Sentenza n. 259

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SENTENZA N.259

 

ANNO 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

- Avv.    Massimo VARI

- Dott.   Cesare RUPERTO

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Avv.    Fernanda CONTRI

- Prof.    Guido NEPPI MODONA

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge regionale dell'Emilia-Romagna 8 novembre 1988, n. 46 (Disposizioni integrative in materia di controllo delle trasformazioni edilizie ed urbanistiche), promosso con ordinanza emessa il 3 novembre 1995 dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sul ricorso proposto da Mezzetti Antonio contro il Comune di San Lazzaro di Savena, iscritta al n. 1178 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di costituzione di Mezzetti Antonio nonchè l'atto di intervento della Regione Emilia-Romagna;

udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 1997 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi l'avvocato Francesco Paolucci per Mezzetti Antonio e gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un giudizio promosso per l'annullamento di un'ordinanza del Sindaco di un Comune, che ingiungeva al ricorrente il ripristino dell'originario uso abitativo di un immobile di sua proprietà, adibito ad ufficio, senza realizzazione di opere, in assenza di concessione edilizia, il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, con ordinanza emessa il 3 novembre 1995, pervenuta a questa Corte il 19 settembre 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 117 della Costituzione, in relazione all'art. 25 della legge statale 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), dell'art. 2, comma 1, della legge regionale dell'Emilia-Romagna 8 novembre 1988, n. 46 (Disposizioni integrative in materia di controllo delle trasformazioni edilizie ed urbanistiche) nel testo anteriore alle modifiche ad esso apportate dall'art. 16, comma 2, della legge regionale 30 gennaio 1995, n. 6 (Norme in materia di programmazione e pianificazione territoriale, in attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142, e modifiche e integrazioni alla legislazione urbanistica ed edilizia) , "nella parte in cui impone ai Comuni l'individuazione, in sede di pianificazione urbanistica, dei mutamenti di destinazione d'uso da assoggettare a concessione nonchè l'obbligatorietà della concessione per taluni casi, anche se non connessi ad interventi edilizi, laddove la norma statale prevede come facoltativi gli interventi pianificatori dei Comuni, li consente con riferimento ad ambiti determinati e non con portata lla predisposizione di strumenti urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d'uso degli immobili nonchè dei casi in cui per la variazione di essa sia richiesta la preventiva autorizzazione del Sindaco"; e dispone che "la mancanza di tale autorizzazione comporta l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 10" relativo alle norme sanzionatorie per i casi di opere eseguite senza autorizzazione "ed il conguaglio del contributo di costruzione se dovuto".

La disposizione regionale impugnata prevede che "in sede di predisposizione degli strumenti urbanistici i Comuni sono tenuti ad individuare le destinazioni d'uso degli immobili i cui mutamenti, anche non connessi a trasformazioni fisiche, sono subordinati a concessione fermo restando che la concessione é dovuta qualora il mutamento comporti il passaggio dall'uno all'altro" dei cinque raggruppamenti di categorie di funzioni indicati dalla stessa norma. Tali ultimi mutamenti di destinazione sono compresi dall'art. 1, comma 1, lettera a, della stessa legge regionale non impugnato in questa sede tra le "variazioni essenziali rispetto alla concessione per gli effetti di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47"; a sua volta l'art. 6, comma 3, della legge, pure non impugnato, prevede che "ai fini sanzionatori di cui al capo I della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nel caso di mutamenti dell'uso non connessi a trasformazioni fisiche, la demolizione e ripristino deve intendersi esclusivamente come rimozione dell'uso abusivamente posto in essere e ripristino dell'uso precedente, ovvero dell'uso stabilito od ammesso".

2.- Il TAR remittente premette che la medesima questione era stata sollevata con ordinanza del 21 dicembre 1993 della stessa autorità (r.o. n. 458 del 1994), a seguito della quale questa Corte dispose, con l'ordinanza n. 182 del 1995, la restituzione degli atti al giudice a quo. Successivamente alla ordinanza di rimessione del 1993, erano infatti intervenuti, da un lato, la legge regionale dell'Emilia-Romagna 30 gennaio 1995, n. 6, che all'art. 16, comma 2, aveva sostituito l'impugnato art. 2 della legge regionale n. 46 del 1988, dall'altro lato il decreto legge 27 marzo 1995, n. 88, che, all'art. 8, comma 12, aveva sostituito l'ultimo comma dell'art. 25 della legge statale n. 47 del 1985, indicata come norma interposta ai fini del giudizio di costituzionalità: onde si ritenne necessaria una nuova valutazione della rilevanza da parte del giudice a quo alla luce dello jus superveniens.

Secondo il remittente, poichè il provvedimento impugnato venne emanato nel vigore del primitivo testo della legge regionale n. 46 del 1988, alla cui stregua va valutata la sua legittimità, e poichè nè la legge regionale n. 6 del 1995, modificativa della norma denunciata, nè le modifiche apportate alla legge statale n. 47 del 1985 dai decreti legge n. 88, n. 193, n. 310 e n. 400 del 1995, non convertiti in legge, operano retroattivamente, la questione a suo tempo sollevata deve ritenersi ancora rilevante.

Confermate le valutazioni di non manifesta infondatezza esposte nella precedente ordinanza (r.o. n. 458 del 1994), il giudice a quo ha disposto pertanto nuovamente la rimessione degli atti a questa Corte.

3.- Nel precedente atto introduttivo, che più ampiamente argomentava le censure di incostituzionalità sinteticamente riprese nell'ordinanza di rimessione in esame, si rilevava che, imponendo ai Comuni di individuare, in sede di pianificazione urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso da assoggettare a concessione anche se non connessi ad interventi edilizi comportanti trasformazioni fisiche dell'ambiente, si veniva a concretare una triplice violazione della norma statale di principio: in quanto quest'ultima prevedeva come facoltativi, e non obbligatori, gli interventi pianificatori del Comune in materia; in quanto li consentiva limitatamente ad ambiti determinati del territorio comunale, e non con portata generale; e, soprattutto, in quanto attribuiva al Comune la potestà di assoggettare le variazioni di destinazione d'uso, in casi determinati, ad autorizzazione e non già a concessione. Inoltre sarebbe stata in contrasto con la legge statale anche la previsione diretta di fattispecie per le quali si imponeva la necessità di concessione, così comportando sostituzione e superamento di qualsivoglia valutazione del Comune.

4.- Si é costituito il Presidente della Giunta regionale dell'Emilia-Romagna, chiedendo sia dichiarata la inammissibilità per irrilevanza e l'infondatezza della questione.

In una memoria successivamente depositata la difesa della Regione eccepisce in primo luogo la inammissibilità della questione sotto il profilo della rilevanza, in ordine alla quale il remittente avrebbe motivato in modo sbrigativo e lacunoso. Secondo l'interveniente, la nuova legge regionale n. 6 del 1995, che ha mutato la denominazione dell'atto permissivo del Comune in quella di "autorizzazione" e ha reso più esplicita la responsabilità del Comune nell'individuazione, in sede di pianificazione, delle zone soggette a vincolo specifico quanto ai mutamenti di destinazione d'uso, varrebbe come elemento interpretativo della legge impugnata.

In ogni caso, poichè il giudizio a quo verte sulla legittimità di un ordine di ripristino dell'uso originario dell'immobile, a suo tempo ineseguito, e suscettibile di operare solo prescrivendo un futuro comportamento, dopo l'abrogazione della disposizione di legge regionale che prevedeva tale comportamento dovrebbe ritenersi inoperante anche il provvedimento che in essa trovava il suo presupposto legale: onde la questione di costituzionalità dovrebbe ritenersi ormai irrilevante nel giudizio a quo.

In secondo luogo, il nuovo testo dell'art. 25 della legge n. 47 del 1985, ora sostituito stabilmente dall'art. 2, comma 60, ultima parte, della legge n. 662 del 1996, e che lascia al legislatore regionale la più ampia autonomia nella disciplina dei mutamenti delle destinazioni d'uso, sopprimendo i limiti precedentemente posti, non consentirebbe più di pervenire ad una dichiarazione di illegittimità della legge regionale per una presunta "precedente incostituzionalità". Il vincolo derivante dalla legge statale a carico di quella regionale non attiene infatti, secondo l'interveniente, ai diritti costituzionali dei cittadini, ma solo alla necessaria prevalenza dell'indirizzo politico statale rispetto a quello regionale, onde il mutamento del primo, nel senso "fatto in anticipo proprio" dalla legge regionale, avrebbe sanato definitivamente ogni presunto vizio della legge regionale medesima.

5.- In subordine l'interveniente ripropone gli argomenti già svolti in relazione alla precedente ordinanza di rimessione, che dimostrerebbero l'infondatezza della questione.

La "concessione" di cui era parola nella legge regionale abrogata non si identificherebbe con la concessione edilizia prevista dalla legislazione statale, ma indicherebbe semplicemente il provvedimento comunale permissivo richiesto, e in relazione alla cui mancanza il cambiamento di destinazione d'uso senza opere era sanzionato solo con l'ordine di rimozione dell'uso abusivo, al di fuori di qualsiasi sanzionabilità in sede penale, che sarebbe riservata ai casi di esecuzione di lavori. Sotto questo profilo dunque la legge regionale impugnata non sarebbe stata in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale.

Per quanto riguarda il carattere doveroso e non meramente facoltativo della disciplina comunale del mutamento di destinazione, postulato dalla legge impugnata, l'interveniente argomenta che la legge statale consentiva alla Regione di fissare i criteri in base ai quali tale disciplina dovesse ritenersi o meno necessaria.

In ordine poi all'estensione della disciplina imposta dalla legge regionale all'intero territorio del Comune, l'interveniente sostiene che essa non può dirsi arbitraria, in relazione alla situazione di una Regione dal territorio fittamente urbanizzato, e che comunque la legge regionale lasciava i Comuni totalmente liberi quanto alla sostanza della normativa.

L'interveniente sviluppa infine alcune considerazioni sulla insufficienza e l'incongruità della disciplina recata dal testo originario dell'art. 25 della legge statale n. 47 del 1985, che non distingueva fra mutamento della destinazione determinata dalla concessione il quale richiederebbe comunque un atto ricognitivo dell'amministrazione e uso di fatto difforme da quello ufficiale, che può essere a seconda dei casi lecito o illecito. Il nuovo uso lecito porrebbe da un lato un problema di ordine economico, apparendo incongruo che esso, se diviene stabile, non comporti il conguaglio, ove dovuto, dei contributi corrisposti in sede di rilascio della concessione; dall'altro lato, problemi di carattere conoscitivo, dovendosi consentire all'amministrazione di conoscere gli usi di fatto difformi da quelli ufficiali. Sul terreno sanzionatorio, mentre la legge statale si riferiva incongruamente alle sanzioni di cui all'art. 10 della stessa legge, concepite essenzialmente per l'esecuzione di opere, la legge regionale avrebbe invece legittimamente prescelto la sanzione della rimozione dell'uso difforme, che costituisce il solo modo di dare efficace tutela al bene protetto.

Anche per queste considerazioni, secondo l'interveniente, non si poteva ridurre il problema della disciplina amministrativa delle destinazioni d'uso ad una semplice "applicazione" del vecchio testo dell'art. 25 della legge statale n. 47 del 1985.

6.- Si é costituito il ricorrente nel giudizio principale, chiedendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge regionale n. 46 del 1988, "in relazione all'articolo 1 della stessa legge", per contrasto con l'art. 117 della Costituzione in relazione all'art. 25 della legge n. 47 del 1985.

Dopo aver ricordato le deduzioni svolte davanti al giudice a quo, la parte richiama le argomentazioni esposte nel precedente giudizio davanti alla Corte. In particolare rileva che il provvedimento impugnato davanti al TAR ha fatto applicazione della legge regionale n. 46 del 1988, onde solo rimuovendo la norma applicata si può giungere ad una pronunzia di annullamento del provvedimento medesimo; e che le ragioni che militano a sostegno della illegittimità costituzionale della legge regionale sono le stesse che condussero la Corte a dichiarare costituzionalmente illegittima la legge regionale del Veneto n. 61 del 1985, con la sentenza n. 73 del 1991.

La parte privata critica poi le tesi sostenute dalla Regione nell'atto di intervento avanti alla Corte nel giudizio concluso con l'ordinanza n. 182 del 1995 (e riprese dalla difesa della Regione medesima nella memoria sopra richiamata al punto 5). In particolare nega che la "concessione" di cui parla l'art. 2 della legge regionale n. 46 del 1988 (nel testo originario) sia qualcosa di diverso dalla concessione edilizia vera e propria, come confermerebbe del resto il collegamento fra detto art. 2 e l'art. 1 della stessa legge, che considera "variante essenziale" la modifica di destinazione d'uso senza trasformazioni fisiche, quando si realizzi un passaggio dall'uno all'altro dei raggruppamenti di categorie fissati dallo stesso art. 2, comma 1. Nè potrebbe deporre in senso contrario la previsione, nell'art. 6, comma 3, della legge regionale, della sola sanzione dell'ordine di ripristino dell'uso originario dell'immobile, trattandosi dell'unica sanzione ipotizzabile, in mancanza di opere edilizie. Poichè nel caso di specie si é ritenuto illegittimo il cambiamento di destinazione d'uso in assenza di concessione, e si é fatta applicazione dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, inteso a reprimere appunto gli abusi posti in essere in assenza di concessione, tanto basterebbe per giungere ad una declaratoria di illegittimità costituzionale della legge regionale.

Deduce la difesa della parte che, discostandosi da quanto previsto dall'art. 25 della legge statale n. 47 del 1985, il legislatore regionale, con la norma impugnata, ha dato prescrizioni dirette ed immediatamente operative in alcune ipotesi, sottoponendo ad autorizzazione o a concessione il cambio d'uso senza necessità del filtro dello strumento urbanistico. Si sarebbe fatto ricorso ad un meccanismo in forza del quale si determina un obbligo generale di ottenere una autorizzazione o una concessione per potere operare un cambio d'uso senza trasformazioni fisiche, imponendo una valutazione indifferenziata dell'intero territorio comunale, e non di singoli ambiti territoriali. La norma statale interposta circoscriverebbe ad un ristretto quadro i limiti apponibili alla libertà di fruizione degli immobili, in conformità all'art. 42 della Costituzione.

La difesa del Mezzetti si sofferma quindi sulle modifiche recate alla legge impugnata dalla nuova normativa dettata dalla Regione con la legge 30 gennaio 1995, n. 6, che, in particolare, ha sostituito integralmente l'art. 2, eliminando ogni riferimento alle concessioni edilizie, ed ha evitato di porre delle prescrizioni dirette, facendo invece rinvio alle previsioni urbanistiche dei Comuni, divenuti unici soggetti destinatari della legge.

La nuova legge, prosegue, non ha tuttavia regolato le situazioni pregresse, rivolgendosi solo al futuro, sicchè la rilevanza della questione resta immutata: solo con la caducazione della norma, infatti, si può giungere all'annullamento dell'ordine di ripristino dell'uso abitativo (vengono richiamate, in proposito, l'ordinanza n. 583 del 1988 e la sentenza n. 260 del 1986, relative ad ipotesi di ius superveniens che ha tuttavia lasciato nei termini originari la situazione del rapporto all'esame del giudice a quo).

Considerato in diritto

 

1.- La censura di illegittimità costituzionale, riproposta dal giudice remittente a cui gli atti erano stati restituiti con l'ordinanza n. 182 del 1995 di questa Corte, ha per oggetto il testo originario dell'art. 2, comma 1, della legge regionale dell'Emilia-Romagna 8 novembre 1988, n. 46, per contrasto con i principi espressi nel testo a sua volta originario dell'art. 25 della legge statale 28 febbraio 1985, n. 47, e conseguentemente con l'art. 117 della Costituzione.

Sia la disposizione impugnata, sia la norma statale indicata come parametro interposto, non sono oggi più in vigore. In particolare, l'art. 2 della legge regionale n. 46 del 1988 é stato sostituito dall'art. 16, comma 2, della legge regionale 30 gennaio 1995, n. 6; e l'art. 25, ultimo comma, della legge statale n. 47 del 1985, già sostituito con testi non uniformi da una serie di decreti legge reiterati, a partire dal d.l. n. 88 del 1995 e fino al d.l. n. 495 del 1996, tutti decaduti per mancata conversione in legge, é stato infine sostituito con un testo ancora diverso dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), contenente una nuova formulazione dell'art. 4 del d.l. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493: il comma 20 di tale ultimo articolo reca un nuovo testo di detto art. 25, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985. In quest'ultima formulazione si demanda interamente alla legge regionale la possibilità di stabilire quali mutamenti di destinazione d'uso, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, siano subordinati a concessione, e quali ad autorizzazione: così rimuovendo i vincoli alla legislazione regionale che discendevano, in materia, dal precedente testo, e rispetto ai quali si é posto il problema della conformità o meno della legge regionale impugnata. Il comma 61 del citato art. 2 della legge n. 662 del 1996, a sua volta, ha disposto la salvezza degli effetti di tutti i decreti legge precedentemente succedutisi, e sopra ricordati.

2.- L'eccezione sollevata dalla Regione intervenuta, secondo cui la questione dovrebbe ritenersi irrilevante per l'avvenuta abrogazione e sostituzione della disposizione impugnata ad opera della legge regionale n. 6 del 1995, non può essere accolta.

Tale sopravvenienza normativa é stata infatti valutata dal giudice a quo, a cui questa Corte aveva all'uopo restituito gli atti con l'ordinanza n. 182 del 1995: ed esso ha ritenuto tuttora sussistente la rilevanza della questione, con motivazione non implausibile, riferita alla necessità di valutare la legittimità dell'atto amministrativo impugnato alla luce della disciplina regionale in vigore all'epoca della sua emanazione, ancorchè poi (non retroattivamente) modificata.

3.- Del pari non può accogliersi l'ulteriore prospettazione della Regione intervenuta, secondo cui l'avvenuta sostituzione della norma statale di principio invocata come parametro interposto ai fini della valutazione di legittimità costituzionale della disposizione regionale impugnata con una norma che ha fatto venir meno i vincoli preesistenti, che si sostiene fossero violati dalla medesima disposizione impugnata, ne precluderebbe la dichiarazione di illegittimità costituzionale.

A tal fine non é necessario risolvere il delicato problema degli effetti che produrrebbe, in ordine alla validità e all'efficacia della legge regionale preesistente, in ipotesi contrastante con un principio fondamentale della legislazione statale, ad essa anteriore, la sopravvenienza di una legge statale recante nuovi principi, con i quali la legge regionale risulti invece compatibile.

Nella specie é decisivo il rilievo che la norma statale di principio, con la quale si sostiene contrastasse la disposizione di legge regionale impugnata, é rimasta in vigore per l'intero arco temporale di vigenza di quest'ultima. Quando é sopravvenuta la nuova norma statale (la prima volta con l'art. 8, comma 4, del d.l. 27 marzo 1995, n. 88, a voler tenere conto della "catena" di decreti legge reiterati e non convertiti, e della clausola di sanatoria dei loro effetti successivamente inclusa nell'art. 2, comma 61, della legge n. 662 del 1996), la disposizione regionale impugnata era già stata abrogata e sostituita dall'art. 16 della legge regionale 30 gennaio 1995, n. 6. Onde la norma regionale che il giudice a quo afferma di dover applicare é sempre rimasta, per l'intero arco della sua vigenza, nei medesimi rapporti con la normativa statale di principio, rispetto alla quale il remittente rileva un contrasto tale da determinarne l'illegittimità.

Una volta dunque presupposto come motivatamente assume il giudice a quo di dover fare applicazione di quella norma regionale, in quanto atta, in ragione del tempo, a qualificare la fattispecie, non si può sfuggire all'esigenza di risolvere la questione di costituzionalità che con riguardo ad essa si pone, per contrasto con i principi della legislazione statale vigenti all'epoca in cui essa era in vigore.

E' evidente poi che la soluzione della questione, riferendosi ad una situazione normativa ormai superata, non é suscettibile di avere alcun riflesso sui rapporti fra successiva legislazione regionale in materia e legislazione statale a sua volta sopravvenuta.

4.- Nel merito, la questione é fondata nei limiti di seguito precisati.

Il giudice a quo indica quattro ragioni di contrasto della norma regionale con i principi di quella statale: il carattere obbligatorio e non facoltativo della disciplina comunale dei mutamenti di destinazione d'uso senza opere; la diretta statuizione di casi in cui tali mutamenti sono sottoposti a concessione, senza il "filtro" delle scelte urbanistiche del Comune; l'estensione di tale disciplina all'intero territorio e non solo ad ambiti determinati del Comune; infine, la previsione della concessione e non dell'autorizzazione come strumento di controllo di tali mutamenti.

Di queste ragioni di contrasto, la prima non sussiste: il rinvio ad una regolamentazione "eventuale" delle destinazioni d'uso, contenuto nella norma statale, non significa che la legge regionale, cui veniva demandata la statuizione dei criteri per la disciplina della materia, non potesse disporre che tale regolamentazione fosse obbligatoria per i Comuni.

Anche la seconda ragione di asserito contrasto é superabile: la statuizione regionale, secondo cui in ogni caso determinate variazioni erano soggette a concessione, può intendersi nel senso che comunque si richiedeva il preventivo intervento dello strumento urbanistico comunale. Nè il vincolo così creato a carico dei Comuni é in contrasto con la norma statale, che demandava alla legge regionale il compito di stabilire "criteri e modalità" cui i Comuni, all'atto della predisposizione degli strumenti urbanistici, "dovranno attenersi".

Al contrario, la norma regionale é irrimediabilmente in contrasto con quella statale là dove estende la necessaria regolamentazione all'intero territorio del Comune, e non solo ad "ambiti determinati" di esso (cfr. sentenza n. 73 del 1991): nè l'opportunità, fatta valere dalla Regione, di tener conto di un territorio fittamente urbanizzato può valere a consentire il superamento di un vincolo recato da una norma di principio statale.

Parimenti in contrasto con la norma statale é la previsione della sottoposizione dei mutamenti di destinazione senza opere a concessione comunale, anzichè a semplice autorizzazione.

In primo luogo, non può ritenersi che la "concessione" comunale, a cui la norma regionale assoggettava determinati mutamenti di destinazione d'uso senza opere, sia qualcosa di diverso dalla concessione edilizia alla quale si riferisce la legge statale n. 47 del 1985, e ancor prima l'art. 1 della legge 28 gennaio 1977, n. 10. La distinzione fra concessione e autorizzazione, infatti, é netta nella legislazione statale, anche ai fini delle sanzioni applicabili nei casi di mancanza dell'una e dell'altra (cfr. gli artt. 7 e 20, e, rispettivamente, l'art. 10 della legge n. 47 del 1985), nè si può ritenere che la legge regionale, successiva a quella statale, l'abbia ignorata. D'altra parte, che la norma impugnata intendesse riferirsi proprio alla concessione edilizia, é confermato anche dal fatto che l'art. 1, comma 1, lettera a, della legge regionale n. 46 del 1988 ricomprendeva i mutamenti di destinazione d'uso, anche non connessi a trasformazioni fisiche, che comportassero il passaggio dall'uno all'altro dei raggruppamenti di categorie indicati nell'impugnato art. 2, comma 1, fra le "variazioni essenziali rispetto alla concessione per gli effetti di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47". Inoltre l'art. 6, comma 3, della stessa legge regionale, nel dettare la disciplina sanzionatoria per i casi di mutamenti dell'uso non connessi a trasformazioni fisiche, faceva riferimento non già all'art. 10 della legge n. 47 del 1985, ma genericamente ai "fini sanzionatori di cui al capo I della legge" medesima, nonchè alla "demolizione" e al "ripristino", che la legge statale menziona, nell'art. 7, a proposito delle opere eseguite senza concessione (pur stabilendo, la norma regionale, che demolizione e ripristino debbono "intendersi esclusivamente" come rimozione dell'uso abusivo e ripristino dell'uso precedente o di quello stabilito o ammesso).

5.- Il contrasto, per le parti indicate, con la norma statale comporta necessariamente la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma regionale denunciata: infatti la norma statale invocata nella specie, essendo rivolta proprio ai legislatori regionali, per demandare loro una determinata disciplina, ma anche per vincolarne le scelte, esprime principi che limitano, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, l'autonomia di quei legislatori nell'esercizio della loro competenza "concorrente".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge regionale dell'Emilia-Romagna 8 novembre 1988, n. 46 (Disposizioni integrative in materia di controllo delle trasformazioni edilizie ed urbanistiche), nel testo anteriore alle modifiche ad esso recate dall'art. 16 della legge regionale 30 gennaio 1995, n. 6 (Norme in materia di programmazione e pianificazione territoriale, in attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142, e modifiche e integrazioni alla legislazione urbanistica ed edilizia).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Valerio ONIDA

Depositata in cancelleria il 23 luglio 1997.