Sentenza n. 295

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SENTENZA N. 295

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale), convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144, promosso con ordinanza emessa il 1° dicembre 1995 dal Tribunale di Reggio Calabria nel procedimento civile vertente tra il Comune di Reggio Calabria e Labate Lorenzo, iscritta al n. 903 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza 1° dicembre 1995 (r.o. n. 903 del 1996) il Tribunale di Reggio Calabria, prima sezione civile, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal Comune di quel capoluogo nei confronti di Lorenzo Labate, titolare dell'omonima impresa, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale), convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144.

Il giudice a quo - premesso che, con decreto del 27 novembre 1991, il Presidente del Tribunale ha ingiunto al comune di pagare, in favore di Lorenzo Labate, la somma di lire 10.260.700 quale corrispettivo per i lavori di rifacimento di un tratto fognario - osserva che il comune stesso, in sede di opposizione, ha eccepito che la procedura di somma urgenza seguita dai funzionari per l'ordinazione dei lavori non é stata regolarizzata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 23, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, e che, pertanto, nessuna responsabilità per il mancato pagamento é configurabile in capo all'amministrazione comunale, essendo il rapporto obbligatorio intercorso, a norma del comma 4 del citato art. 23, con i funzionari che hanno ordinato i lavori.

In proposito il Tribunale ricorda che, come recentemente affermato da questa Corte con la sentenza n. 446 del 1995, l'esecutore delle opere, disponendo di un'azione diretta nei confronti del funzionario o dell'amministratore del comune, non avrebbe alcuna possibilità di agire nei confronti dell'ente, neppure a norma dell'art. 2041 del codice civile, se non in via surrogatoria.

Ad avviso del giudice rimettente appare incongruo ed irragionevole, e soprattutto contro la ratio e il dettato dell'art. 28 della Costituzione, che i terzi possano agire direttamente nei confronti di una pubblica amministrazione, per il ristoro del danno subìto, ad opera dei dipendenti della medesima che abbiano agito con colpa o dolo ed in violazione dei doveri di ufficio, mentre - secondo quanto prescrive il denunciato art. 23 - sarebbero carenti di azione nei confronti dell'amministrazione stessa, nel caso in cui questa si sia indebitamente arricchita (con correlativa diminuzione patrimoniale di chi ha eseguito le prestazioni) in conseguenza di "comportamenti non illegittimi" dei suoi dipendenti.

Nel caso di specie, non sussistendo un valido rapporto obbligatorio nei confronti dell'ente - a causa della mancata tempestiva regolarizzazione, da parte dell'amministrazione, dei lavori autorizzati dai suoi dipendenti per ragioni di massima urgenza al fine di riparare un grave danno - e non essendo esperibile contro l'amministrazione pubblica neanche l'actio de in rem verso ai sensi dell'art. 2041 del codice civile, la disposizione denunciata si pone, ad avviso del rimettente, in contrasto con il predetto art. 28 della Costituzione ed appare meritevole di essere rimessa nuovamente sotto questo diverso profilo al giudizio della Corte costituzionale.

2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, a causa dell'incongruo apprezzamento della sua rilevanza, o comunque infondata.

Sotto il primo aspetto, premesso che, nei contratti stipulati in via di somma urgenza, la mancata regolarizzazione nel termine perentorio di trenta giorni dell'operato del dipendente e/o amministratore, da parte dell'ente pubblico di appartenenza, comporta una sostituzione del funzionario ordinatore dei lavori alla pubblica amministrazione nel rapporto contrattuale, la difesa erariale osserva che possono verificarsi diverse evenienze: l'inerzia dell'ordinatore dei lavori nell'attivare l'iter amministrativo-contabile per la regolarizzazione della procedura; od ancora l'attivazione dell'iter, che, però, non si concluda nei termini previsti, per ritardi verificatisi nel corso delle successive fasi del procedimento; oppure, infine, un espresso od un tacito diniego di regolarizzazione all'esito della procedura correttamente attivata da parte dell'amministrazione locale.

Ad avviso dell'Avvocatura la disposizione non pare ugualmente applicabile in tutti i casi esemplificati o, rectius, applicabile con eguali conseguenze dal punto di vista della responsabilità dell'ente, sicchè si tratta di verificare a quale atto o comportamento sia da ricollegare causalmente, fra le varie diverse evenienze sopra indicate, la mancata tempestiva regolarizzazione dell'affidamento dei lavori.

Il giudice a quo fornirebbe, invece, un'indicazione solo sommaria degli elementi di fatto della controversia. Comunque, se la causa del danno dovesse ricollegarsi al comportamento degli organi preposti a perfezionare la procedura iniziata in via di urgenza, il rimettente non avrebbe adeguatamente valutato i rimedi accordati al privato contro il torto sofferto (per fatto imputabile al comune), dovendosi ritenere che la censurata disposizione di legge non ha sottratto al privato (anche) la tutela aquiliana e non é, quindi, 'risolutiva' - o, almeno, non é da sola risolutiva - del conflitto d'interessi dedotto ad oggetto della causa principale.

Nel merito, poi, la questione sarebbe infondata in relazione ad entrambi i parametri invocati.

Intanto la norma non preclude di valutare, sotto profili diversi da quello propriamente riguardante la relazione negoziale, possibili momenti di emersione del rapporto di immedesimazione organica.

Fermo che la prospettata disparità di trattamento é stata già ritenuta insussistente da questa Corte nella richiamata sentenza n. 446 del 1995, non si determina, comunque, alcuna lesione di un diritto disponibile quando sussista il consenso del relativo titolare; ipotesi quest'ultima configurabile nel caso all'esame, in quanto il privato, il quale accetta di eseguire i lavori per l'ente locale, esprimerebbe un consenso (anche solo eventuale) ad assumere volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile).

Considerato in diritto

1.- La questione di legittimità costituzionale sottoposta all'esame di questa Corte concerne l'art. 23, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale), convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144, ritenuto in contrasto con gli artt. 3 e 28 della Costituzione, nella parte in cui prevede che, ove manchi la tempestiva regolarizzazione dell'ordinazione dei lavori disposti dai funzionari in via di urgenza, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione ed ad ogni effetto di legge, tra il privato fornitore e coloro che abbiano disposto la spesa.

2.- Il giudice rimettente reputa la disposizione incongrua ed irragionevole, e soprattutto contraria alla ratio ed al dettato dell'art. 28 della Costituzione, in quanto, mentre i terzi possono agire direttamente nei confronti di una pubblica amministrazione per il ristoro del danno subìto ad opera dei dipendenti della medesima, che abbiano agito con colpa o dolo ed in violazione dei doveri di ufficio, sono carenti di azione - secondo quanto prescrive il denunciato art. 23 - nei confronti della amministrazione stessa nel caso in cui questa si sia indebitamente arricchita (con correlativa diminuzione patrimoniale di chi ha eseguito le prestazioni), in conseguenza di "comportamenti non illegittimi" dei suoi dipendenti.

Ragioni di contrasto con il parametro dell'art. 28 vengono, perciò, ravvisate nella mancanza di un valido rapporto obbligatorio nei confronti dell'ente, in difetto della tempestiva regolarizzazione, da parte dell'ente stesso, dei lavori autorizzati dai suoi dipendenti per ragioni di massima urgenza e nella inesperibilità, per di più, in via diretta dell'actio de in rem verso contro l'amministrazione medesima, ai sensi dell'art. 2041 del codice civile.

3.- La questione non é fondata.

L'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 prevede, al comma 3, che, per province, comuni e comunità montane, "qualsiasi spesa é consentita esclusivamente se sussistono la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e dichiarata o divenuta esecutiva, nonchè l'impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati", precisando, altresí, che "per i lavori di somma urgenza l'ordinazione fatta a terzi deve essere regolarizzata entro trenta giorni e comunque entro la fine dell'esercizio, a pena di decadenza". A sua volta, il comma 4 dispone che, in caso "di violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura".

Le menzionate disposizioni danno luogo ad una disciplina, successivamente riconfermata senza modifiche di fondo dall'art. 35 del decreto legislativo n. 77 del 1995, che comporta l'imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore (o funzionario) degli effetti dell'attività di spesa che non si svolga nell'osservanza dei criteri contabili relativi alla gestione degli enti locali. E ciò con lo scopo non irragionevole di sollecitare, da un canto, un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali e di far sì, dall'altro, che la competenza ad esprimere la volontà degli enti locali resti effettivamente riservata, nel rispetto delle procedure prescritte, agli organi a ciò deputati, e cioé agli organi cui spetta di programmare la gestione finanziaria e di inquadrare le varie scelte amministrative nella prospettiva del piano di spesa contenuto nel bilancio di previsione, e non oltre i limiti da esso fissati.

All'evidente fine di assicurare un sufficiente grado di organicità alla modifica normativa introdotta, il legislatore nella disposizione menzionata individua, da una parte, gli elementi costitutivi necessari per la imputabilità della spesa all'amministrazione locale, e cioé la delibera autorizzativa e relativa copertura finanziaria quale presupposto ineliminabile della spesa, e, dall'altra, le conseguenze tipiche delle attività poste in essere senza l'osservanza delle prescritte procedure.

Si tratta di un assetto positivo coerente con le regole di contabilità relative alla gestione delle risorse finanziarie pubbliche, considerando che l'impegno contabile comporta il vincolo di destinazione della somma in bilancio, mentre la copertura finanziaria non solo richiede l'esistenza di adeguata capienza nel capitolo di bilancio, ma incide anche sull'equilibrio finanziario generale.

4.- Già con la precedente sentenza n. 446 del 1995 questa Corte ha escluso l'incostituzionalità della disposizione in esame, allora denunciata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sotto il duplice profilo del difetto di ragionevolezza e della disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui il soggetto può agire in via diretta nei confronti della pubblica amministrazione, anche ai sensi dell'art. 2041 del codice civile, nonchè sotto l'ulteriore profilo del diniego di tutela giurisdizionale. In tale occasione questa Corte ha rilevato che il tratto caratterizzante della disposizione stessa sta nel prevedere un rapporto contrattuale che sussiste esclusivamente tra il terzo contraente e il funzionario (o l'amministratore) che ha autorizzato l'effettuazione dei lavori. In sostanza gli atti di acquisizione di beni e servizi in esame solo apparentemente sono riconducibili all'ente locale, mentre, in effetti, si verifica una vera e propria scissione del rapporto di immedesimazione organica tra agente e pubblica amministrazione.

Ma proprio tale frattura del nesso organico con l'apparato pubblico, rendendo estraneo l'ente locale agli impegni di spesa irregolarmente assunti, impedisce di ricondurre il caso in esame agli schemi della responsabilità dell'amministrazione, non consentendo di invocare a sostegno della questione il parametro dell'art. 28 della Costituzione, che, nel contemplare la responsabilità dell'amministrazione accanto a quella degli agenti pubblici, presuppone, in via di principio, che si tratti di attività riferibile all'ente stesso.

D'altro canto, come già rilevato nella menzionata sentenza n. 446 del 1995, il terzo contraente, nell'accettare di eseguire lavori di somma urgenza, non può ignorare che, ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il funzionario (o l'amministratore) ed assume, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale), convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144, sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria, in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Massimo VARI

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1997.