Sentenza n. 4

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SENTENZA N. 4

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Dott. Renato GRANATA, Presidente

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

-        Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-        Prof. Valerio ONIDA

-        Prof. Carlo MEZZANOTTE

-        Avv. Fernanda CONTRI

-        Prof. Guido NEPPI MODONA

-        Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 148, numero 1, del codice penale militare di pace, promosso con n. 2 ordinanze emesse il 26 settembre 1995 e il 23 aprile 1996 dal Tribunale militare di Padova nei procedimenti penali a carico di Varriale Giuseppe e Romaniello Giuseppe, rispettivamente iscritte ai nn. 33 e 746 del registro 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6 e 34, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 novembre 1996 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

 

1.-- Con due ordinanze di identico contenuto, il Tribunale militare di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 148, numero 1, del codice penale militare di pace, che punisce il reato di diserzione cosiddetta propria nel quale incorre il militare che, essendo in servizio alle armi, se ne allontana senza autorizzazione e rimane assente per cinque giorni consecutivi.

Il Tribunale era stato chiamato a decidere, in due distinti procedimenti, sul comportamento di due militari imputati del reato di diserzione per non avere fatto rientro dalla libera uscita, essendo rimasti assenti dal servizio per svariati mesi, per poi ripresentarsi il primo ad altro distretto adducendo come giustificazione le gravi condizioni della propria famiglia, ed il secondo al reparto di appartenenza sostenendo di essere stato malato.

In entrambe le ordinanze il remittente premette che, in base al diritto vivente, il mancato rientro dalla libera uscita, protrattosi per un periodo superiore a cinque giorni, realizza appunto un'ipotesi di diserzione propria, in relazione alla quale non è possibile all'agente allegare l'esistenza di un "giusto motivo" dell'assenza, come invece è consentito dal numero 2 dello stesso art. 148, che punisce il diverso reato di diserzione cosiddetta impropria che commette il militare che, trovandosi legittimamente assente, non si presenta "senza giusto motivo" nei cinque giorni successivi a quello previsto.

L' orientamento seguito dalla giurisprudenza, propensa ad inquadrare il mancato rientro dalla libera uscita nella diserzione propria, muoverebbe, ad avviso del giudice a quo, da una nozione di presenza in servizio "di natura amministrativo-cartolare", che porterebbe a considerare presente il militare in libera uscita, anche se la maggiore libertà accordatagli a seguito della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare), l'ampliamento dell'orario di libera uscita e i moderni mezzi di trasporto potrebbero consentirgli di allontanarsi in quelle ore dalla caserma "anche di centinaia di chilometri".

La differente regolamentazione poteva trovare, secondo il remittente, il suo presupposto "nella vicinanza con il superiore, nella onnipresenza per così dire dello stesso, sul quale il militare poteva comunque contare anche in orario di libera uscita (di cui poteva fruire solamente nel ristretto ambito del presidio) per rappresentare esigenze personali tali da consigliare l'autorizzazione ad allontanarsi dal servizio e dal reparto". Essendo venuto meno questo presupposto, sarebbe irrazionale e contrasterebbe con il principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 Cost., il fatto che "la disciplina penalistica sia differenziata, a seconda che il militare non sia rientrato in caserma al termine di una licenza o di un permesso, piuttosto che al termine di libera uscita".

2. -- E' intervenuto nei due giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, rilevando preliminarmente la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, a causa della mancata esposizione, nella motivazione delle ordinanze, della concreta fattispecie che ha dato origine ai processi pendenti innanzi al giudice remittente.

Le questioni sarebbero, comunque, infondate, poiché il differente trattamento stabilito dall'art. 148 del codice penale militare di pace, in riferimento alla rilevanza dell'esimente del "giusto motivo", troverebbe ragionevole giustificazione nel maggior grado di offensività dell'allontanamento senza autorizzazione, rispetto al mancato rientro del militare legittimamente assente.

Considerato in diritto

 

 1.-- Il Tribunale militare di Padova, con due ordinanze di identico contenuto, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 148, numero 1, del codice penale militare di pace, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

In entrambe le ordinanze, il giudice a quo premette che, in base al diritto vivente, il mancato rientro del militare dalla libera uscita, protrattosi per un periodo superiore a cinque giorni consecutivi, non può configurarsi come mancata riassunzione in servizio al termine di una legittima assenza (cosiddetta diserzione impropria, prevista dall'art. 148, numero 2, del codice penale militare di pace), ma costituisce un caso di allontanamento senza autorizzazione (cosiddetta diserzione propria, punita dall'art. 148, numero 1, dello stesso codice).

Il remittente pone quindi a raffronto la condizione del militare in libera uscita e quella del militare in licenza o in permesso; ritiene che tali condizioni siano sostanzialmente equiparabili e considera pertanto ingiustificata la diversità di disciplina risultante dai numeri 1 e 2 dell'art. 148 del codice penale militare, che solo in caso di mancato rientro in caserma al termine della licenza o del permesso, e non anche in caso di mancato rientro al termine della libera uscita, danno rilievo all'eventuale "giusto motivo" del ritardo quale esimente del reato di diserzione cosiddetta impropria.

Poiché le ordinanze di rimessione hanno ad oggetto la medesima disposizione e pongono la medesima questione, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2.-- In primo luogo deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato.

Dalla motivazione delle ordinanze emergono infatti con sufficiente chiarezza le situazioni di fatto che hanno dato origine ai processi nel corso dei quali il Tribunale militare di Padova ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale che vengono all'esame di questa Corte.

Si tratta, in particolare, di due militari, imputati del reato di cui all'art. 148, numero 1, del codice penale militare di pace in quanto non avevano fatto rientro dalla libera uscita, rimanendo arbitrariamente assenti dal servizio per svariati mesi, e si erano ripresentati successivamente -- il primo ad altro distretto militare ed il secondo al reparto di appartenenza -- giustificando il perdurare della loro assenza, rispettivamente, con la drammaticità della condizione della propria famiglia e con una malattia.

L'impossibilità di dare rilievo all'esimente del "giu- sto motivo", prevista soltanto nell'ipotesi di cui all'art. 148, numero 2 del codice penale militare di pace, e che potrebbe eventualmente ricorrere nelle fattispecie in esame se questa Corte accogliesse la questione di legittimità costituzionale, rende evidente la sussistenza del requisito della rilevanza.

3.-- Nel merito, la questione non è fondata.

Benché tra le fattispecie poste a raffronto dal giudice a quo vi siano punti di contatto che sarebbe difficile negare, permangono diversità sostanziali che fanno apparire non irragionevole il diverso trattamento per esse stabilito dal legislatore. I profili di similitudine rappresentano il prodotto della profonda evoluzione che l'istituzione militare ha subito nell'ordinamento democratico e che ha coinvolto, nella stessa misura, molti suoi istituti.

Un tempo l'aprirsi del sistema delle forze armate ad istanze di più intensa protezione della libertà umana era contrastato dal carattere tendenzialmente totalizzante dell'istituzione e dall'apparire questa, per ogni suo aspetto, così saldamente strutturata intorno ai principî di autorità e disciplina da rendersi scarsamente omogenea con una visione orientata al riconoscimento di diritti individuali del militare. Oggi, invece, non sono pochi gli istituti che, seppure risalenti a tradizioni inveterate del diritto militare, hanno visto mutare il loro valore ed il loro significato e si prestano ad essere riqualificati alla luce dell'art. 52 della Costituzione e dello spirito democratico al quale, secondo questa disposizione, deve informarsi l'ordinamento delle forze armate. Entrambi gli istituti in parola (la licenza o il permesso, da un lato, e la libera uscita, dall'altro), sono stati investiti dal processo di rinnovamento, propiziato dalla Costituzione e dal progressivo mutamento dei contesti culturali, fino ad assumere la nuova configurazione di elementi essenziali di uno statuto minimo delle libertà riconosciute agli appartenenti alle forze armate, anche in servizio di leva.

L'approdo di questo processo evolutivo si fa evidente nelle due fondamentali innovazioni degli artt. 5 e 12 della legge 11 luglio 1978, numero 382, contenente norme di principio sulla disciplina militare. La prima riguarda l'abbigliamento del militare durante il tempo libero -- al di fuori degli orari, dei luoghi e dei compiti di servizio -- e consente di indossare l'abito civile non solo nei periodi di permesso e di licenza, ma anche, salvo enumerate eccezioni, nella libera uscita. Di questa innovazione deve essere sottolineato il valore altamente simbolico: il militare, soprattutto se di leva, non dismette la propria appartenenza alla società civile e l'ordinamento militare, senza che la sua connotazione di sistema imperniato sul principio di autorità subisca alterazioni snaturanti, riconosce spazi di libertà individuale durante i quali i vincoli di disciplina si attenuano e l'attività dei singoli sottostà alle regole della vita civile ed al principio di libertà che le ispira. L'altra innovazione, contenuta nell'art. 12 della citata legge n. 382 del 1978, si muove nella stessa direzione: al militare in libera uscita non vengono più posti limiti generali di distanza nell'allontanamento dalla località di servizio e si prevede che tali limiti non possano essere introdotti se non "per imprescindibili esigenze di impiego". Uso degli abiti civili e facoltà di allontanarsi dal distretto delineano, insieme, un ambito spaziale e temporale di libertà del militare in libera uscita qualitativamente non dissimile da quello che gli è riconosciuto durante il periodo di permesso o di licenza.

E tuttavia l'assimilazione di questi istituti, derivante dalla comune matrice della libertà individuale del militare, non può essere spinta fino al punto di postulare una assoluta identità di regolamentazione e di imporre l'esimente del "giusto motivo" anche in quella particolare ipotesi di diserzione propria che, nel diritto vivente, viene configurata nel caso di mancato rientro del militare dalla libera uscita.

A parte il rilievo che le licenze e i permessi vengono concessi ai singoli militari con apposito provvedimento autorizzativo, laddove, in base a quanto disposto dagli artt. 45 e 46 del regolamento di disciplina militare (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), questi fruiscono di libera uscita secondo turni e orari stabiliti con atto generale da rendere pubblico nell'ambito di ciascuna forza o corpo armato -- ciò che potrebbe di per sé giustificare la affermazione, comune nella giurisprudenza, secondo la quale una situazione più prossima ad una vera e propria sospensione del servizio si determina solo nella prima ipotesi, mentre nella seconda si è in presenza di una semplice regolamentazione del servizio stesso -- si deve considerare che un'ulteriore diversità sostanziale tra le due fattispecie, che vale senz'altro a giustificare il differente apprezzamento da parte del legislatore delle ipotesi di mancato rientro, consiste nel più circoscritto ambito temporale di autodeterminazione che la libera uscita comporta rispetto alle licenze e ai permessi. Nella libera uscita, infatti, pur attribuendosi al militare, nell'ambito della normale disciplina del servizio, una libertà di scelta circa il modo di impiegare il proprio tempo, l'irrilevanza dei giusti motivi dell'eventuale ritardo tende a porre all'esercizio della libertà di movimento un vincolo -- seppure indiretto -- che non appare a questa Corte irragionevole. La scelta di addossare interamente al militare (salve ovviamente le ipotesi di forza maggiore e stato di necessità) il rischio del mancato rientro attraverso una graduazione di sanzioni, che solo con il prolungarsi dell'assenza divengono penali, è determinata dall'esigenza di accompagnare il riconoscimento di brevi periodi di libertà individuale con una previsione che, pur lasciando intatta -- in principio -- la libertà del militare di determinarsi, lo induca ad una autolimitazione in ordine ad attività suscettibili di incidere negativamente sul rispetto dell'orario di rientro. Viene così a realizzarsi, nella previsione legislativa, un bilanciamento non privo di ragionevolezza tra la libertà di movimento e di autodeterminazione dei singoli e l'effettività dell'istituzione militare.

Nelle licenze e nei permessi il diverso apprezzamento del ritardo, implicito nel rilievo che in questi casi viene dato all'eventuale "giusto motivo", trova spiegazione nella maggiore durata del tempo libero a disposizione del militare e nella sua -- presumibilmente più piena -- reimmissione nella vita civile. In tali casi non appare irragionevole né arbitrario il fatto che il legislatore, sulla presunzione che il maggior ambito temporale di autodeterminazione possa esporre il soggetto a vicissitudini ostative di un tempestivo rientro, dia rilievo a circostanze che, seppur non inquadrabili tra le esimenti generali, siano tuttavia suscettibili di positivo apprezzamento.

La diversità di disciplina delle due fattispecie -- licenze e permessi da un lato, libera uscita dall'altro -- si fonda, in definitiva, sulla oggettiva differenza delle situazioni regolate e non dà luogo a ingiustificate disparità di trattamento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 148, numero 1, del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 1997.

Renato Granata, Presidente

Carlo Mezzanotte, Redattore

Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 1997.