Ordinanza n. 462/97

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ORDINANZA N.462

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI           

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI              

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 11 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio 1997 dal Pretore di Padova, nel procedimento penale a carico di Campiglio Pierluigi, iscritta al n. 267 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 dicembre 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto che il Pretore di Padova, nel corso di un procedimento penale a carico di un avvocato iscritto all'albo dell'Ordine degli avvocati e procuratori di Padova, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11 del codice di procedura penale, nella parte in cui la norma "non si applica agli iscritti all'albo di uno degli ordini degli avvocati e dei procuratori del distretto cui appartiene l'ufficio giudiziario competente per il giudizio";

che ad avviso del rimettente le ragioni che giustificano la deroga alle ordinarie regole della competenza per territorio nei procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato - riconducibili all'esigenza di "assicurare oggettivamente un giudizio il più possibile scevro da inevitabili condizionamenti ambientali", nonché di "valorizzare pubblicamente il requisito della terzietà del giudice rispetto ai soggetti comunque coinvolti nelle cause che deve decidere" - sussisterebbero anche nei confronti degli esercenti la professione forense;

che "la condanna a vivere insieme che accomuna magistrati e legali" comporterebbe, secondo il rimettente, le medesime conseguenze negative, sotto il profilo dei "rapporti professionali interpersonali" e della "immagine pubblica dell'amministrazione della giustizia", che la disciplina dell'art. 11 cod. proc. pen. mira ad evitare nei confronti dei magistrati, e giustificherebbe quindi l'estensione della deroga dettata per i magistrati agli iscritti all'albo degli avvocati e procuratori;

che l'obbligo di astensione e la facoltà di ricusazione non sarebbero pertinenti, in quanto istituti attinenti a situazioni diverse e non idonei a fronteggiare le esigenze per le quali è prevista la disciplina di cui all'art. 11 cod. proc. pen.;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, in quanto le situazioni che il rimettente erroneamente ritiene analoghe sono in realtà diverse, non sussistendo tra magistrati e avvocati quella "condivisione di esperienze e di vita professionale" che caratterizza i rapporti tra gli appartenenti all'ordine giudiziario.

Considerato che le ragioni della deroga alle regole ordinarie di competenza predisposta dall'art. 11 cod. proc. pen. vanno ravvisate nella necessità di assicurare la serenità e obiettività dei giudizi, nonché l'imparzialità e la terzietà del giudice (v. sentenze n. 109 del 1993 e n. 390 del 1991), anche con riferimento all'esigenza di eliminare presso l'opinione pubblica qualsiasi sospetto di parzialità determinato dal rapporto di colleganza e dalla normale frequentazione tra magistrati operanti in uffici giudiziari appartenenti al medesimo distretto di corte di appello;

che tali ragioni non possono ritenersi sussistenti in relazione a procedimenti riguardanti iscritti agli ordini degli avvocati del distretto cui appartiene l'ufficio giudiziario competente per il giudizio, per la diversa natura dei rapporti fra magistrati e soggetti che esercitano la professione legale;

che, infatti, l'abituale frequentazione fra magistrati ed avvocati (non dissimile, del resto, da quella che si determina fra magistrati e personale di cancelleria, ovvero altro operatore della giustizia) non riveste i caratteri propri del rapporto di colleganza fra appartenenti all'ordine giudiziario, rapporto ragionevolmente individuato dal legislatore come situazione tipica potenzialmente idonea a ledere il principio di imparzialità del giudice, anche sotto il profilo della sua immagine di terzietà e di neutralità presso l'opinione pubblica;

che, inoltre, l'art. 4, regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), abilita gli iscritti all'albo ad esercitare la professione <<davanti a tutte le Corti d'Appello, i Tribunali e le Preture della Repubblica>>, senza alcun limite territoriale (limite che, invece, era stabilito nei confronti dei procuratori legali prima della entrata in vigore della legge 24 febbraio 1997, n. 27), e non pone quindi alcun ostacolo all'esercizio, anche abituale, delle funzioni difensive fuori delle circoscrizioni territoriali, di natura meramente amministrativa, cui fanno capo i vari albi degli avvocati;

che anche sotto questo profilo non vi è dunque alcuna analogia fra le situazioni poste a raffronto, poiché l'iscrizione all'albo degli avvocati non implica l'esercizio di funzioni professionali nell'ambito di un determinato distretto giudiziario, diversamente da quanto postula l'art. 11 cod. proc. pen. per i magistrati, la cui attività è necessariamente riferibile a uffici ben individuati, organizzati secondo regole di competenza territoriale;

che, d'altro canto, ove i rapporti tra il giudice e l'avvocato parte del processo siano tali da pregiudicare in concreto l'imparzialità del giudizio, soccorrono gli istituti della astensione e ricusazione del giudice (v. sentenza n. 390 del 1991 e, più in generale, sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997);

che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 11 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Padova, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Relatore: Guido NEPPI MODONA

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.