Sentenza n. 306/97

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SENTENZA N. 306

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 5 giugno 1996 dal Tribunale di Palermo nel procedimento di prevenzione nei confronti di Lupo Cesare Carmelo, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali, a norma della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), il Tribunale di Palermo ha sollevato, con ordinanza del 5 giugno 1996, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

2. — Il Tribunale rileva che la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale riguarda un soggetto indiziato di appartenere a un’associazione di tipo mafioso, ex art. 1 della citata legge n. 575 del 1965, e che detta norma individua il "livello probatorio" che deve sorreggere la misura richiesta al collegio, indicandolo nella sussistenza di "semplici" indizi della suddetta appartenenza.

Osserva quindi il rimettente che lo stesso collegio, in identica composizione, ha in precedenza adottato una pronuncia sulla richiesta di riesame di ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere, misura disposta in autonomo e parallelo procedimento penale, nei confronti della stessa persona, in relazione al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis cod. pen.); in tale sede, il Tribunale ha espresso le proprie valutazioni, oltre che sulle esigenze cautelari, sulla sussistenza di "gravi" indizi di colpevolezza in ordine all’anzidetto reato, confermando il provvedimento impugnato.

3. — Ora, rileva il giudice a quo, il pubblico ministero ha allegato, a sostegno della propria proposta per l’applicazione della misura di prevenzione personale, copia dell’ordinanza di custodia cautelare, che raccoglie tutti gli elementi sui quali essa si fonda, e sulla quale il Tribunale si è già pronunciato, in distinto processo, nel senso anzidetto.

4. — Analogamente a quanto riconosciuto nelle sentenze nn. 432 del 1995 e 131 del 1996 della Corte costituzionale, che hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., anche nell’ipotesi in esame si delinea il pericolo che la valutazione conclusiva - qui sulla pericolosità del proposto - sia o possa apparire condizionata dalla "forza di prevenzione, ... naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali", e ciò pur se le valutazioni rispettivamente compiute e da compiere attengano a processi formalmente e sostanzialmente indipendenti e autonomi.

Non manifestamente infondata, quindi, appare la questione di costituzionalità dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., sollevata dalla difesa del proposto, in quanto non stabilisce l’incompatibilità alla funzione di giudice competente in ordine alle misure di prevenzione personali per il componente del collegio che si sia pronunciato in sede di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. in distinto processo penale, quando gli elementi allegati a sostegno della proposta siano gli stessi già apprezzati nell’ambito dell’impugnazione de libertate.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Palermo, nel corso di un procedimento per l'applicazione di una misura di prevenzione personale prevista dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio per l'applicazione di una misura di prevenzione personale il giudice che, nell'ambito di un procedimento penale, come componente il Tribunale del riesame, si sia pronunciato sull'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, quando i presupposti sui quali si fonda la richiesta della misura di prevenzione siano gli stessi che sono stati oggetto di valutazione nella sede del riesame .

2. — La questione è inammissibile.

2.1. — Nell'ambito del principio del giusto processo di cui questa Corte, in numerose occasioni, ha definito i profili sulla base delle disposizioni costituzionali che attengono alla disciplina della giurisdizione, posto centrale occupa l'imparzialità-neutralità del giudice, in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato. Tale principio in tutti i suoi aspetti, tra cui per l'appunto l'imparzialità del giudice, indubitabilmente vale anche in relazione al procedimento giurisdizionale di applicazione delle misure di prevenzione personali che incidono su diritti di libertà costituzionalmente garantiti per mezzo di una "riserva di giurisdizione". In questi casi, la garanzia rappresentata da tale riserva non può essere menomata attraverso l'affievolimento dei caratteri che la giurisdizione qualificano come tale.

Date queste premesse, l'esigenza di preservare il giudice chiamato a pronunciarsi sulla proposta di applicazione delle misure di prevenzione da ogni pre-giudizio che possa comprometterne l'imparzialità si pone nella stessa misura in cui essa è stata affermata in relazione al giudice che è chiamato a pronunciarsi nel processo penale.

Nel caso di specie, un imputato del reato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.) si trova sottoposto altresì a un procedimento, parallelo e autonomo (a norma dell’art. 23-bis della legge 13 settembre 1982, n. 646), per l'applicazione di una misura di prevenzione prevista dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, come indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Secondo la prospettazione contenuta nell'ordinanza di rimessione, il Tribunale, quale giudice della prevenzione, è chiamato a decidere l'applicazione della misura in base ai medesimi elementi di fatto che il Tribunale stesso, nella medesima composizione personale, quale giudice del riesame in sede cautelare nel processo penale, ha già considerato sufficienti per ritenere la sussistenza, a carico del medesimo soggetto, dei gravi indizi di colpevolezza che, insieme alle esigenze specifiche previste dall'art. 274 cod. proc. pen., giustificano l'adozione di misure cautelari, a norma dell'art. 273, comma 1, cod. proc. pen.

E' facile, in tal caso, la conclusione che la valutazione sull'esistenza dei gravi indizi di colpevolezza assorbe, come il più contiene il meno, quella sulla pericolosità, basata su meri indizi e che pertanto il Tribunale si trova a giudicare su una materia in ordine alla quale esso si è già pronunciato.

2.2. — Le considerazioni che precedono e l'esigenza di garantire l'imparzialità del giudice nel caso prospettato, tuttavia, non possono condurre alla richiesta declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui esso non prevede la prospettata situazione come ulteriore causa d'incompatibilità al giudizio.

Nel sistema del codice di procedura penale, norme operanti nel senso di escludere la possibilità di duplicazione di valutazioni della medesima res iudicanda, a opera del medesimo giudice, quale persona fisica, sono dettate nell'ambito sia della disciplina della incompatibilità del giudice (art. 34), da un lato, sia della disciplina dell'astensione e della ricusazione (artt. 36 e 37), dall'altro.

Tra i due ambiti, tuttavia, esiste una differenza categoriale. Come risulta dai casi previsti dall'art. 34, nonché dalla stessa rubrica di tale articolo (Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento), la ratio dell'istituto dell'incompatibilità è di preservare l'autonomia e la distinzione della funzione giudicante, in evidente relazione all'esigenza di garanzia dell'imparzialità di quest'ultima, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo processo: autonomia, distinzione e, conseguentemente, imparzialità che risulterebbero compromesse qualora tali attività potessero essere riunite nell'azione dello stesso soggetto chiamato alla funzione giudicante (sentenza n. 155 del 1996).

La ratio della disciplina dell'incompatibilità è dunque primariamente quella obiettiva del rispetto della logica del processo penale, delle sue scansioni e delle differenze di ruoli che in esso i diversi soggetti sono chiamati a svolgere: il giudizio non si deve confondere, attraverso una sorta di unione personale, con altre attività che attengono al processo e che hanno una loro diversa ragion d'essere e il cui compimento potrebbe costituire pre-giudizio rispetto al giudizio medesimo. Alla stregua della ratio anzidetta, si comprende come le incompatibilità previste dall'art. 34 cod. proc. pen. siano tutte determinate dal fatto solo di aver svolto determinate attività nel corso del medesimo procedimento penale, indipendentemente dal contenuto che tali attività possono aver assunto (sentenza n. 308 del 1997).

In breve: sono tutte incompatibilità interne all'articolazione del processo penale e sono tutte previste in modo da operare in astratto, non in concreto, e le cause che le determinano sono normalmente tali da poter essere evitate preventivamente attraverso idonei atti di organizzazione dello svolgimento del processo, come la formazione dei collegi giudicanti e l'assegnazione delle cause, trasformandosi in motivi di astensione o ricusazione (art. 36, comma 1, lettera g), cod. proc. pen.) solo quando tali atti non siano stati posti in essere (sentenza n. 307 del 1997).

Le cause di astensione e di ricusazione di cui agli articoli 36 e 37 cod. proc. pen. che attengono ad attività del giudice - escluse quelle, già ricordate, indicate nella lettera g) del comma 1 dell'art. 36, la quale richiama le situazioni di incompatibilità del giudice, al fine di farne motivo di astensione e poi, per il richiamo contenuto nella lettera a) del comma 1 dell'art. 37, di ricusazione - si collocano invece su un piano diverso. Esse sono dirette immediatamente alla garanzia dell'imparzialità del giudice e prescindono da qualunque riferimento alla struttura del processo e all'esigenza del rispetto della logica intrinseca ai suoi diversi momenti di svolgimento. Ciò che conta è l'esistenza di comportamenti del giudice che, siano essi tenuti entro o fuori il processo stesso, per il loro concreto contenuto sono tali da poter fare ritenere la sussistenza di un pregiudizio in capo al giudice, rispetto alla causa da decidere [v. le lettere c) e h) del comma 1 dell'art. 36 e la lettera b) del comma 1 dell'art. 37 cod. proc. pen.].

In breve: le cause di astensione e di ricusazione non hanno strutturalmente a che vedere con l'articolazione del processo e sono previste in modo da operare non in astratto ma in concreto. Data tale loro natura, l'ordinamento prevede, come mezzo normale per farle valere e ottenere la sostituzione del giudice, l'iniziativa dello stesso giudice che è tenuto a chiedere di astenersi (art. 36 cod. proc. pen.) ovvero quella della parte interessata che dichiara la ricusazione (art. 38 cod. proc. pen.).

2.3. — Da quanto precede deve trarsi, come regola di giudizio, che, qualora un motivo di pregiudizio all'imparzialità del giudice derivi da sue attività compiute al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere - siano esse attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro giudizio - si verte nell'ambito di applicazione non dell'istituto dell'incompatibilità ma di quello dell'astensione e della ricusazione.

A tale regola si è conformata la giurisprudenza di questa Corte che, in numerose occasioni, ha operato un'estensione dei casi di incompatibilità a una serie di ipotesi attinenti a previe attività tipiche compiute dal giudice nel medesimo giudizio penale.

Un'apparente eccezione alla regola secondo la quale l'incompatibilità opera esclusivamente entro i confini del medesimo processo penale è rappresentata dalla sentenza n. 371 del 1996. Tale pronuncia è giustificata dalla particolarità della fattispecie in quell'occasione esaminata, essendosi trattato dell'effetto pregiudicante - che la Corte inquadrò nell'ambito delle cause d'incompatibilità del giudice - da riconoscersi alle valutazioni in ordine alla sussistenza di responsabilità penale di un soggetto sottoposto a giudizio separato, valutazioni espresse dal giudice in una sentenza resa relativamente a soggetti imputati per lo stesso fatto storico ascritto al primo e commesso in concorso.

In tale specifica situazione facilmente può ritenersi che alla pluralità formale di procedimenti penali corrisponda tuttavia l'unicità sostanziale della vicenda portata a giudizio. Ond'è che la segnalata sentenza n. 371 del 1996 può ritenersi un’eccezione - rispetto alla costante giurisprudenza di questa Corte circa l'ambito di operatività dell'istituto dell’incompatibilità del giudice nel processo penale - soltanto, per l'appunto, formalmente ma non sostanzialmente (sentenze nn. 307 e 308 del 1997).

2.4. — L'anzidetto criterio di classificazione delle situazioni pregiudicanti nell'ambito dell'incompatibilità o dell'astensione e della ricusazione comporta l'impossibilità di seguire il giudice rimettente nella sua richiesta di una pronuncia di incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. tale da estendere l'incompatibilità alla situazione di pre-giudizio verificatasi nella specie. Manca l'identità del procedimento, né sarebbe invocabile la ratio particolare che sta alla base della sentenza n. 371 del 1996, essendo pacifiche - tanto nella giurisprudenza di legittimità quanto in quella costituzionale: da ultimo sentenze n. 193 del 1997 e n. 48 del 1994 e ordinanza n. 275 del 1996 - le essenziali differenze, quanto a presupposti e finalità, che separano il processo penale (e in esso i procedimenti cautelari) dal processo di prevenzione, pur se quest'ultimo si trovi ad essere modellato sulle forme del primo. Ond'è che, nella specie, deve ritenersi che le valutazioni pregiudicanti e quelle pregiudicate sono ascrivibili a distinte vicende processuali.

Tale conclusione è poi rafforzata dalla considerazione, che è propria dello stesso giudice rimettente, secondo la quale il fattore pregiudicante della sede di prevenzione, nella specie, non dipenderebbe dalla precedente attività di giudizio come tale, svolta nella sede dell’incidente cautelare nel processo penale. Dipenderebbe invece dalla circostanza specifica e concreta dell'identità dei presupposti di fatto sui quali il Tribunale, nell'una e nell'altra veste, si è trovato e si trova ora a dover decidere. Il che conferma che non si è in presenza di un'incompatibilità di funzioni in astratto, riportabile alla logica dell'art. 34 cod. proc. pen.

3. — La questione deve pertanto essere dichiarata inammissibile. Con l'ovvia, conseguenziale avvertenza tuttavia che, qualora una situazione carente dal punto di vista dell'imparzialità non potesse trovare soluzione alla stregua degli articoli 36 e 37 cod. proc. pen., quali attualmente vigenti, potrebbe aprirsi la via per un'ulteriore, ma diversamente impostata, questione di legittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 settembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Relatore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 1° novembre 1997.