Sentenza n. 164

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SENTENZA N. 164

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 464, secondo comma, del codice penale, promossi con n. 2 ordinanze emesse il 30 gennaio 1996 ed il 1° febbraio 1996 dal Pretore di Palermo nei procedimenti penali a carico di Baglio Basilio e di Genco Assunta Maria, iscritte ai nn. 387 e 442 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 21, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 aprile 1997 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso di due procedimenti penali, rispettivamente a carico di Baglio Basilio e Genco Maria Assunta, imputati del reato di cui all'art. 464 del codice penale, avendo fatto uso di una marca per patente (valore di bollo) contraffatta senza essere concorsi entrambi nella contraffazione, il Pretore di Palermo ha sollevato, in relazione agli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del secondo comma del predetto articolo.

2. Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo premette che il procedimento penale a carico del Baglio scaturiva dal controllo sulla patente di guida inoltrata al Prefetto per il rinnovo (recte: conferma di validità), e in quella occasione veniva accertata come falsa la marca apposta su di essa nel 1992, poichè presentava una dentellatura più larga e una colorazione più accesa rispetto a quella autentica.

Nel corso del dibattimento, l'imputato - continua l'ordinanza - affermava di aver acquistato la marca da un tabaccaio, come sempre, non accorgendosi della contraffazione sì che il difensore chiedeva l'assoluzione del proprio assistito per mancanza del dolo. Ad avviso del rimettente, il Baglio era di sicuro in buona fede al momento della ricezione del valore di bollo, onde l'applicabilità nei suoi confronti della figura di reato di cui all'art 464, secondo comma, del codice penale. Egli avrebbe infatti utilizzato la marca secondo la sua naturale destinazione, per cui non sarebbe applicabile nei suoi confronti la diversa, e più grave, ipotesi delittuosa di cui all'art. 459 dello stesso codice.

Nel procedimento a carico della Genco il difensore - sottolinea il giudice a quo - aveva eccepito l'inutilità della prova circa la buona fede per l'assolutezza della disposizione incriminatrice, quanto alla presunzione del dolo nel comportamento.

3. La dimostrazione della sopravvenuta consapevolezza della falsità del valore utilizzato, sostiene il Pretore, costituirebbe un'autentica probatio diabolica, avendo a oggetto il mutamento di uno stato psicologico dell'agente che si esaurirebbe nel suo "foro interno", senza in alcun modo palesarsi all'esterno. Nè la consuetudine della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto nel quale vengono annualmente specificati i requisiti della marca da bollo, potrebbe ragionevolmente radicare una presunzione di riconoscibilità della contraffazione. Il dolo deve, perciò, essere effettivamente provato: in difetto, ricorrendo alle cosiddette massime di esperienza, lo si darebbe per dimostrato in quanto implicito nella realizzazione del fatto materiale (dolus in re ipsa).

La più recente dottrina - prosegue l'ordinanza - ha censurato, per violazione del principio di determinatezza della fattispecie penale, tutte le disposizioni che non richiedono un coefficiente psicologico minimo, empiricamente non dimostrabile. La Costituzione esige infatti la necessità della prova non soltanto in riferimento alla condotta, ma anche in ordine all'elemento soggettivo del reato (sentenza n. 96 del 1981 di questa Corte). Sì che la fattispecie delineata dal legislatore nel secondo comma dell'art. 464 non costituirebbe, al pari del plagio, ipotesi suscettibile di verifica processuale, per l'impossibilità di accertare il mutamento psicologico dell'imputato. Di qui, la violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

La disposizione lederebbe, altresì, l'art. 27 della Costituzione (sentenze nn. 1085 e 364 del 1988), poichè nel caso di specie si configurerebbe un'ipotesi di responsabilità oggettiva, se non addirittura "per fatto altrui", essendo sufficiente la realizzazione del comportamento materiale vietato, qual é l'uso della marca contraffatta, a fondare la colpevolezza dell'autore. Ciò che non sempre accade nella "contigua" ipotesi di spendita di banconote false ricevute in buona fede (artt. 457 e 458 del codice penale), dove il soggetto ha, di solito, la possibilità di accorgersi, prima delle forze dell'ordine, della falsità del denaro inconsapevolmente ricevuto.

Vi sarebbe dunque una surrettizia responsabilità "per fatto altrui", contrastante con la citata norma costituzionale che limita la discrezionalità del legislatore nella individuazione dei fatti penalmente sanzionabili; dal che discenderebbe sia il divieto di far ricadere sul soggetto colpe a lui non ascrivibili sia l'obbligo di stabilire incriminazioni soltanto per "fatto proprio" (v. ancora la citata sentenza n. 364 del 1988).

Considerato in diritto

1. Viene all'esame di questa Corte l'art. 464, secondo comma, del codice penale, che punisce il comportamento di colui il quale, avendo ricevuto in buona fede un valore di bollo contraffatto, o alterato, ne abbia fatto uso, apponendo nella specie la marca contraffatta sulla patente di guida. Il giudice a quo ipotizza il contrasto di detta disposizione con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, che introduce il principio di determinatezza della fattispecie penale, e con l'art. 27 della Costituzione, che fa divieto di far ricadere sul soggetto colpe a lui non ascrivibili e pone l'obbligo al legislatore di stabilire incriminazioni soltanto per "fatto proprio".

2. La questione non é fondata.

Il giudice a quo parte dal presupposto, erroneo, che la figura di reato descritta dall'art. 464, secondo comma, del codice penale, costituisca uno di quei casi che la dottrina penalistica costruisce come fattispecie con dolus in re ipsa. Ciò perchè la dimostrazione della sopravvenuta consapevolezza della falsità del valore utilizzato rappresenterebbe un'autentica probatio diabolica, avendo a oggetto il mutamento di uno stato psicologico dell'agente che si esaurirebbe nel suo "foro interno" senza palesarsi in alcun modo all'esterno.

Va considerato, invece, che anche la figura di reato in esame, alla stregua dei criteri generali di imputazione soggettiva delle fattispecie delittuose, impone al giudicante di accertare il mutamento psichico dell'agente attraverso l'individuazione di segni esteriori. In difetto di tale accertamento, non può che seguire l'assoluzione dell'imputato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 464, secondo comma, del codice penale, sollevata in relazione agli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Palermo con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 giugno 1997.

Renato GRANATA: Presidente

Francesco GUIZZI: Redattore

Depositata in cancelleria il 4 giugno 1997.