Ordinanza n. 356/97

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ORDINANZA N.356

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO               

- Avv.    Massimo VARI                     

- Dott.   Cesare RUPERTO                

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY              

- Prof.    Valerio ONIDA                    

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE                     

- Avv.    Fernanda CONTRI               

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

ha pronunciato la seguente                  

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 28, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come novellato dall’art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), promosso con ordinanza emessa il 23 aprile-15 maggio 1996 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso proposto dal Comune di Milano contro la DIRCOM — Federazione nazionale dirigenti Enti locali — iscritta al n. 1101 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1996.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto che con ordinanza emessa il 23 aprile-15 maggio 1996, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, nel giudizio di opposizione proposto dal Comune di Milano avverso il decreto per comportamento antisindacale plurioffensivo adottato su ricorso della Federazione nazionale dirigenti enti locali, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come novellato dall’art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146;

che secondo il collegio rimettente la disposizione censurata prevedendo l’articolazione del giudizio sul comportamento antisindacale imputabile alla pubblica amministrazione in due fasi di cui é competente a conoscere lo stesso giudice — la prima a cognizione sommaria, concludentesi con l’eventuale adozione del decreto a carattere inibitorio, la seconda a rito ordinario, introdotta con l’opposizione avverso il decreto, che viene definita con sentenza — si porrebbe in contrasto con i principi contenuti nella sentenza n. 432 del 1995, contenente dichiarazione di illegittimità costituzionale all’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato;

che il giudice rimettente ritiene che l’ultimo comma dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 presenta la stessa astratta possibilità che la capacità di giudizio del giudice rimanga assoggettata alla c.d. forza della prevenzione, e cioé a "quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento", ravvisandosi la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione;

che nel presente giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato per chiedere che la questione venga dichiarata infondata, sottolineando la non omologabilità del giudizio amministrativo a quello penale.

Considerato che l’ordinanza di rimessione della questione si basa su una lettura ed una interpretazione errata della norma denunciata, la quale non può avere il significato lesivo attribuitole dal giudice a quo, ed essendo inoltre diverse le disposizioni da applicare per risolvere il profilo della imparzialità del collegio giudicante;

che infatti l’art. 28, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come novellato dall’art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146, ha il solo significato, nella indicazione del "Tribunale amministrativo regionale" e della "opposizione davanti allo stesso tribunale", di attribuire la giurisdizione al Tribunale amministrativo regionale competente per territorio; ciò allo scopo di determinare un spostamento della competenza giurisdizionale — da quella ordinariamente prevista per la repressione della condotta antisindacale, attribuita al pretore — al giudice amministrativo di primo grado, se il comportamento antisindacale comporti una contemporanea lesione "di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego" e quando le organizzazioni sindacali "intendano ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi di tali situazioni";

che, in altri termini, in tutti i casi in cui il comportamento antisindacale di amministrazione statale o di altro ente pubblico non economico incida anche su posizioni individuali di singoli dipendenti (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) e vi sia richiesta di annullamento di provvedimenti lesivi, essendo queste posizioni azionabili avanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, si é voluta mantenere una unitarietà di tutela nella sede naturale propria del dipendente pubblico. In definitiva si é inteso concentrare (per attrazione) nel giudice amministrativo la cognizione sul comportamento antisindacale con la possibilità della "rimozione dei provvedimenti" anche nei confronti dello stesso dipendente;

che in questo contesto la norma denunciata può avere il solo significato di indicazione dell’organo giurisdizionale competente, e non quello ulteriore di vincolo nella composizione del Tribunale amministrativo regionale, restando questa disciplinata dalle normali regole proprie del giudizio amministrativo, ivi comprese quelle relative ai poteri presidenziali di assegnazione dei ricorsi alle singole udienze e ai relatori, con conseguenziale determinazione del collegio, ovvero riguardanti la insopprimibile esigenza di imparzialità del giudice e risolvibili nel processo amministrativo — per la sua peculiarità — attraverso gli istituti della astensione e della ricusazione, come del resto avverte lo stesso giudice rimettente;

che il contenuto della norma denunciata, non avendo alcun effetto di vincolare la composizione del collegio giudicante in sede di opposizione avverso il decreto a seguito di cognizione sommaria, non preclude una eventuale astensione o ricusazione, i cui istituti nel sistema proprio del processo amministrativo, devono risolvere in modo esaustivo il dovere di imparzialità che esprime un valore costituzionale.

che d’altro canto non sono applicabili al giudizio amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività (tipizzata) svolta nello stesso procedimento penale — cui il giudice remittente fa ripetuto riferimento attraverso il richiamo all’art. 34 cod. proc. pen. (per cui v., da ultimo, sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997)— bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile cui le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio (v., per le peculiarità dei sistemi processuali, sentenza n. 326 del 1997);

che di conseguenza la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come novellato dall’art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Riccardo CHIEPPA

Depositata in cancelleria il 21 novembre 1997.