Ordinanza n. 64

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ORDINANZA N.64

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., promosso con ordinanza emessa il 3 maggio 1996 dal Tribunale di Bari nel procedimento penale a carico di Lepore Francesco, iscritta al n. 627 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1996.

  Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 1997 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

RITENUTO che il Tribunale di Bari, con ordinanza del 3 maggio 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., in riferimento agli articoli 2, 3, 24, primo comma, 25, primo comma e 101, secondo comma, della Costituzione;

  che l'ordinanza di rimessione muove dalla sentenza n. 131 del 1996 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che, come componente del tribunale dell'appello avverso l'ordinanza che provvede in ordine a una misura cautelare personale nei confronti dell'indagato o dell'imputato (art. 310 cod. proc. pen.), si sia pronunciato su aspetti non esclusivamente formali dell'ordinanza anzidetta;

  che la ragione di incompatibilità sopra delineata - si osserva nell'ordinanza di rinvio - assume rilievo nel giudizio a quo, giacché il collegio rimettente, che è chiamato alla funzione di giudizio dibattimentale, è lo stesso che ha pronunciato, in data 5 giugno 1995, ordinanza con cui ha accolto l'appello di un imputato avverso un'ordinanza del giudice per le indagini preliminari in tema di misure cautelari (più specificamente: relativa alla disposta proroga del termine di custodia cautelare a norma dell'art. 305, comma 2, cod. proc. pen.);

  che in tal modo si viene a configurare l'obbligo di astensione dei componenti del tribunale, nonostante che la valutazione da questo compiuta in sede di appello de libertate, pur non potendosi dire esclusivamente formale, sia stata tuttavia strettamente delimitata alla verifica della sussistenza della sola esigenza cautelare relativa al pericolo per la genuinità della prova, sia per l'ambito di cognizione del gravame, quale segnato dal principio devolutivo, sia per il carattere del provvedimento impugnato, basato, secondo la prescrizione legislativa, sulla ricorrenza di gravi esigenze cautelari che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi, rendono indispensabile il protrarsi della custodia;

  che, date le premesse sopra esposte, il Tribunale svolge un primo profilo della questione secondo il quale, individuata la ragione fondante della causa di incompatibilità in esame nelle modifiche recate alla disciplina della libertà personale nel processo penale dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), risulterebbe ingiustificatamente discriminatorio non aver distinto, con la dichiarazione di incostituzionalità, fra i provvedimenti ex art. 310 cod. proc. pen. rientranti nella nuova disciplina e i provvedimenti regolati - come quello del giudizio a quo, anteriore all'entrata in vigore della riforma - dalla precedente normativa, dovendo valere l'incompatibilità solo in relazione ai primi e non ai secondi;

  che, infatti, se è in base alla legge n. 332 del 1995 che può ritenersi che la valutazione sulle esigenze cautelari ne implichi necessariamente una corrispondente sul merito dell'accusa, la statuizione dell'incompatibilità indifferenziata nel tempo determina una irragionevole equiparazione, lesiva dell'art. 3 della Costituzione, di casi tra loro diversi, dovendosi - secondo il rimettente - riconoscere la formazione di un pregiudizio solo nella valutazione in tema di libertà personale svolta nel vigore della nuova regolamentazione;

  che, delineando un secondo profilo della questione, il giudice rimettente osserva che, anche indipendentemente dal discrimine temporale segnato dalla riforma legislativa dell'agosto 1995, la valutazione del giudice dell'appello de libertate, qualora sia contenuta nell'ambito della verifica sulla sussistenza delle esigenze cautelari - per il limite della devoluzione, e per le caratteristiche del provvedimento impugnato, come prima ricordato -, non può risolversi sempre in quel giudizio anticipato e prognostico di colpevolezza che determina l'incompatibilità alla successiva funzione di giudizio, trattandosi in questa evenienza di assumere la contestazione del reato come un mero "dato", estraneo all'apprezzamento sull'impugnazione;

  che, per questo secondo profilo, la previsione dell'incompatibilità rilevata dalla sentenza n. 131 del 1996, risulterebbe, nella sua generalizzazione, lesiva dell'art. 3 della Costituzione, in quanto accomuna situazioni differenziate, quali sono quella in cui vi sia stata effettivamente una valutazione di colpevolezza tale da integrare una prevenzione rispetto al successivo giudizio, e quella in cui la colpevolezza rimane un elemento esterno alla conoscenza e all'apprezzamento del giudice; nonché in quanto finisce per ricollegare il pregiudizio alla sola conoscenza di atti dell'indagine, in contrasto con la ripetuta affermazione della giurisprudenza costituzionale, ribadita anche dalla stessa sentenza n. 131 del 1996, secondo cui tale conoscenza non è, come tale, idonea a fondare una causa di incompatibilità;

  che, inoltre, la previsione in discorso risulterebbe lesiva di ulteriori parametri costituzionali, perché limitativa, anche per gli intralci che comporta nella perdita di attività processuale, della funzione giurisdizionale (art. 101, secondo comma, della Costituzione), funzione che è apprestata a tutela di diritti fondamentali della persona (art. 2 della Costituzione), nonché a tutela del diritto di azione (art. 24, primo comma, della Costituzione), in particolare delle parti civili; profili tutti, questi, da rapportare al principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, della Costituzione);

  che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, richiamando altro atto di intervento depositato in distinto giudizio, ha concluso per l'infondatezza della questione.

  CONSIDERATO che, relativamente al primo profilo della questione, il presupposto della censura, consistente nella affermata decisività del mutamento di quadro normativo determinato dalla legge n. 332 del 1995 ai fini della rilevata incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nel senso esposto in narrativa, non trova corrispondenza in quanto argomentato e deciso nella sentenza n. 131 del 1996, cui il giudice rimettente fa riferimento, poiché, come si desume dal tenore del dispositivo e come è chiarito altresì dalla motivazione della pronuncia, il nuovo assetto legislativo ha svolto una "influenza", concorrente con altri elementi e dunque non esclusiva o determinante, nel superamento del precedente orientamento di questa Corte (sentenza n. 502 del 1991), superamento del resto già ravvisabile nella decisione n. 432 del 1995;

  che, come si è già osservato nella sentenza n. 131 del 1996 e nella citata sentenza n. 432 del 1995, che della prima costituisce precedente specifico, l'incidenza del nuovo quadro normativo rappresenta un elemento di accentuazione di taluni caratteri qualificanti l'originaria disciplina del nuovo processo penale in materia di libertà personale, un elemento dunque che si collega alla accresciuta pregnanza del giudizio probabilistico sulla colpevolezza dell'indagato o imputato in ogni decisione sulla libertà personale (in particolare, per l'onere di apprezzamento delle ragioni difensive, art. 292, comma 2, lettera c-bis, e per la valutazione ex ante in ordine alla possibile concessione del beneficio sospensivo, art. 275, comma 2-bis), ma che proprio tale accentuazione di un connotato qualitativo già esistente esclude la radicale cesura che il giudice a quo prospetta, tra l'assetto preesistente e quello conseguente alla richiamata riforma;

  che, relativamente al secondo profilo della questione, si deve ribadire che anche le - sole - valutazioni sulla ricorrenza delle esigenze cautelari comportano un pregiudizio sul merito dell'accusa e, dunque, "possono riflettersi sulla posizione sostanziale dell'imputato nel giudizio" (sentenza n. 131 del 1996, par. 3; sentenza n. 155 del 1996, par. 4.1), poiché, anche se con diverso accento - dalla cautela di ordine probatorio, a quella del pericolo di fuga, a quella del pericolo di commissione di gravi delitti - ma comunque sulla base di un comune denominatore contrario alla libertà della persona, siffatte valutazioni sulle esigenze cautelari possono comportare l'anticipazione di considerazioni soggettive e oggettive della complessiva vicenda che successivamente viene portata alla cognizione del giudice del merito e che è oggetto del procedimento penale;

  che pertanto l'immanenza, in tali valutazioni cautelari, di profili, per quanto anticipati e probabilistici, comunque connessi al giudizio di colpevolezza, rende indifferente, sul piano della costituzionalità della norma, la delimitazione della cognizione all'ambito delle esigenze cautelari, valorizzata dal giudice a quo, sia tale delimitazione conseguenza del tipo di giudizio (appello, e relativo limite dell'effetto devolutivo) ovvero delle caratteristiche del provvedimento che ne è oggetto (ordinanza di proroga del termine di custodia cautelare, ex art. 305, comma 2, cod. proc. pen.), integrandosi comunque, anche in tali ipotesi, il potenziale pregiudizio rilevante ai fini dell'imparzialità del giudice;

  che, in base ai rilievi che precedono, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata sotto entrambi i profili.

  Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, primo comma e 101, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Bari, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1997.

  Giuliano VASSALLI, Presidente

  Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

  Depositata in cancelleria il 14 marzo 1997.