto con la prima parte del medesimo periodo, in considerazione dell’apparente assenza di una ragione giustificatrice della deroga da tale ultima parte introdotta al criterio - ritenuto dal rimettente dotato di valore generale - stabilito nella prima parte del periodo secondo, che, ai fini dell’integrazione in caso di titolarità di pensioni diretta ed ai superstiti inferiori al trattamento minimo, privilegia la prima.

La scelta legislativa di integrare al trattamento minimo la pensione ai superstiti qualora risulti l’unica costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781 potrebbe, ad avviso del pretore rimettente, portare ad un trattamento pensionistico complessivo migliore o peggiore di quello spettante per l’ipotesi di integrazione della pensione diretta, "a seconda di una circostanza non considerata dalla norma e per questo alla stessa indifferente, quale appunto il numero, molto distante o molto prossimo a 781, dei contributi settimanali da far valere per il calcolo della pensione diretta".

Dall’applicazione del criterio censurato deriverebbero ingiustificate disparità di trattamento tra soggetti "plurititolari", ed altresì conseguenze irrazionali, potendo, "contro ogni logica equitativa (che deve premiare chi ha più contribuito)", il titolare di pensione diretta notevolmente inferiore al trattamento minimo nell’importo "a calcolo" e di pensione ai superstiti costituita con un numero di settimane di contribuzione inferiore a 781 trovarsi a godere di un trattamento complessivo migliore di quello che gli sarebbe spettato qualora sulla posizione assicurativa del suo dante causa fossero stati versati più di 780 contributi settimanali. Nell’ordinanza di rimessione si aggiunge che "l’assurdità" di integrare al minimo la pensione di riversibilità tutte le volte che questa sia stata costituita per effetto di oltre 780 settimane di contribuzione appare ancora più evidente alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 495 del 1993, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, nella parte in cui non prevede che la pensione di riversibilità sia calcolata proporzionalmente alla pensione diretta integrata al trattamento minimo già liquidata, o comunque spettante, al dante causa del pensionato.

2. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si é costituito l’INPS per chiedere il rigetto della questione, deducendo la razionalità della disciplina denunciata sia in considerazione dei particolari benefici riconosciuti dal d.P.C.m. 16 dicembre 1989 alle pensioni dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti liquidate con più di 780 contributi, purchè integrate al trattamento minimo; sia perchè l’impugnato art. 6, comma 3, per i vari casi di plurititolarità, specifica soltanto su quale pensione é dovuta l’integrazione, senza alcun riferimento al trattamento complessivo in conseguenza spettante, scegliendo di privilegiare il trattamento minimo di importo più elevato, ma non il trattamento complessivo più favorevole; sia, infine, in quanto la normativa introdotta dall’art. 6 del decreto-legge n. 463 del 1983 trae origine da una necessità di riordino della materia dell’integrazione al minimo e di contenimento della spesa pubblica.

3. - E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, per chiedere la declaratoria di manifesta infondatezza della questione. Si legge nell’atto di intervento che "una volta affermato il principio, che appare del tutto ragionevole, secondo il quale l’integrazione al trattamento minimo della pensione di riversibilità é dovuta quando il dante causa del titolare della pensione medesima abbia provveduto ai versamenti contributivi per un numero di settimane non inferiore a 781, non si comprende la necessità della domanda dell’interessato per ottenere il predetto beneficio". La circostanza poi che nelle liquidazioni possano verificarsi trattamenti diversi sarebbe determinata da situazioni differenziate, e l’affermazione del giudice a quo, per cui la norma denunciata "tende a favorire preferibilmente chi abbia meno lavorato e, quindi, meno contribuito", non risulterebbe fondata su concrete e specifiche indicazioni.

4. - La ricorrente nel procedimento civile a quo ha depositato tardivamente l’atto di costituzione nel presente giudizio costituzionale.

5. - In prossimità dell’udienza, l’INPS ha depositato una memoria illustrativa ad integrazione di quanto già dedotto con l’atto di costituzione.

L’Istituto premette che l’interpretazione letterale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge n. 463 del 1983, che impone di distinguere tra pensioni appartenenti a diverse gestioni e pensioni a carico della stessa gestione, appare esatta fino all’entrata in vigore dell’art. 7 della legge n. 140 del 1985, che ha parificato i trattamenti minimi. Dopo l’equiparazione dei trattamenti minimi, non vi sarebbe più ragione di sottrarre alla speciale disciplina dettata per l’ipotesi di concorso di pensione diretta con pensione di riversibilità il caso che dette pensioni gravino su gestioni diverse. Anche in quest’ultimo caso il criterio di determinazione della pensione da integrare sarebbe quello che comporta il riconoscimento del trattamento minimo sulla pensione diretta, salvo il caso della pensione assistita da un requisito contributivo di almeno 781 settimane.

D’altro canto, quanto al criterio sussidiario previsto dal primo periodo del denunciato terzo comma, l’INPS insiste nel sottolineare come non sia affatto certo che la pensione più remota sia quella di importo più basso, e che quindi l’applicazione di tale criterio sussidiario comporti sempre un trattamento pensionistico complessivo più favorevole; vantaggio, quest’ultimo, che il legislatore non si é peraltro mai preoccupato di garantire.

In ordine alla richiesta di intervento additivo formulata nell’ordinanza di rimessione del Pretore di Lecce, l’INPS osserva infine che sarebbe privo di razionale giustificazione il criterio di rimettere al pensionato la scelta della pensione da integrare, tanto più che tale facoltà verrebbe riconosciuta solo nell’ipotesi considerata nell’ultima parte del terzo comma e resterebbe esclusa nelle altre, ove pure la mancanza di scelta non si accompagna ad un trattamento complessivo necessariamente più favorevole.

6. - Questioni parzialmente analoghe sono state sollevate dal Tribunale di Firenze nel corso di un giudizio promosso da Giuseppa Carnevali contro l’INPS, per chiedere la riforma in appello della sentenza con la quale il Pretore di Firenze aveva respinto la domanda volta ad ottenere l’integrazione al trattamento minimo della sua pensione diretta, con conseguente riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità nella misura del sessanta per cento di quella spettante al dante causa, comprensiva della quota di integrazione al trattamento minimo. Il Tribunale di Firenze, con ordinanza emessa il 25 settembre 1996, ha sollevato, in relazione agli articoli 3 e 29 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui stabilisce, in caso di cumulo tra più pensioni, ai fini della individuazione di quella da integrare al trattamento minimo, criteri ingiustificatamente diversi tra pensioni appartenenti a diverse ovvero ad un’unica gestione, e meno favorevoli per quest’ultima ipotesi, sacrificando in tal caso la funzione della pensione di riversibilità.

Anche in questo caso, al fine di stabilire quale fra le due pensioni - inferiori al trattamento minimo ed a carico della stessa gestione - spettanti all’appellante fosse da integrare, l’INPS aveva applicato l’art. 6, comma 3, periodo secondo, del decreto-legge n. 463 del 1983.

Ad avviso del Tribunale rimettente, la ragione che giustificava la deroga al criterio volto a privilegiare la pensione diretta é venuta meno con l’abolizione, ad opera del d.P.C.m. 16 dicembre 1989, dei benefici che l’art. 14-quater del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, nonchè la legge 15 aprile 1985, n. 140, garantivano alle pensioni liquidate per effetto di almeno 781 contributi settimanali. L’attuale quadro normativo sarebbe diverso da quello presupposto dal disegno originario del legislatore del 1983, con la conseguenza che, oggi, le stesse disposizioni allora approvate, risulterebbero ingiustificatamente discriminatorie in danno delle pensioni erogate da un’unica gestione, rispetto a quelle erogate da gestioni diverse, per le quali la prima parte del denunciato terzo comma prevede differenti e più favorevoli criteri di individuazione della pensione da integrare al trattamento minimo.

Il criterio applicabile nell’ipotesi, che ricorre nel giudizio a quo, di concorso di più pensioni a carico della stessa gestione (che impone l’integrazione della pensione di riversibilità ove solo essa - e non anche la pensione diretta - risulti costituita per effetto di un numero di contributi settimanali superiori a 780), che può apparire svantaggioso, sotto il profilo del trattamento pensionistico complessivamente spettante, specialmente qualora la pensione diretta risulti basata su di una contribuzione modesta, potrebbe, ad avviso del giudice a quo, essere ritenuto razionale in considerazione delle finalità di contenimento della spesa pubblica che sono all’origine del decreto-legge n. 463 del 1983. Senonchè, la violazione dell’art. 3 della Costituzione non verrebbe meno, in quanto il criterio previsto in caso di concorso di pensioni erogate da gestioni diverse non sembra sottintendere una analoga ratio di contenimento della spesa previdenziale.

Un ulteriore profilo d’incostituzionalità viene individuato dal Tribunale rimettente nel contrasto della disciplina impugnata con l’art. 29 della Costituzione. Nell’argomentare tale ulteriore profilo, il giudice a quo muove dalla sentenza della Corte costituzionale n. 495 del 1993, che ha dichiarato illegittimo l’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, nella parte in cui non prevede che la pensione di riversibilità sia calcolata proporzionalmente alla pensione diretta integrata al trattamento minimo già liquidata, o comunque spettante, al dante causa del pensionato.      

Il rimettente osserva che la considerazione posta a fondamento della menzionata decisione costituzionale, peraltro già precedentemente espressa nella sentenza n. 926 del 1988, é che la pensione di reversibilità attua, per il coniuge superstite, una specie di proiezione oltre la morte della funzione di sostentamento assolta in vita dal reddito del de cuius, perseguendo lo scopo di porre il superstite al riparo dalla eventualità dello stato di bisogno che potrebbe derivargli dalla morte del coniuge. La dubbia compatibilità della disciplina denunciata con l’art. 29 della Costituzione discenderebbe dalla circostanza che il trasferimento della integrazione al trattamento minimo dalla pensione diretta a quella di reversibilità, che già incorpora la quota di trattamento minimo spettante al de cuius (per il coniuge pari al sessanta per cento), potrebbe comportare una "compressione del trattamento complessivo, rispetto alla situazione in vita del de cuius, attraverso un intervento sulla pensione diretta, che viene riportata a calcolo, lesivo della funzione della pensione di riversibilità".

7. - Nel giudizio davanti a questa Corte si é costituita la parte appellante nel procedimento a quo per chiedere l’accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Firenze e per svolgere deduzioni volte ad evidenziare l’irrazionalità nonchè l’iniquità della disciplina denunciata, specie in sèguito alle modifiche legislative successivamente intervenute, che hanno eliminato i benefici previsti per i titolari di pensioni costituite per effetto di un numero di contributi settimanali non inferiori a 781. La violazione dell’art. 3 della Costituzione si profilerebbe, ad avviso della parte privata costituita, sia perchè il legislatore avrebbe adottato criteri diversi in base ad un elemento, la liquidazione della pensione a carico della stessa gestione o di gestioni diverse, cui non fa riscontro alcuna differenza di carattere sostanziale; sia perchè l’erogazione automatica dell’integrazione al minimo sulla pensione liquidata con più di 780 contributi determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti di soggetti che si trovano in identica posizione: i pensionati titolari di pensione diretta e di pensione ai superstiti a carico della stessa gestione. Sulla base di un dato del tutto casuale, quale il numero dei contributi accreditato sulla pensione diretta, la norma potrebbe portare, in certi casi, ad accordare al pensionato titolare di pensione di riversibilità liquidata con meno di 780 contributi un trattamento migliore rispetto a quello che gli sarebbe spettato qualora sulla posizione assicurativa del dante causa fossero stati versati più di 780 contributi settimanali, "favorendo in definitiva, contro ogni logica equitativa, coloro che hanno contribuito in misura minore".

8. - Nel giudizio di legittimità costituzionale si é costituito anche l’INPS, chiedendo il rigetto della questione sollevata dal Tribunale di Firenze.

Secondo la parte appellata nel procedimento civile a quo, non é univoca nella giurisprudenza di merito l’interpretazione da cui muove il giudice rimettente, in base alla quale i criteri previsti espressamente dalla disposizione impugnata per l’ipotesi di concorso di pensioni erogate dalla stessa gestione non si applicherebbero in caso di concorso di pensioni a carico di gestioni diverse. In secondo luogo, l’INPS contesta la lamentata disparità di trattamento tra titolari di pensioni a carico della stessa gestione e di gestioni diverse, osservando che il criterio sussidiario di scelta della pensione da integrare applicabile a questi ultimi (pensione avente decorrenza più remota) non é sempre il più favorevole, "in quanto non é affatto certo che la pensione più remota sia quella di importo più basso". Nell’atto di costituzione l’INPS rileva poi che, per i lavoratori dipendenti, la circostanza che la pensione sia costituita sulla base di un numero di contributi settimanali superiore a 780 ed abbia diritto all’integrazione al minimo assume rilievo, ai fini dell’attribuzione di determinati benefici, anche successivamente all’abrogazione della maggiorazione prevista dall’art. 14-quater del decreto-legge n. 663 del 1979, convertito nella legge n. 33 del 1980. Al riguardo l’Istituto rileva che le pensioni riliquidate per effetto dell’art. 1 del d.P.C.m. 16 dicembre 1989, come quelle riliquidate ex art. 4 della legge n. 140 del 1985, sono divenute in linea di massima superiori al minimo, per cui, in presenza di altra pensione inferiore al minimo, quest’ultima avrebbe titolo all’integrazione (sempre che i redditi del titolare risultino inferiori ai limiti previsti). Quanto alla lamentata lesione della funzione della pensione di riversibilità, l’INPS osserva che i criteri individuati dal legislatore nascono da una sua precisa scelta, con la quale non si é ritenuto di garantire il trattamento complessivo più favorevole, ma si é di volta in volta stabilito, indipendentemente dall’importo complessivo, quale pensione dovesse essere integrata.

9. - Tramite l’Avvocatura dello Stato, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo, come già in relazione alla questione sollevata dal Pretore di Lecce, la declaratoria di manifesta infondatezza della questione. Nell’atto di intervento si osserva come la circostanza che il legislatore abbia stabilito criteri diversi nella determinazione dell’integrazione al trattamento minimo, nel caso di concorso di pensioni appartenenti a diverse o ad un’unica gestione, non comporti automaticamente situazioni più o meno favorevoli a causa dell’operatività di un sistema piuttosto che di un altro. In particolare, la scelta del criterio della pensione avente decorrenza più remota, secondo l’Avvocatura, avrebbe origine nella necessità di rendere più semplice l’individuazione della pensione sulla quale applicare l’integrazione. Quanto alla lamentata contrazione del trattamento complessivo, nell’atto di intervento si rileva che l’eventuale riduzione della pensione diretta é naturale conseguenza del principio che l’integrazione al trattamento minimo può essere concessa su una sola pensione, spettando al legislatore la scelta del criterio da adottare per la relativa liquidazione, tenendo sempre presente l’esigenza di contenimento della spesa pubblica.

Considerato in diritto

1. - Con due distinte ordinanze, il Pretore di Lecce ed il Tribunale di Firenze prospettano dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui disciplina i criteri di scelta della pensione da integrare al trattamento minimo, nell’ipotesi di titolarità di più pensioni, inferiori al minimo, erogate dalla stessa gestione INPS.

Il Pretore di Lecce dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, nella parte in cui, derogando senza apparente giustificazione al criterio, ritenuto prioritario, che privilegia la pensione diretta, prevede l’integrazione al minimo della pensione ai superstiti costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781, qualora la pensione diretta risulti basata su di una provvista contributiva più esigua, provocando in tal modo - ad avviso del rimettente - disparità nel trattamento pensionistico complessivo dei soggetti iscritti alla stessa gestione INPS.

Il Tribunale di Firenze dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, nella parte in cui prevede il criterio sussidiario dell’integrazione della pensione costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781 - oltre che sotto il profilo già prospettato dal Pretore di Lecce - in quanto suscettibile di produrre disparità di trattamento tra titolari di pensioni a carico della stessa gestione INPS e titolari di pensioni erogate da gestioni diverse, ai quali il primo periodo dell’impugnato comma 3 riserverebbe più favorevoli criteri di individuazione della pensione da integrare.

Il Tribunale di Firenze dubita inoltre, in riferimento all’art. 29 della Costituzione, della legittimità costituzionale della medesima disposizione, giacchè i criteri da essa previsti in caso di plurititolarità di pensioni a carico della stessa gestione comporterebbero talora una compressione del trattamento pensionistico complessivo, lesiva della funzione della pensione di riversibilità.

2. - Le due ordinanze prospettano questioni in parte analoghe ed in parte oggettivamente connesse. I relativi giudizi possono pertanto essere riuniti e definiti con un’unica pronuncia.

3. - La questione sollevata dal Pretore di Lecce non é fondata.

Al pretore rimettente, l’ultima parte del comma impugnato appare in contrasto con il principio di eguaglianza, giacchè darebbe origine a disparità nel trattamento pensionistico complessivo dei soggetti contestualmente titolari di pensione diretta ed ai superstiti erogate dalla stessa gestione ed inferiori al minimo nell’importo a calcolo. In particolare, risulterebbe penalizzato, tra i plurititolari aventi diritto a una pensione diretta molto modesta nell’importo a calcolo, il superstite titolare di una pensione di riversibilità costituita per effetto di una contribuzione maggiore, mentre risulterebbe favorito il coniuge superstite destinatario di un trattamento di riversibilità costituito per effetto di un numero di settimane di contribuzione inferiore a 781, che ottiene l’integrazione della pensione diretta, in aggiunta al sessanta per cento della pensione del dante causa, già integrata.

Il criterio censurato si inserisce in un articolato sistema preordinato all’individuazione della pensione da integrare, delineato dall’impugnato terzo comma ed organizzato intorno al principio in base al quale, fermi restando i limiti di reddito previsti dai precedenti commi dell’art. 6 del decreto-legge n. 463 del 1983, l’integrazione spetta una sola volta. Si tratta di un congegno normativo complesso, frutto di uno sforzo di razionalizzazione della disciplina dell’integrazione al minimo delle pensioni, che questa Corte ha già ritenuto nel suo insieme rispondente ai princìpi costituzionali come precisati dalla precedente giurisprudenza costituzionale (v. sentenze nn. 418 del 1991 e 184 del 1988).

La scelta di liquidare l’integrazione sulla pensione costituita per effetto di almeno 781 contribuzioni settimanali, qualora l’altra pensione risulti sorretta da una base contributiva più modesta, non costituisce una deroga ingiustificata al criterio che impone di privilegiare la pensione diretta, indicato per primo nella parte del denunciato terzo comma che riguarda il caso di plurititolarità di pensioni erogate dalla medesima gestione INPS, nè può ritenersi in sè irragionevole, a causa dell’asserito venir meno della sua ratio originaria.

A parte l’opinabilità della scelta interpretativa volta a riconoscere carattere di regola generale al criterio che privilegia la pensione diretta, non v’é ragione, al fine di scrutinare la legittimità costituzionale della disposizione censurata, di entrare nel merito della questione concernente la persistenza o meno della sua ratio originaria, rispetto alla quale il rimettente e l’INPS, solidale su questo punto con l’Avvocatura dello Stato, prospettano opinioni opposte.

Non occorre, ai presenti fini, accertare se all’origine dell’introduzione del criterio denunciato come (divenuto ormai) irrazionale ed ingiustificato vi sia esclusivamente il proposito del legislatore previdenziale di garantire l’erogazione del beneficio accordato dall’art. 14-quater del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980, n. 33, che prevedeva una maggiorazione mensile in favore delle pensioni integrate al minimo costituite per effetto di un numero di contribuzioni settimanali non inferiore a 781 (il cosiddetto superminimo per i "settecentoottantunisti"), successivamente assorbita dall’art. 4 della legge 15 aprile 1985, n. 140 e dall’art. 1 del d.P.C.m. 16 dicembre 1989, nè occorre valutare se la riliquidazione più favorevole prevista dalle stesse disposizioni citate da ultimo per le pensioni assistite dal medesimo requisito contributivo sostituisca adeguatamente il beneficio della maggiorazione mensile originariamente concessa, dimostrando, come ritengono l’INPS e l’Avvocatura, la persistente razionalità del criterio censurato.

La circostanza che una disposizione legislativa smarrisca la sua ratio originaria non comporta necessariamente, di per sè, l’illegittimità costituzionale sopravvenuta della disposizione stessa.

In sè considerato, il criterio di scelta in questione non limita alcuna posizione soggettiva garantita dall’ordinamento a livello costituzionale o, eventualmente, legislativo. In particolare, nessun principio costituzionale - nè, del resto, la disciplina previdenziale nel suo complesso - accordano tutela alla pretesa dell’assicurato al trattamento pensionistico complessivo più favorevole. I princìpi costituzionali, al contrario, su questo punto correttamente attuati dalla normativa censurata, non predeterminano la scelta, rimessa alla discrezionalità del legislatore, dei criteri per la ragionevole individuazione della pensione da integrare, bensì, piuttosto, impongono al legislatore previdenziale l’integrazione di (almeno) una pensione, attraverso un’erogazione ulteriore rispetto al trattamento dovuto in base ai contributi versati, al quale si aggiunge per assicurare al lavoratore in quiescenza il reddito minimo considerato necessario per far fronte alle esigenze di vita del titolare della pensione (v., da ultimo, sentenza n. 127 del 1997).

Una disparità nel trattamento pensionistico complessivo, svantaggiosa per i titolari di pensione diretta costituita per effetto di un numero di contribuzioni settimanali inferiore a 781 e di pensione di riversibilità invece assistita da tale requisito contributivo, può riscontrarsi specialmente qualora particolarmente esiguo sia l’importo a calcolo della pensione diretta, ed in forma tanto più accentuata quanto più irrisorio risulti tale importo. In questi casi, il plurititolare riceverebbe un trattamento complessivo più favorevole ove fosse la pensione diretta la prestazione da integrare, come previsto in favore del titolare di pensione diretta e di pensione di riversibilità entrambe basate su di una contribuzione inferiore (o superiore) a quella prescritta. Si tratta, peraltro, di una disparità di mero fatto, derivante da circostanze contingenti ed accidentali, riferibili non già alla norma impugnata considerata nel suo contenuto precettivo - preordinato all’individuazione della pensione da integrare - ma semplicemente alla sua applicazione concreta, dato il concorso di talune premesse di ordine fattuale occasionalmente ricorrenti; di tal genere di disparità, questa Corte ha in più occasioni escluso la rilevanza ai fini della verifica della legittimità costituzionale delle discipline denunciate per contrasto con l’art. 3 della Costituzione (v., da ultimo, sentenza n. 417 del 1996, e ordinanza n. 92 del 1997).

Il criterio censurato dal rimettente, applicato in presenza di pensioni dirette molto modeste nell’importo a calcolo, risulta svantaggioso dal punto di vista - privo, come si é chiarito, di rilievo costituzionale - del trattamento complessivo, soprattutto a partire dalla sentenza n. 495 del 1993, con la quale questa Corte ha inteso garantire che la percentuale del sessanta per cento liquidata al coniuge superstite fosse calcolata sulla pensione del dante causa nell’importo comprensivo dell’integrazione al minimo a quest’ultimo spettante.

Con la citata pronuncia, questa Corte ha inteso salvaguardare la funzione che i princìpi costituzionali assegnano alla pensione di riversibilità, assicurando che il suo importo non scenda al di sotto di una soglia minima. La circostanza che, in sèguito a tale decisione costituzionale, si riscontri in qualche caso una duplicazione di garanzie in favore dell’assicurato - importo minimo garantito della pensione di riversibilità ed eventuale integrazione al trattamento minimo della stessa, in applicazione del criterio censurato dal rimettente, con assorbimento della prima garanzia nella seconda - non comporta un obbligo del legislatore di modificare la disciplina dell’integrazione al minimo per garantire, o eventualmente consentire su richiesta dell’interessato, come ipotizza il giudice a quo, la combinazione più vantaggiosa dei due istituti di sicurezza sociale, tra loro indipendenti e preordinati a fini eterogenei: da un lato, salvaguardare comunque la funzione della pensione di riversibilità, anche, eventualmente, in favore del coniuge superstite che non abbia diritto all’integrazione al minimo; dall’altro, assicurare al lavoratore in quiescenza un reddito minimo.

E’ pertanto priva di rilievo, ai fini della valutazione della legittimità costituzionale della disposizione impugnata, la circostanza che (non già a causa, ma) successivamente alla ricordata decisione costituzionale, l’integrazione, anzichè della pensione diretta, della pensione di riversibilità, comunque assistita dalla garanzia introdotta dalla sentenza n. 495 del 1993, risulti talora svantaggiosa ed anzi penalizzante, a fronte del trattamento più favorevole riservato al coniuge superstite titolare di una pensione di riversibilità basata su di una minore contribuzione (in favore del quale opera, da un lato, il criterio che privilegia la pensione diretta ai fini della liquidazione dell’integrazione al minimo, dall’altro, il principio affermato dalla menzionata sentenza della Corte costituzionale).

Il sistema dei criteri di individuazione della pensione da integrare al trattamento minimo, certo suscettibile di correzioni e perfezionamenti, é frutto di valutazioni discrezionali del legislatore che, nonostante talune asimmetrie riscontrabili nel momento applicativo, non possono ritenersi palesemente irrazionali.

4. - La questione sollevata dal Tribunale di Firenze non é fondata.

Sotto un primo profilo, il collegio rimettente dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 - oltre che sotto il profilo già prospettato dal Pretore di Lecce - nella parte in cui prevede il criterio sussidiario dell’integrazione della pensione costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781, apparentemente diretto al contenimento della spesa pubblica, in quanto diverso e meno favorevole, sotto il profilo del trattamento complessivo, rispetto ai criteri previsti in caso di plurititolarità di pensioni erogate da gestioni diverse, ai quali pare estranea la preoccupazione di contenere la spesa previdenziale. Quest’ultima ipotesi é contemplata dal primo periodo del denunciato terzo comma, che prevede l’integrazione della pensione a carico della gestione che eroga il trattamento minimo di importo più elevato o, a parità di importo, della pensione avente decorrenza più remota.

Il giudice a quo sottolinea come il criterio della pensione più remota sia in realtà l’unico applicabile nel caso di concorso di pensioni liquidate da gestioni diverse, in sèguito all’entrata in vigore dell’art. 7 della legge 15 aprile 1985, n. 140, che prevede la parificazione dei trattamenti minimi erogati da gestioni diverse. Ad avviso del collegio rimettente, ciò comporterebbe l’applicazione, in via generale e non più sussidiaria, del criterio della pensione più remota, che opererebbe sempre in senso più favorevole all’assicurato rispetto a quello, che fa riferimento al requisito dei 781 contributi settimanali, previsto dall’ultima parte del terzo comma.

La lamentata disparità di trattamento non sussiste. Per un verso, é condivisibile il rilievo, avanzato dall’INPS e dall’Avvocatura, che la pensione più remota non é necessariamente la più esigua nell’importo a calcolo, e non comporta pertanto la maggior quota di integrazione da liquidare. Per un altro verso, ai fini del controllo di costituzionalità alla stregua del principio di eguaglianza, a parte quanto già sottolineato al punto precedente in ordine all’insussistenza di una garanzia costituzionale del trattamento complessivo più favorevole, non é consentito comparare due regimi dell’integrazione al minimo come quelli posti a raffronto. Si tratta infatti di discipline eterogenee, originariamente delineate, dal legislatore che ha operato la riforma del 1983, in funzione di esigenze differenti, riguardanti l’integrazione in caso di plurititolarità, rispettivamente, di pensioni erogate dalla stessa gestione e di pensioni a carico di gestioni diverse: ipotesi, quest’ultima, che ha consigliato al legislatore previdenziale di privilegiare criteri di individuazione della pensione da integrare di più agevole applicazione.

  5. - Anche sotto il secondo profilo, la questione sollevata dal Tribunale di Firenze é priva di fondamento.

Il Tribunale di Firenze dubita, in riferimento all’art. 29 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, nella parte in cui prevede il trasferimento dell’integrazione al trattamento minimo dalla pensione diretta, costituita per effetto di un numero di contribuzioni settimanali inferiore a 781, alla pensione di riversibilità che soddisfi il predetto requisito contributivo (la quale, in sèguito alla sentenza n. 495 del 1993, non può essere inferiore, per il coniuge superstite, al sessanta per cento del trattamento minimo spettante al dante causa), in quanto comporterebbe una compressione del trattamento pensionistico complessivo attraverso un intervento sulla pensione diretta, che viene riportata a calcolo, lesivo della funzione della pensione di riversibilità.

In quanto diretto a individuare la pensione sulla quale va liquidata l’integrazione al minimo, il meccanismo legislativo censurato non può ripercuotersi negativamente sulla pensione di riversibilità in sè considerata, nè comprometterne la funzione, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, consiste nell’attuare, per il coniuge superstite, una specie di proiezione oltre la morte della funzione di sostentamento assolta in vita dal de cuius, perseguendo lo scopo di porre il superstite al riparo dalla eventualità dello stato di bisogno che potrebbe derivargli dalla scomparsa del coniuge (sentenze nn. 495 del 1993 e 926 del 1988).

Il meccanismo legislativo censurato può, date certe premesse di ordine fattuale e contingente, risultare meno favorevole dal punto di vista del trattamento pensionistico complessivo. Senonchè, tale circostanza non interferisce negativamente con il regime della pensione di riversibilità, mentre l’eventualità che un diverso criterio di scelta della pensione da integrare possa in taluni casi comportare la liquidazione, da parte della stessa gestione o di gestioni diverse, di un trattamento complessivo più favorevole, di per sè - come sopra ampiamente si é detto - non rileva ai fini della valutazione della legittimità costituzionale della disposizione impugnata.

D’altro canto, non solo non può interferire con il regime della pensione ai superstiti il criterio di scelta dell’unica pensione integrabile in caso di plurititolarità, ma la stessa disciplina dell’integrazione al minimo della pensione di riversibilità va tenuta distinta dalla disciplina di quest’ultima prestazione, che richiede, ai fini della quantificazione della pensione spettante al superstite, di tener conto dell’integrazione della pensione diretta del dante causa. Le due discipline si collocano su piani diversi, come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, affermando la legittimità del cumulo tra la cosiddetta "percentualizzazione" dell’integrazione al minimo della pensione diretta spettante al de cuius e l’autonomo diritto all’integrazione al minimo della pensione di riversibilità: i due piani non si incontrano, poichè si tratta in realtà di distinti momenti e di diverse pensioni cui hanno diritto i rispettivi titolari (sentenza n. 495 del 1993).

                                                                                      PER QUESTI MOTIVI                  

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Lecce con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Fernanda CONTRI

Depositata in cancelleria il 18 febbraio 1998.