Sentenza n. 346/97

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SENTENZA N.346

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI           

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI              

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con n. 2 ordinanze emesse il 26 agosto 1996 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Frosinone, nei procedimenti penali a carico di Giudici Franco e di Sassu Daniele, iscritte al n. 1291 del registro ordinanze 1996 e n. 52 del registro ordinanze 1997 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 1996 e n. 9, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. — Con due ordinanze di identico tenore, entrambe pronunciate il 26 agosto 1996 (r.o. nn. 1291 del 1996 e 52 del 1997), il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Frosinone ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, codice di procedura penale <<nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice per le indagini preliminari presso la pretura, che abbia rigettato la richiesta di archiviazione con restituzione degli atti al Pubblico Ministero per formulare l’imputazione, a valutare la richiesta di emissione di decreto penale di condanna successivamente formulata dal Pubblico Ministero nei confronti dell’imputato>>, assumendone il contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in riferimento alle direttive nn. 67 e 103 dell’art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81.

Premette in fatto il rimettente che, come <<unico giudice tabellarmente designato, quale giudice per le indagini preliminari, alla trattazione, tra l’altro, delle richieste di archiviazione per procedimenti a carico di indagati noti, e di quelle relative all’emissione del decreto penale di condanna>>, aveva in precedenza respinto due richieste di archiviazione presentate dal pubblico ministero nell’ambito di due diversi procedimenti, disponendo con ordinanza la formulazione dell’imputazione, e che il pubblico ministero aveva successivamente presentato richiesta di emissione di decreto penale di condanna in relazione agli stessi fatti indicati nelle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 554, comma 2, cod. proc. pen.

Rilevato in via preliminare che tale richiesta deve considerarsi legittima in quanto consentita, quale modalità di esercizio dell’azione penale alternativa al dibattimento, dal disposto dell’art. 554, comma 2, cod. proc. pen. - non ostandovi che per effetto del rigetto della richiesta di archiviazione la stessa sia stata formulata oltre i termini delle indagini - nelle due ordinanze si afferma che la rilevanza della questione <<é resa evidente dalla potenziale applicabilità della norma>> impugnata, con la conseguente necessità, nel caso venissero ritenute fondate le censure di illegittimità prospettate, di astensione ai sensi dell’art. 36, comma 1, lett. g, cod. proc. pen.

2. — Nel merito il rimettente osserva che fra i princìpi del " giusto processo" , cui si ispira il nuovo codice di rito, <<un ruolo cruciale>> assume l’imparzialità del giudice, alla cui stregua, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 155 del 1996, la funzione giudicante deve essere svolta da un soggetto <<terzo>>, non condizionato, cioè, da convinzioni precostituite per effetto di <<funzioni decisorie>> esercitate in precedenti fasi del giudizio, essendo a tal scopo preordinate le incompatibilità endoprocessuali. Con riferimento specifico al caso in esame, il giudice a quo rileva che la Corte costituzionale é già intervenuta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio abbreviato (sentenza n. 496 del 1990) e al giudizio dibattimentale (sentenza n. 502 del 1991) il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura che abbia ordinato al pubblico ministero di formulare l’imputazione, ritenendo tale situazione idonea a configurare un atto <<pregiudiziale>> rispetto al <<successivo giudizio di merito>>.

Ciò considerato, il giudice a quo ritiene che rispetto al procedimento per decreto ricorrono le medesime ragioni di incompatibilità. Anche il procedimento per decreto rientra, ad avviso del rimettente, nel concetto di " giudizio" , da intendersi riferito - secondo l’interpretazione datane dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 401 del 1991 - non solo al giudizio dibattimentale, ma ad ogni <<processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito>>. Nel caso in esame verrebbe così a determinarsi una situazione di pregiudizio identica a quella censurata dalla Corte costituzionale nelle precedenti occasioni; pregiudizio tanto più evidente nei casi in cui, come nella specie, il rigetto della richiesta di archiviazione sia basato sulla non concordanza del giudice in ordine alla asserita irrilevanza penale del fatto.

A sostegno della natura di <<giudizio sul merito dell’imputazione>> del procedimento per decreto, il rimettente richiama, in primo luogo, la possibilità per il giudice, investito di una richiesta di emissione del decreto penale, di pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. e, in secondo luogo, l’efficacia di cosa giudicata attribuita al decreto penale in caso di mancata opposizione del condannato. A giudizio del rimettente, tali elementi inducono a ritenere che il giudice eserciti un controllo sul merito della richiesta (così come affermato nella sentenza n. 502 del 1991) e qualificano il decreto penale come un <<provvedimento decisorio, adottato dal giudice terzo, all’esito di un giudizio di merito - sia pure allo stato degli atti delle indagini preliminari, ed inaudita altera parte - e potenzialmente idoneo a definire il processo penale>>. Tale natura non sarebbe contraddetta dalla possibilità di opposizione e dal conseguente giudizio di merito, rappresentando l’una e l’altro <<mere eventualità, rimesse all’esclusiva decisione dell’imputato>>.

Per i motivi indicati il rimettente ritiene, dunque, che la mancata previsione fra le cause di incompatibilità della situazione in cui il giudice per le indagini preliminari venga investito della richiesta di emissione del decreto penale dopo aver già proceduto alla delibazione della richiesta di archiviazione e ordinato la formulazione dell’imputazione é tale da incidere, in senso negativo, sui princìpi della terzietà del giudice e della distinzione tra funzioni requirenti e giudicanti, affermati nelle direttive nn. 67 e 103 dell’art. 2 della legge n. 81 del 1987, con conseguente violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione.

Considerato in Diritto

1. — Le due ordinanze del giudice rimettente sono di identico contenuto; deve pertanto disporsi la riunione dei relativi giudizi per essere decisi con un’unica pronuncia. La questione sottoposta all’esame della Corte ha per oggetto l’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice per le indagini preliminari presso la pretura, che abbia in precedenza respinto la richiesta di archiviazione e disposto con ordinanza la formulazione dell’imputazione, a valutare la richiesta di emissione del decreto penale di condanna formulata dal pubblico ministero nei confronti del medesimo imputato.

Ad avviso del giudice rimettente, la disciplina denunciata violerebbe gli articoli 76 e 77 della Costituzione, con riferimento alle direttive numero 67 e numero 103 dell’art. 2, comma 1, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, in quanto in contrasto con il principio dell’imparzialità del giudice, compromesso dalla valutazione in ordine alla configurabilità del reato e alla sua riconducibilità all’indagato, già espressa nel momento in cui é stata respinta la richiesta di archiviazione, nonchè con il principio della separazione tra funzioni requirenti e giudicanti, previsto dalla legge-delega anche per il procedimento avanti al pretore, perchè il giudizio é demandato allo stesso soggetto processuale che vi ha dato impulso mediante l’ordinanza con cui ha disposto la formulazione dell’imputazione a norma dell’art. 554, comma 2, cod. proc. pen.

Al riguardo, é opportuno precisare che, pur non essendo contenuti nelle ordinanze di rimessione espliciti richiami ai parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 24 della Costituzione, i princìpi affermati in tali norme costituiscono il perno e il filo conduttore delle argomentazioni del giudice rimettente, la cui motivazione deve pertanto intendersi riferita ai parametri sopra indicati.

2. — Al di là del caso prospettato dal rimettente con specifico riferimento al giudice per le indagini preliminari presso la pretura, la questione in realtà riguarda in via generale la funzione del giudice, sia nel procedimento avanti al pretore, sia in quello avanti al tribunale, investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna.

La questione é fondata.

3. — Questa Corte ha già ripetutamente affermato (sentenze n. 496 del 1990, n. 401 del 1991 e n. 502 del 1991) che l’ordinanza con cui il giudice dispone di formulare l’imputazione ha effetti pregiudicanti nei confronti della funzione di giudizio; in particolare, la Corte ha rilevato che, <<respingendo la richiesta di archiviazione ed ordinando, conseguentemente, di formulare l’imputazione, il giudice per le indagini preliminari compie una valutazione non formale, ma di contenuto, dei risultati delle indagini preliminari e della sussistenza delle condizioni necessarie per assoggettare l’imputato al giudizio di merito>> (sentenza n. 496 del 1990) e che, pertanto, <<non può essere lo stesso giudice che ha già compiuto una così incisiva valutazione di merito ad adottare la decisione conclusiva in ordine alla responsabilità dell’imputato>> (sentenza n. 502 del 1991).

Pacifica essendo la funzione pregiudicante del primo dei due termini della relazione suscettibile di determinare una situazione di incompatibilità, l’elemento di novità della questione oggetto del presente giudizio é rappresentato dal secondo termine della relazione di incompatibilità, nel caso di specie la pronuncia sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna.

Al riguardo, la Corte ha chiarito, nella già menzionata sentenza n. 401 del 1991, che il significato dell’espressione " giudizio" rilevante ai fini delle situazioni di incompatibilità deve considerarsi comprensivo di <<qualsiasi tipo di giudizio, cioé ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito>>. Questo orientamento ha trovato conferma in successive pronunce (cfr., tra le altre, sentenza n. 131 del 1996), sino alla sentenza n. 155 del 1996, nella quale la locuzione " giudizio" é stata estesa sino a comprendere il procedimento che sfocia nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

4. — Ciò premesso in via generale circa il secondo termine della relazione di incompatibilità, non vi é dubbio che il procedimento per decreto penale di condanna integra gli estremi di un vero e proprio giudizio di merito, in quanto presuppone l’accertamento giudiziale del fatto storico e della responsabilità dell’imputato.

Tali caratteri sono presenti anche nell’attività decisoria con cui il giudice valuta la richiesta motivata di decreto penale formulata dal pubblico ministero; valutazione che, sia in caso di accoglimento che di rigetto della richiesta, si sostanzia in un esame di merito sulla responsabilità penale dell’imputato. Che il controllo del giudice attenga non solo ai presupposti del rito, ma anche al merito della richiesta (v., in tale senso, sentenza n. 502 del 1991), si ricava in primo luogo dall’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., da cui emerge che la valutazione del giudice può sfociare nell’emissione di una sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. Inoltre, la valutazione di merito é estesa alla congruità della misura della pena indicata dal pubblico ministero, in quanto, alla stregua degli articoli 459, comma 3, e 460, comma 2, cod. proc. pen., il giudice, ove non ritenga di applicare la pena nella misura indicata dal pubblico ministero, deve rigettare la richiesta e restituirgli gli atti (v. sentenza n. 447 del 1990). Infine, il giudice deve egualmente restituire gli atti ove ritenga che, per qualsiasi altra ragione, la richiesta del pubblico ministero non possa essere accolta, ad esempio, per erronea qualificazione giuridica del fatto o per insufficienza degli elementi probatori.

Si deve pertanto concludere che anche la pronuncia del giudice sulla richiesta di decreto penale di condanna integra gli estremi di una valutazione di merito sulla sussistenza del fatto e sulla responsabilità dell’imputato e, in quanto tale, é pregiudicata, con violazione dei princìpi del giusto processo e dell’imparzialità del giudice, dalla precedente ordinanza con cui il giudice ha respinto la richiesta di archiviazione e disposto che il pubblico ministero formuli l’imputazione.

L’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. va dunque dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede che non possa pronunciarsi sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna il giudice per le indagini preliminari che abbia emesso l’ordinanza di cui agli articoli 409, comma 5, e 554, comma 2, cod. proc. pen.

Rimane così assorbita qualsiasi altra censura.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa pronunciarsi sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna il giudice per le indagini preliminari che abbia emesso l’ordinanza di cui agli articoli 409, comma 5, e 554, comma 2, cod. proc. pen.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Guido NEPPI MODONA

Depositata in cancelleria il 21 novembre 1997.