Sentenza n. 402 del 1996

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SENTENZA N.402

 

ANNO 1996

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-     Dott. Renato GRANATA, Presidente

 

-     Prof. Giuliano VASSALLI

 

-     Prof. Francesco GUIZZI

 

-     Prof. Cesare MIRABELLI

 

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-     Avv. Massimo VARI

 

-     Dott. Cesare RUPERTO

 

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

 

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

 

-     Prof. Valerio ONIDA

 

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

 

-     Avv. Fernanda CONTRI

 

-     Prof. Guido NEPPI MODONA

 

-     Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 (e relativa tabella A) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e 11 (e relativa tabella A) della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 19 dicembre 1995 dal Pretore di Torino, nel procedimento civile vertente tra Cirigliano Domenico e INPS, iscritta al n. 126 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 1996.

 

Visti gli atti di costituzione dell'INPS e di Cirigliano Domenico nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 26 novembre 1996 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

 

uditi gli avvocati Carlo De Angelis per l'INPS, Salvatore Cabibbo per Cirigliano Domenico e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. -- Nel corso di un giudizio in cui il ricorrente, già dipendente di un'azienda in crisi e beneficiario della "mobilità corta" ex art. 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223, aveva chiesto il riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia al compimento del 60° anno di età (secondo la normativa vigente al momento in cui era stato collocato in mobilità) e non già al 62° (ai termini della legge sopravvenuta), il Pretore di Torino -- con ordinanza emessa il 19 dicembre 1995 -- ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 (e relativa tabella A) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, "sia in sé considerato sia in quanto innovato" dall'art. 11 (e relativa tabella A) della legge 23 dicembre 1994, n. 724, nella parte in cui non vengono fatti salvi i limiti di età per la pensione di vecchiaia (60 anni) previsti dalla previgente normativa in favore dei soggetti posti in "mobilità corta" anteriormente al decreto legislativo n. 503 del 1992, per i quali il diritto a pensione sarebbe maturato entro la scadenza del triennio di mobilità.

 

A parere del rimettente il periodo di mobilità triennale era stato concesso all'attore con decorrenza dall'11 febbraio 1992 "sul presupposto e dandogli la certezza" del pensionamento prima della fine del periodo stesso (11 febbraio 1995), compiendo egli il 1° dicembre 1994 il 60° anno di età. Medio tempore però l'età pensionabile era stata elevata, dapprima al compimento del 61° anno di età e poi al compimento del 62° anno, per effetto, rispettivamente, dell'art. 1 (e relativa Tabella A) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 e dell'art. 11 (e relativa tabella A) della legge 23 dicembre 1994, n. 724. Per cui il lavoratore aveva lamentato la privazione di ogni fonte di reddito tra la fine della mobilità e la nuova data di pensionamento (e precisamente dal 12 febbraio 1995 al 1° dicembre 1996), in quanto escluso dal mercato del lavoro in ragione dell'età.

 

Sostiene il Pretore che la maturazione del diritto a pensione era ormai acquisita nel patrimonio giuridico dell'assicurato poiché nel documento dell'INPS era negata ogni soluzione di continuità tra retribuzione e pensione.

 

Il giudice a quo esclude possa estendersi alla fattispecie la diversa ipotesi normativa che, per la "mobilità lunga", ed in particolari ipotesi, rende inoperante la disciplina sopravvenuta (ex art. 6, comma 10- bis, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, come interpretato dall'art. 5, comma 7, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito in legge 19 luglio 1994, n. 451), trattandosi di un'eccezione alla regola generale. Ma tale previsione egli espressamente richiama quale tertium comparationis, sospettando la denunciata normativa di violazione dell'art. 38 Cost.

 

2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità, ovvero per l'infondatezza della questione. Osserva l'Avvocatura come, a seguito dell'elevamento dell'età per il collocamento a riposo, la disposizione citata dal Pretore di Torino quale tertium comparationis abbia consentito che la determinazione dei requisiti richiesti dalla norma predetta avvenisse sulla base della normativa previgente. Tuttavia, anche senza tale intervento, i lavoratori di cui ai citati commi 6 e 7 avrebbero comunque goduto di un trattamento economico dal collocamento in mobilità fino al pensionamento. Secondo l'Avvocatura, a seguire il ragionamento del Pretore -- che censura la scelta legislativa di non aver voluto collegare anche per gli altri lavoratori la fine della percezione dell'indennità di mobilità con la data del pensionamento -- per un lavoratore di cinquanta anni di età l'indennità in parola dovrebbe estendersi da trentasei mesi a dieci anni, senza la previsione di alcuna copertura finanziaria: il che sarebbe assurdo. Inoltre il rimettente avrebbe omesso di accertare la sussistenza dei requisiti contributivi richiesti dai citati commi 6 e 7.

 

3. -- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituiti la parte privata e l'INPS. La parte privata, in linea con la prospettazione dell'ordinanza di rimessione, ha osservato che la norma impugnata non ha fatto salva la legittima aspettativa di soggetti che si trovavano in una situazione analoga a quella del ricorrente, contrariamente a quanto avvenuto per altre categorie che hanno goduto di un regime eccezionale rispetto alla modifica della disciplina dell'età pensionabile.

 

L'INPS ha invece sostenuto l'infondatezza della questione, rilevando che la "mobilità corta" è un trattamento temporaneo introdotto in favore di lavoratori di aziende in crisi e non è strutturata per garantire la continuità dell'indennità fino al pensionamento. Il fatto che il periodo di assistenza si esaurisca prima del maturarsi dei requisiti richiesti per il diritto a pensione non è indice di discriminazione, né dipende dalla asserita carenza dei mezzi previdenziali. D'altra parte neppure è confrontabile tale situazione con le particolari condizioni, anche di natura ambientale, dei lavoratori posti in mobilità lunga.

 

Considerato in diritto

 

1. -- Il Pretore di Torino dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1 (e relativa tabella A) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, "sia in sé considerato, sia in quanto innovato" dall'art. 11 (e relativa tabella A) della legge 23 dicembre 1994, n. 724, nella parte in cui non vengono fatti salvi i previgenti limiti di età per conseguire la pensione di vecchiaia in favore dei lavoratori posti in "mobilità corta" anteriormente all'entrata in vigore del citato decreto legislativo, lavoratori per i quali il diritto alla pensione di vecchiaia sarebbe originariamente maturato entro il periodo di mobilità (nel caso di specie, trentasei mesi).

 

2. -- La questione non è fondata.

 

2.1. -- L'iscrizione nelle liste di mobilità comporta per i lavoratori l'acquisizione di uno status produttivo di molteplici obblighi e diritti, tra i quali ultimi si annovera la percezione di un'indennità (cfr. sentenza n. 413 del 1995).

 

L'art. 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223, nel dettare le misure e la durata del beneficio, introduce una fondamentale distinzione enunciando dapprima la regola generale di cui al comma 1, con la specifica deroga di cui al comma successivo, e prevedendo poi nei commi 6 e 7 una fattispecie a carattere eccezionale, comunemente definita "mobilità lunga", in contrapposizione alla prima ipotesi, che perciò viene denominata "mobilità corta".

 

Nel presupposto della cessazione del rapporto di lavoro per una molteplicità di cause -- che vanno dalla constatata impossibilità di garantire il reimpiego ai lavoratori sospesi, fino all'assoggettamento del datore di lavoro a procedure concorsuali -- e in presenza di requisiti minimi di anzianità aziendale, l'indennità di cui sopra viene erogata per un periodo direttamente proporzionale all'età dei lavoratori (e in nessun caso superiore all'anzianità aziendale). Più in dettaglio, il beneficio è riconosciuto per ventiquattro mesi ai lavoratori che abbiano compiuto i quarant'anni d'età e per trentasei mesi a quelli che abbiano compiuto i cinquant'anni, con riduzione all'ottanta per cento dal tredicesimo al trentaseiesimo mese. Nelle aree del mezzogiorno di cui al t.u. approvato con d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, il periodo di riferimento è poi elevato a quarantotto mesi in favore dei lavoratori ultracinquantenni.

 

Si tratta dunque di una provvidenza intesa a rendere meno traumatici i processi espulsivi dal mondo del lavoro cagionati dalla crisi aziendale; con un'accentuazione della portata protettiva nei confronti dei lavoratori presuntivamente più svantaggiati sul mercato in ragione della loro età non più giovane, e che sono stati collocati in mobilità secondo i criteri, di matrice negoziale, previsti dall'art. 5 della stessa legge. Soltanto dall'applicazione di tali criteri può derivare una preferenza nella scelta per i lavoratori più vicini al collocamento a riposo; mentre nessuna saldatura viene comunque operata dalla legge tra il rapporto di lavoro ed il trattamento pensionistico, che non può dunque essere assunto quale momento conclusivo della complessa vicenda procedimentale descritta dal legislatore.

 

Come in quest'ultima non è ravvisabile la fonte d'un qualche diritto alla stabilità del posto di lavoro (bensì soltanto di quello alla corretta applicazione dei criteri anzidetti: cfr. sentenza n. 268 del 1994), così non è possibile configurare alcuna situazione soggettiva basata sulla pretesa assenza di soluzione di continuità tra la percezione dell'indennità di mobilità e il diritto a pensione, vale a dire fra due benefici che sono tra loro soltanto in rapporto di necessaria successione temporale ma non di prosecuzione. E di ciò, indiretta conferma si trae dal comma 5 dello stesso art. 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che consente l'erogazione anticipata in unica soluzione dell'indennità di cui trattasi.

 

2.2. -- Codesta possibilità -- occorre sottolineare -- rimane invece di per sé esclusa nell'ipotesi della mobilità lunga, che inappropriatamente viene richiamata nell'ordinanza di rimessione quale tertium comparationis, stante la palese disomogeneità delle situazioni messe a confronto. Al riguardo giova ricordare che per determinate aree geografiche e per alcune specifiche circostanze è previsto un utilizzo del tutto diverso dell'istituto in parola, volto a consentire ai lavoratori in possesso dei requisiti di anzianità e di contribuzione dettati dalla norma, di percepire l'indennità sino alla maturazione dei trattamenti di vecchiaia, ed anche di anzianità. A sèguito delle modifiche apportate ai limiti di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia dalle norme impugnate, il legislatore ha precisato che appunto per detta fattispecie, con riguardo alla quale sono stati dilatati anche i limiti temporali, e solo per essa, avrebbero dovuto applicarsi le previgenti disposizioni (cfr. art. 6, comma 10-bis, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, come interpretato dall'art. 5, comma 7, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito in legge 19 luglio 1994, n. 451).

 

La sostanza dell'impianto dato alla materia dalla legge n. 223 del 1991 non risulta dunque in alcun modo modificata dagl'interventi normativi succedutisi nella prospettiva della riforma previdenziale, che solo per relationem acquistano evidenza in questo contesto. E chiaro appare come la necessaria integrazione non abbia inciso sulla descritta qualificazione delle posizioni dei lavoratori: unicamente nell'ipotesi di mobilità lunga l'indennità è assicurata, permanendo il diritto all'iscrizione, come elemento che congiunge la sequenza retribuzione-pensione; negli altri casi quest'ultima rimane oggetto di una mera aspettativa, per chi si trovi in mobilità corta come per chiunque altro, e il disagio che ne deriva è da riportare solo alle condizioni generali del mercato di lavoro.

 

2.3. -- Non potrebbe allora questa Corte -- senza inammissibilmente modificare la funzione dell'indennità di mobilità (corta), trasferendo nell'àmbito assicurativo tutti gli effetti del recesso ex art. 4 e segg. della legge n. 223 del 1991 -- inserire nelle denunciate norme una previsione che assicuri l'immediato trattamento pensionistico a coloro i quali avessero raggiunto il previgente limite del sessantesimo anno durante il periodo di godimento dell'indennità stessa. Anche prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 503 del 1992 tale sovrapposizione di date era circostanza occasionale (e meramente ricognitiva di questa è da ritenersi la nota dell'istituto erogatore richiamata nell'ordinanza di rimessione); non venendo dunque a costituire il contenuto di un diritto, del quale si possa richiedere il coordinamento con la legislazione successiva ovvero il riconoscimento in praeteritum da parte di essa attraverso una sentenza additiva della Corte. Una pretesa in tal senso trova spiegazione, evidentemente, solo nell'avere assunto quale tertium comparationis l'ipotesi normativa riferita alla mobilità lunga, trascurando di considerarne la inidoneità per il suo carattere di eccezionale e derogatoria proroga, in parte qua, del previgente regime pensionistico. Mentre, d'altra parte, inconferente si palesa il generico richiamo, che si fa nell'ordinanza di rimessione, "al principio di sicurezza sancito dall'art. 38 Cost. e, segnatamente, al principio di certezza nei traguardi conseguiti dall'assicurato su tale piano": proprio perché nessun traguardo nella specie era stato raggiunto in relazione al trattamento pensionistico. Il beneficio di cui in precedenza godeva il lavoratore, altro non rappresentava infatti che l'esito di una misura di politica economica (dettata dal legislatore unitamente al regime della cassa integrazione e del licenziamento collettivo) conseguente alla risoluzione del rapporto a causa del ridimensionamento dell'azienda; misura, in presenza della quale il principio di adeguatezza dei mezzi va armonizzato con le esigenze di governo del mercato del lavoro, di salvaguardia dell'attività produttiva, nonché di controllo sull'attuazione delle procedure, anche per evitare che queste possano venire strumentalizzate al diverso fine di uno svecchiamento del personale occupato.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 (e relativa tabella A) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e 11 (e relativa tabella A) della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, dal Pretore di Torino, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1996.

 

Renato GRANATA, Presidente

 

Cesare RUPERTO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1996.