Sentenza n. 193

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SENTENZA N. 193

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza [e per la pubblica moralità]), promosso con ordinanza emessa il 9 novembre 1995 dal Tribunale di Avellino sull'istanza proposta da Covelluzzi Andrea, iscritta al n. 519 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Udito nella camera di consiglio del 12 marzo 1997 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

 

1. - Chiamato a provvedere sulla richiesta di autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato, formulata da persona sottoposta alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, per esigenze lavorative (nella specie, per svolgere saltuari lavori di fabbro), il Tribunale di Avellino, con ordinanza del 9 novembre 1995 (pervenuta alla Corte costituzionale il 10 maggio 1996), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza [e per la pubblica moralità]), introdotto dall'art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione.

2. - Il giudice rimettente osserva che l'art. 7-bis impugnato prevede che la persona sottoposta a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza può essere autorizzata, nei modi ivi stabiliti, ad assentarsi dal luogo di soggiorno obbligato soltanto per "gravi e comprovati motivi di salute". Tale delimitazione, ad avviso del Tribunale, per un verso sarebbe contrastante con il diritto al lavoro riconosciuto dall'art. 4 della Costituzione, per altro verso sarebbe irragionevole, posto che, pur prescrivendosi al sorvegliato speciale di darsi alla ricerca di un lavoro, gli si impedisce poi di allontanarsi dal luogo di soggiorno obbligato - che é spesso un comune di piccole dimensioni - per svolgere un'attività lavorativa. Ulteriore profilo di irragionevolezza della norma impugnata, ad avviso del Tribunale, sarebbe altresì da ravvisare nel raffronto con la misura cautelare degli arresti domiciliari, la cui disciplina prevede la possibilità (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.) dell'allontanamento temporaneo giustificato da esigenze lavorative: arresti domiciliari che rappresentano una misura maggiormente afflittiva rispetto al soggiorno obbligato, e che, comunque, sono dettati da ragioni di prevenzione generale analoghe a quelle che sorreggono la misura del soggiorno obbligato.

Nè la limitazione dell'ambito applicativo della norma alle ragioni sanitarie può giustificarsi - conclude il Tribunale rimettente - con l'esigenza di controllo della persona socialmente pericolosa, giacchè questo controllo sarebbe agevolmente attuabile anche ammettendo la variazione richiesta.

L'art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 é dunque denunciato di incostituzionalità, in relazione ai parametri indicati, "nella parte in cui non prevede che il sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno possa essere autorizzato a recarsi in un luogo determinato fuori del comune di residenza o di dimora abituale per esercitare un'attività lavorativa".

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Avellino dubita della legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza [e per la pubblica moralità]), introdotto dall'art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia) - che, per le persone sottoposte alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, prevede e disciplina l'autorizzazione a recarsi in un luogo determinato fuori del comune di residenza o di dimora abituale, nei casi di gravi e comprovati motivi di salute - nella parte in cui non prevede che la medesima autorizzazione possa valere anche per consentire l'esercizio di un'attività lavorativa.

Tale mancata previsione, ad avviso del giudice rimettente, sarebbe in contrasto (a) con l'art. 4 della Costituzione, in quanto violerebbe il diritto al lavoro; (b) con l'art. 3, perchè sarebbe irragionevole prescrivere al sorvegliato speciale di darsi alla ricerca di un lavoro (art. 5, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956) quando vengono imposte limitazioni in tale ricerca e infine (c) ancora con l'art. 3, in quanto la disposizione impugnata negherebbe irragionevolmente una possibilità prevista invece per chi sia sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.).

2. - La questione non è fondata.

2.1. - Nel sistema della citata legge n. 1423, l'autorizzazione prevista dall'art. 7-bis rappresenta una deroga all'originario regime esecutivo della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno (ordinanza n. 722 del 1988), una deroga dettata in vista della tutela del bene della salute del prevenuto, quando sussistano gravi e comprovati motivi che la giustifichino. Attraverso tale deroga, il legislatore ha inteso introdurre un contemperamento tra esigenze diverse - la salute, da un lato, e la sicurezza, dall'altro - per mezzo di un'articolata disciplina che prevede limiti temporali della autorizzazione, procedure giudiziarie ordinarie e semplificate per il caso d'urgenza e adempimenti speciali di pubblica sicurezza, adeguati alla particolarità della situazione.

Non è escluso, in linea di principio, che una disciplina derogatoria, in forza del principio di uguaglianza e della ragionevolezza delle leggi, sia da estendere a ipotesi non previste dal legislatore. Ma ciò è possibile solo quando la ratio della deroga sia realizzata in maniera irragionevolmente manchevole, trascurando casi che manifestamente hanno da ricomprendersi in essa e la cui mancata previsione determina, perciò, una contraddittoria discriminazione.

Nel caso in esame, non è tuttavia così. Le ragioni di sanità, infatti, non sono assimilabili alle ragioni lavorative.

E' evidente che le ragioni sanitarie, tanto più se gravi - come richiede la norma - sono tali da mettere a repentaglio, talora anche in maniera definitiva e irrimediabile, un bene primario della persona (art. 32 della Costituzione) che può rischiare di essere pregiudicato una volta per sempre. Le ragioni lavorative, pur trovando riconoscimento anch'esse sul piano costituzionale (art. 4), possono essere valutate diversamente da quelle sanitarie, alla stregua della diversità del bene che è in questione e della rimediabilità, nel caso del lavoro, della perdita che si rendesse necessaria in conseguenza della soggezione alla misura di prevenzione. Ciò vale tanto più in quanto si tratti, come nel caso in esame, di un lavoro consistente in una prestazione saltuaria, la cui rinuncia non pregiudica il mantenimento dell'attività principale e continuativa. A ciò si deve aggiungere - a conferma dell'assenza di omologia tra l'ipotesi disciplinata dall'art. 7-bis e quella che vi si vorrebbe ricomprendere per mezzo della pronuncia richiesta a questa Corte - che anche le modalità organizzative del potere di autorizzazione previsto dalla norma impugnata sarebbero suscettibili di variare, in relazione alle esigenze lavorative, nelle diverse ipotesi in cui queste potrebbero manifestarsi.

Quanto precede dimostra l'inutilizzabilità della norma impugnata, come base di una pronuncia additiva che ne estenda la portata nel senso indicato dal giudice rimettente. A ciò osta tanto l'eterogeneità delle fattispecie quanto l'esistenza di margini di scelte del legislatore, una volta che questi si inducesse a prevedere, nella sua discrezionalità, ipotesi di autorizzazione in vista delle esigenze lavorative del prevenuto (così la già citata ordinanza n. 722 del 1988) .

2.2. - D'altronde, gli specifici motivi di incostituzionalità della vigente disciplina, fatti valere dal giudice rimettente, non sono fondati.

2.2.1. - Innanzitutto, non sussiste la violazione dell'articolo 4 della Costituzione.

Come nell'applicazione di tutte le misure limitative della libertà personale, anche rispetto alle misure di prevenzione il diritto al lavoro non può essere sacrificato oltre la soglia minima resa necessaria dalla misura medesima, cioè dalle esigenze in vista delle quali essa sia legittimamente prevista e disposta. Tale limite, nella misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, non è superato. La legge n. 1423 del 1956 nella sua versione attualmente in vigore, con lo stabilire (art. 3, terzo comma) che l'obbligo di soggiorno può riguardare solo il comune di residenza o di dimora abituale, esclude lo sradicamento dai luoghi abituali di vita e di attività del prevenuto e vale perciò a garantire, in linea di massima, la prosecuzione, ove vi siano, delle attività lavorative in corso o la possibilità di ricerca di un lavoro nei medesimi luoghi. Qualora poi venisse reperita una nuova attività da svolgere fuori dal territorio del comune in cui è fatto obbligo di soggiornare, ciò, oltre a poter costituire motivo di revoca della misura, in quanto sintomo di diminuzione della pericolosità sociale, sarebbe di per sè ragione sufficiente della modifica del provvedimento applicativo, a norma dell'art. 7, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, conformemente a quanto riconosciuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Quanto poi alla pretesa di poter svolgere fuori del territorio comunale prestazioni lavorative del tutto sporadiche e occasionali, come nel caso che ha dato origine alla presente questione di costituzionalità, deve osservarsi che l'impossibilità la quale, per ragioni di pubblica sicurezza, derivi dall'esecuzione della misura di prevenzione si traduce non nella negazione del diritto al lavoro ma in una diminuzione puntuale ed episodica della possibilità di svolgere singole attività lavorative: diminuzione certamente compresa nelle limitazioni della libertà personale che la soggezione alla misura di prevenzione ragionevolmente implica.

2.2.2.- Neppure è fondata la censura d'incostituzionalità per irrazionalità, in base all'asserita contraddizione tra la limitazione alla possibilità di svolgere attività lavorative, conseguente alla misura di prevenzione, e la prescrizione che il tribunale, a norma dell'art. 5, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, deve rivolgere al prevenuto di darsi alla ricerca di un lavoro, entro un congruo termine.

L'obbligo che da tale prescrizione deriva - previsto in precedenza per gli oziosi e vagabondi (categorie, peraltro, espunte dall'ambito di applicazione della legge n. 1423 a seguito della modifica portata all'art. 1 dall'art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327) e, tuttora, per le persone sospettate di vivere con il provento di reati - non è affatto reso impossibile dalle limitazioni che derivano dalla soggezione alla misura di prevenzione. Semplicemente, tale obbligo vale entro i limiti in cui, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, quella ricerca è possibile.

2.2.3. - Infine, priva di consistenza è anche la censura in termini di irragionevolezza, per la pretesa ingiustificata disparità di disciplina del diritto al lavoro nel caso in esame, rispetto all'ipotesi degli arresti domiciliari, nel cui regime può rientrare l'autorizzazione del giudice all'imputato che non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita, oppure versa in situazione di assoluta indigenza, ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare un'attività lavorativa (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.).

Innanzitutto, è da rilevare che tra le misure di prevenzione e le misure cautelari esistono differenze strutturali tali da escludere, di regola, la comunicabilità tra le due discipline (ordinanza n. 148 del 1987; sentenze nn. 74 del 1973 e 96 del 1970) e tali da impedire - al contrario di quanto ritiene il giudice rimettente - la configurabilità delle prime come "misure meno gravi" delle seconde. In particolare, poi, l'autorizzazione di cui all'art. 284, comma 3, cod. proc. pen. si innesta su una misura che consiste nel divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza, mentre la misura di prevenzione comporta il divieto di allontanamento dal territorio del comune. Ciò di per sè determina una rilevante differenza rispetto alle possibilità lavorative, che permette una valutazione legislativa differenziata delle esigenze minime vitali alle quali, da un lato, è finalizzata la possibilità prevista dall'art. 284, comma 3, cod. proc. pen. e, dall'altro, sarebbe finalizzata l'analoga possibilità che si vorrebbe innestare nel regime di esecuzione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno.

3. - La riconosciuta infondatezza della questione di costituzionalità così come proposta, sotto il profilo delle restrizioni che dalla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno conseguono all'esercizio del diritto al lavoro, non preclude la ricerca, attraverso l'approfondimento delle possibilità che la disciplina vigente consente, del più adeguato contemperamento tra le esigenze collettive di sicurezza, cui le misure di prevenzione imprescindibilmente mirano, e il diritto al lavoro del prevenuto. Tale ricerca - in via di esecuzione amministrativa o di applicazione giurisdizionale della disciplina vigente - è aperta, pur in una situazione normativa che, per come ricostruita nei termini sopra esaminati dal giudice rimettente al fine di prospettare la presente questione di costituzionalità, si sottrae ai sollevati dubbi di legittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza [e per la pubblica moralità]), introdotto dall'art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 4 della Costituzione, dal Tribunale di Avellino, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 1997.

Renato GRANATA: Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY: Redattore

Depositata in cancelleria il 24 giugno 1997.