Sentenza n. 383/97

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.383

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 29, 30, 31 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 16 maggio 1996 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Mariani Carletti Giuseppe, iscritta al n. 1181 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 1996.

Udito nella camera di consiglio del 2 luglio 1997 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1.1. — Nel corso di un procedimento penale per truffa militare pluriaggravata e continuata, il Tribunale militare di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, nonchè degli artt. 30 e 31, in relazione soltanto all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui prevedono per i sottufficiali e i graduati di truppa un trattamento diverso da quello assicurato agli ufficiali, con riguardo alla privazione temporanea del grado.

Secondo il giudice a quo, la pena della rimozione - che consegue automaticamente alla condanna per il reato di truffa militare (artt. 29 e 234, terzo comma, citati) - dovrebbe essere irrogata nei confronti di qualsiasi militare e invece, con lesione del principio di eguaglianza, é statuita, ai sensi dell’art. 29, per i militari che rivestano un grado o appartengano a una classe superiore all’ultima. Non vale obiettare che la rimozione concerne i militari graduati, perchè solo costoro violano i doveri sanciti dall’ordinamento: la pena, prosegue il Collegio, si applica infatti al militare, il quale riveste un grado al momento della condanna, e non rileva che la qualifica sia presente, o manchi, al momento della commissione del reato.

Il Tribunale invoca anche il principio di "umanità della pena" (art. 27, terzo comma, della Costituzione) per contestare l’applicazione automatica di una sanzione, come la rimozione, che viene in essere anche in seguito a reati non particolarmente gravi, mentre il grado maturato dovrebbe sempre essere salvaguardato, fatta eccezione per i casi che danno luogo all’applicazione delle pene accessorie della degradazione (artt. 28 e 33 del codice penale militare di pace) o dell’interdizione dai pubblici uffici (artt. 28 e 29 del codice penale). In proposito si richiama la giurisprudenza costituzionale sull’illegittimità della destituzione di diritto e la legge 7 febbraio 1990, n. 19, che vi ha dato attuazione, senza peraltro incidere sul sistema delle pene accessorie, ma determinando qualche incertezza interpretativa.

1.2. — Il rimettente solleva altresì, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 del codice penale militare di pace, denunciando la disparità fra sottufficiali e graduati di truppa, privati temporaneamente del grado durante l’espiazione della pena principale, e gli ufficiali, che - sebbene sospesi dall’impiego - mantengono nell’ambiente carcerario le attribuzioni del grado. Il rispetto della persona umana - conclude l’ordinanza - non consente che il condannato sia privato del grado, pur in via provvisoria, quando dalla sentenza di condanna non discenda la perdita definitiva di esso.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale militare di Padova dubita della legittimità costituzionale degli articoli 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, perchè l’applicazione automatica della rimozione, anche a seguito di reati non particolarmente gravi, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione; secondo il giudice a quo, il grado dovrebbe essere salvaguardato, fatta eccezione per i casi che impongono la degradazione (artt. 28 e 33 del codice penale militare di pace) o l’interdizione dai pubblici uffici.

Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 29, citato, consisterebbe nel fatto che la rimozione é prevista, in violazione del principio di eguaglianza, esclusivamente per coloro che rivestono un grado o appartengono a una classe superiore all’ultima, e non per qualsiasi militare.

Il Tribunale solleva altresì, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 di detto codice, denunciando la disparità che sussiste fra sottufficiali e graduati di truppa, privati temporaneamente del grado durante l’espiazione della pena principale, e gli ufficiali, che - sebbene sospesi dall’impiego - mantengono nell’ambiente carcerario le attribuzioni del grado.

2. — E’ infondata la questione di legittimità costituzionale che concerne gli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, con riguardo all’automatica applicazione della rimozione. Non é corretto il richiamo alla giurisprudenza sulla "destituzione di diritto", avendo questa Corte già messo in luce la distinzione fra tale tematica e quella delle pene accessorie (sentenza n. 363 del 1996; ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, sentenza n. 197 del 1993, di cui v. in particolare il n. 4 del Considerato in diritto). Mentre nella sede disciplinare é possibile commisurare la sanzione all’entità del fatto, nell’applicazione delle pene accessorie non é dato analogo apprezzamento; ad esse é estranea, dunque, la statuizione contenuta nell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, senza che da ciò scaturisca alcuna incertezza interpretativa cui invece accenna l’ordinanza.

Contestando l’automatismo vigente, il Collegio rimettente vorrebbe ponderare le circostanze del fatto e la personalità dell’agente non soltanto per determinare la pena principale, ma per decidere sull’applicazione di quella accessoria; non si interroga, però, sui rischi di irragionevolezza che la differenziazione comporterebbe, una volta riconosciuta una discrezionalità giudiziaria sull’an senza indicazioni di criteri. In altri passaggi, l’ordinanza sollecita una pronuncia che modifichi il sistema attuale, ma un intervento di tipo additivo invaderebbe l’ambito riservato alle autonome scelte del legislatore, al quale spetta riesaminare la disciplina delle pene accessorie, soprattutto a carattere interdittivo, nell’ambito della complessiva, e auspicabile, revisione del codice penale militare di pace (sentenza n. 490 del 1989). In quella sede si potrà valutare se introdurre pene accessorie temporanee e se rivedere il lamentato automatismo, senza creare comunque disparità. Già oggi, d’altronde, la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie (art. 4 della citata legge n. 19 del 1990), il che mitiga in parte il sistema.

Il giudice a quo sottolinea che la rimozione viene in essere anche a seguito di reati non particolarmente gravi; ma affronta tale profilo circa l’applicazione automatica della pena accessoria, e non in relazione all’asserita sproporzione rispetto al reato per il quale é inflitta la condanna, con specifico riguardo al reato di truffa militare (art. 234 del codice penale militare di pace, ov’é prevista la pena fino a cinque anni).

3. — Il Tribunale militare di Padova si duole, poi, del diverso regime tra ufficiali e sottufficiali, con riguardo all’applicazione della pena accessoria della rimozione, ai sensi dell’art. 29 del codice penale militare di pace, e alla sospensione dall’impiego e dal grado di cui agli artt. 30 e 31. Entrambe le censure sono manifestamente inammissibili.

3.1. — Il Collegio rimettente ravvisa un distinto motivo di illegittimità costituzionale dell’art. 29, perchè la rimozione é stabilita esclusivamente per i militari che rivestono un grado, e non per tutti. Ma in questo modo si contesta la conformazione dell’istituto, come risulta dalla valutazione discrezionale del legislatore, che questa Corte non può sindacare nel merito, fatti salvi eventuali profili di irragionevolezza, peraltro non dedotti. Onde, la manifesta inammissibilità della questione.

3.2. — Ulteriore doglianza é indirizzata all’art. 31 del codice in esame, perchè soltanto gli ufficiali, quantunque sospesi dall’impiego, mantengono nell’ambiente carcerario le attribuzioni del grado (l’ordinanza menziona pure l’art. 30, ma esso concerne la sospensione dall’impiego, ed é dunque evocato impropriamente).

Anche tale questione é inammissibile, per difetto di rilevanza, dal momento che la condanna per truffa militare implica, quale pena militare accessoria, non la mera sospensione dal grado, bensì la rimozione (art. 234, ultimo comma, del codice citato); e in proposito mette conto ricordare che, ai sensi dell’art. 4 della legge 10 aprile 1954, n. 113 (Stato degli ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica), il grado é indipendente dall’impiego: sì che solo per gli ufficiali é possibile disporre la sospensione dall’impiego e non dal grado.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, nella parte in cui prevedono l’automatica applicazione della pena accessoria della rimozione, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova con l’ordinanza in epigrafe;

b) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei citati artt. 29 e 234, terzo comma, nella parte in cui prevedono la rimozione soltanto per i militari che rivestono un grado o appartengono a una classe superiore all’ultima, e degli artt. 30 e 31 del codice penale militare di pace, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova con la stessa ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 novembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Francesco GUIZZI

Depositata in cancelleria il 11 dicembre 1997.