Sentenza n. 370 del 1996

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SENTENZA N. 370

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 707 e 708 del codice penale, promossi con ordinanze emesse l'11 maggio 1994 dal Tribunale per i minorenni dell'Aquila, il 19 aprile 1995 dal Pretore di Varese, il 4 luglio, il 20 settembre, il 1° giugno, il 9 ottobre, il 20 settembre ed il 29 giugno 1995 dal Pretore di Milano, rispettivamente iscritte ai nn. 374, 445, 746, 898, 947 e 948 del registro ordinanze 1995 ed ai nn. 19 e 20 del registro ordinanze 1996, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26, 35 e 47, prima serie speciale, dell'anno 1995, e nn. 1, 4 e 5, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Stankovic Beta, trovata in possesso d'un cacciavite della lunghezza di 38 centimetri, il Tribunale per i minorenni dell'Aquila ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale.

Pur non ignorando che la denunciata disposizione e' stata più volte sottoposta al vaglio di questa Corte (la quale, con la sentenza n. 14 del 1971, mentre espungeva le condizioni personali ritenute non compatibili con l'art. 3 della Costituzione, dichiarava tuttavia l'infondatezza delle altre questioni sollevate), il giudice a quo ritiene di poterla riproporre sotto nuovi profili.

1.1. -- Alle origini del diritto penale moderno vi sarebbe, per il Collegio rimettente, la dialettica fra il principio di offensività del reato e la concezione dell'illecito penale quale mera violazione d'un dovere giuridico; fra la concezione oggettiva e quella soggettiva del reato. In base alla prima, verrebbe punita l'offesa al bene protetto a prescindere dall'intenzione dell'agente; per la seconda, il reato consisterebbe essenzialmente nella violazione delle norme morali, fino ad appiattirsi sul peccato. Il diritto penale moderno dovrebbe ricercare invece, a parere del giudice a quo, una sintesi fra i due estremi, privilegiando però il principio di offensività, secondo cui il reato dovrebbe estrinsecarsi nell'offesa o, quanto meno, nella messa in pericolo di un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza l'offesa di un bene: onde la necessaria materialità del fatto, vera e propria garanzia contro le incriminazioni degli atteggiamenti umani che toccano la sfera interna del soggetto.

Il principio di offensività troverebbe il suo fondamento nella Costituzione, che ha costruito una nozione di reato come illecito tipico, comprensiva fra l'altro del requisito dell'offesa del bene tutelato. Sì che la categoria del bene giuridico si porrebbe quale limite all'arbitrio del legislatore, restringendo la cerchia dei fatti meritevoli di trattamento penale soltanto a quelli effettivamente dannosi per la convivenza sociale.

La costituzionalizzazione del principio nullum crimen sine iniuria verrebbe desunta dal principio generale della libertà personale, sancito nell'art. 13 della Costituzione, e potrebbe essere limitata dalla sanzione penale solo quando ricorra l'esigenza di tutelare un altro interesse di rango costituzionale (l'integrità fisica, la proprietà, ecc.). Ma la costituzionalizzazione - postulando entrambi gli articoli una distinzione ontologica dei fatti - si ricaverebbe altresì dall'art. 25, ove si fa uso del termine "fatto" in senso materia le, e dall'art. 27, ove si distingue fra la pena e la misura di sicurezza.

1.2. -- La fattispecie incriminatrice denunciata consisterebbe in un comportamento non lesivo (e non pericoloso) per gli interessi meritevoli di tutela penale, in tal modo enucleando, però, una figura tipica del diritto penale sintomatico o preventivo, che e' limite estremo al diritto penale. E ciò non tanto perchè sarebbe violato il principio di materialità (non essendo tale figura priva di una condotta esteriore e non colpendo, perciò, un mero stato personale o una semplice intenzione), quanto perchè la condotta verrebbe punita in se', come indizio della commissione d'un illecito qualora esso risulti in connessione con determinate condizioni personali dell'agente. In mancanza di prova per fatti criminosi ipotetici, non ancora compiuti, l'imputato verrebbe punito per l'eventuale intenzione di commetterli (anche se, nella specie, avesse voluto ad esempio servirsi del cacciavite sequestrato per riparare un ciclomotore). Di qui, l'opportunità - sottolineata dal giudice a quo - d'un riesame del reato di pericolo presunto, alla luce del principio di offensività, giacche' questo tipo di reato si giustificherebbe soltanto in una visione formalistica volta a sanzionare la violazione del dovere di obbedienza delle norme statali.

1.3. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.

Il reato di cui all'art. 707 del codice penale avrebbe, ad avviso dell'Avvocatura, una funzione finalistica di prevenzione, essendo teso a evitare la commissione di delitti contro il patrimonio. Un reato di pericolo, senza dubbio, che parte della dottrina ricomprende, però, nella categoria dei reati di pericolo relativamente presunto, nei quali il legislatore presumerebbe iuris et de iure la messa in pericolo del bene giuridico protetto, ammettendo nel contempo l'imputato a provare, in concreto, l'inesistenza del pericolo.

2. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Ferraresi Bruno, già condannato per il reato di emissione di assegno senza provvista e colto in possesso di valuta angolana (477.500 kwansaz, pari a un controvalore di circa 27.000 lire, all'epoca del fatto, e di circa 1200 lire, al momento del giudizio), imputato pertanto della contravvenzione di cui all'art. 708 del codice penale, il Pretore di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del predetto articolo.

Il giudice a quo premette che questo tipo di incriminazione - classificabile nell'ambito dei cosiddetti reati di sospetto - era presente nella legislazione degli Stati preunitari, con la finalità di rafforzare l'attività di polizia, e sarebbe stato di recente rivitalizzato per un breve periodo dalla previsione dell'art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, e dichiarato costituzionalmente illegittimo da questa Corte con la sentenza n.48 del 1994.

2.1. -- Osserva il rimettente che tale figura non può essere censurata sotto il profilo della mancanza d'una qualsivoglia condotta - nonostante l'opinione della prevalente dottrina e malgrado alcuni precedenti giurisprudenziali - riflettendo il reato una condotta addirittura complessa, perchè comprensiva sia dell'atto di acquisizione delle cose sia del loro consapevole possesso. Dubbi di costituzionalità si dovrebbero invece appuntare, con maggior fondamento, sull'oggetto del possesso. Se, infatti, il "denaro" e gli "oggetti di valore" sembrano rinviare a dati oggettivi, naturalistici, tali da soddisfare il principio di tassatività della fattispecie penale, le "cose" - parimenti ivi contemplate - paleserebbero un difetto assoluto di tassatività di questa parte della norma. Sotto siffatto aspetto la disposizione denunciata contrasterebbe con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione (e con l'art. 3 per i motivi già esaminati nella sentenza n. 110 del 1968 che dichiarò la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 708 del codice penale). Il riferimento generico alle "cose" comporterebbe invero la necessità, per il giudice, d'una valutazione relazionale con lo "stato" del soggetto, amplificando la portata incriminatrice della norma, fino a incentrarla in modo esclusivo e irragionevole sullo stato sociale (attuale) del soggetto in precedenza condannato.

La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, essendosi il pubblico ministero riferito al possesso della valuta angolana, non confacente a suo avviso allo stato di indigenza dell'imputato derivante dalla disoccupazione; e ciò come se si trattasse di "cose" e non d'una "somma di denaro".

2.2. -- L'art. 708 del codice penale contrasterebbe altresì con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per violazione del principio sostanziale (e processuale) secondo cui nemo tenetur se detegere.

Seguendo l'orientamento giurisprudenziale in ordine alla giustificazione richiesta dalla disposizione denunciata - l'attendibile e circostanziata spiegazione del possesso di valori - si obbligherebbe di fatto l'accusato a fornire all'autorità giudiziaria la notizia della commissione di un altro reato, pur di essere scagionato da quell'accusa.

Ogni qual volta la provenienza di cose, oggetti di valore e danaro sia illecita, la persona sottoposta a controllo potrà infatti evita re di rispondere della contravvenzione di cui all'articolo 708, dichiarando l'avvenuta commissione (da parte propria o di altri) di un diverso reato;

quanto al momento temporale, la portata del principio costituzionale del diritto di difesa non potrebbe essere confinato alla fase processuale del giudizio.

La disposizione censurata violerebbe infine l'art. 3 della Costituzione, perchè creerebbe un irragionevole obbligo di denuncia - sanzionato in via indiretta - in capo al soggetto colto in possesso di valori.

2.3. -- L'articolo in esame dovrebbe, in subordine, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, ancora in riferimento all'art. 3, per l'eccessività - così conclude l'ordinanza - della pena edittale minima prevista.

Pur a conoscenza dell'indirizzo della giurisprudenza costituzionale in senso preclusivo circa la possibilità d'intervenire sulla qualità e misura della pena, il giudice a quo richiama la sentenza n. 49 del 1989 (di parziale fondatezza) che concerne altro reato di sospetto, e la contrappone al precedente specifico costituito dall'ordinanza n. 270 del 1984.

L'irragionevolezza del trattamento minimo stabilito nella disposizione denunciata si manifesterebbe con riguardo al diverso regime edittale riservato ad alcuni delitti contro il patrimonio, rispetto ai quali la contravvenzione al presente vaglio di legittimità costituzionale costituirebbe un minus (il furto e altre figure criminose, la cui punibilità sarebbe, in concreto, opportunamente modulabile sia attraverso il giudizio di valenza delle circostanze, sia attraverso gli spazi attribuiti alla discrezionale qualificazione del fatto, come é nel caso della ricettazione di particolare tenuità).

2.4. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per la non fondatezza di entrambe le questioni sollevate dal Pretore di Varese, la prima delle quali appare identica a quella decisa con la sentenza n. 464 del 1992.

3. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Leone Marco Luciano, imputato del reato di cui all'art. 707 del codice penale, nonchè nel corso di altri cinque procedimenti penali relativi alla stessa ipotesi criminosa, il Pretore di Milano ha sollevato con altrettante ordinanze, riferite tutte agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, identica questione di legittimità costituzionale del citato articolo, nella parte in cui prevede il minimo edittale di sei mesi di reclusione (recte: di arresto), anzichè di cinque giorni, stabilito dall'art. 25 dello stesso codice.

Osserva il Pretore che la pena minima prevista dalla disposizione di cui dubita determinerebbe conseguenze risolvibili soltanto in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale.

Con una previsione generale, valida qualora specificamente non derogata, l'art. 25 del codice penale stabilisce infatti che la pena dell'arresto ha una soglia minima di cinque giorni; e l'art. 708, che ha in comune con la incriminazione de qua il presupposto soggettivo, statuisce che il minimo non superi la pena di tre mesi di arresto. Infine, il furto semplice viene punito con un minimo di quindici giorni di pena detentiva che finisce per essere applicabile, attraverso il giudizio di equivalenza fra le circostanze di reato, anche quando sia stato ipotizzato un furto aggravato ai sensi dell'art. 625 dello stesso codice. Ne conseguirebbe un trattamento sicuramente deteriore per coloro che pongono in essere quei semplici atti preparatori, in se' non punibili, ma sottoposti a sanzione dall'art. 707 in considerazione dei soli precedenti penali dell'imputato, e si tratterebbe, certo, di una sanzione detentiva assai più severa di quella che e' normalmente irrogabile nel caso dell'esecuzione di un furto semplice (quand'anche sia commesso mediante l'uso di piccole pinze, o strumenti analoghi, o con l'asportazione della piastra magnetica applicata agli oggetti esposti sui banchi dei grandi magazzini).

Il possesso anche di un unico attrezzo (cacciavite, forbici, chiave inglese), che in se' non sarebbe significativo di alcuna particolare pericolosità del soggetto, oltre a essere sottoposto a una sanzione sproporzionata vanificherebbe la finalità rieducativa della pena. Di contro a quanto questa Corte ha affermato con la sentenza n. 341 del 1994, riferendo l'art. 27, terzo comma, della Costituzione pure alla fase cognitiva del processo e sostenendo che <il principio di proporzionalità nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni o valori offesi dalle predette incriminazioni>.

3.1. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'inammissibilità - in considerazione della discrezionalità del legislatore con riguardo alla politica di prevenzione dei reati - o, in subordine, per l'infondatezza della questione.

Nella specie, comunque, la condotta sanzionata dall'art.707 del codice penale avrebbe una potenzialità plurioffensiva rispetto a quella dell'art. 708; ne' la predetta ipotesi potrebbe essere comparata con quella del furto semplice, in quanto il legislatore avrebbe valutato la maggiore pericolosità della detenzione di un grimaldello da parte d'un pregiudicato rispetto al danno criminale derivante dal furto semplice. E ciò anche a voler tralasciare la diversità fra i due tipi di pena (reclusione e arresto) fra loro non comparabili.

Considerato in diritto

1. -- Il Tribunale dei minorenni dell'Aquila, il Pretore di Varese e il Pretore di Milano ripropongono alcune questioni di legittimità costituzionale concernenti i cosiddetti "reati di sospetto", come la dottrina cataloga le previsioni di cui agli artt. 707 e 708 del codice penale. In particolare questa Corte e' chiamata a valutare: 1) se l'art. 707 del codice penale contrasti con il principio nullum crimen sine iniuria, a dire del giudice a quo costituzionalizzato dagli artt. 25, 27 e 3 (quest'ultimo in relazione all'art. 13) della Costituzione, perchè attraverso di esso, secondo una visione formalistica del reato, costituirebbe illecito penale anche la violazione del dovere di obbedienza alla norme statali, pure in mancanza di un pericolo concreto (come per tutte le figure di reato di pericolo presunto);

2) se l'art. 708 del codice penale sia costituzionalmente illegittimo, in quanto:

a) violerebbe il principio di tassatività delle norme penali contenuto nell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, poichè il riferimento alla nozione generica di "cose" di valore costringe il giudice a motivare sul carattere di esse;

b) contrasterebbe con l'art. 3 per la traslazione della portata incriminatrice della norma, incentrata in via esclusiva (e, perciò, irragionevolmente) sullo stato sociale, attuale, del soggetto in precedenza condannato;

c) lederebbe il principio per cui nemo tenetur se detegere, enucleabile dall'art. 24, secondo comma, giacche' impone indirettamente a chi abbia commesso un altro reato di assumerne la responsabilità o di indicare il responsabile al fine di sottrarsi all'accusa mossagli, in tal modo costruendo un irragionevole obbligo alla confessione, o alla denuncia dell'autore del fatto, per il soggetto colto in possesso "non giustificato" di un valore (irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione);

3) se l'art. 708 del codice penale, nel prevedere una pena edittale minima di tre mesi di arresto, sia costituzionalmente illegittimo, perchè in tal modo verrebbe paradossalmente riservato al reo di alcuni gravi delitti contro il patrimonio un trattamento in concreto più favorevole rispetto a questa contravvenzione, grazie alla possibilità d'un giudizio di valenza delle circostanze (ad esempio nel furto aggravato) o in ipotesi di reati affini, ma meno gravi come la ricettazione di particolare tenuità, per effetto della qualificazione del fatto nella sentenza;

4) se l'art. 707 del codice penale, nella parte in cui stabilisce il minimo edittale di sei mesi di arresto, anzichè quello di cinque giorni previsto dall'art. 25 del codice penale, violi i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena con riguardo, come tertium comparationis, alla previsione generale del citato art.25, a quella particolare dell'art. 708 del codice penale (in base al presupposto soggettivo comune) e alla previsione degli artt. 624 (furto semplice, nel cui ambito la giurisprudenza include l'ipotesi di furto nei grandi magazzini con l'asportazione della piastra magnetica) e 625 (furto aggravato, nell'ipotesi in cui il giudicante ravvisi le attenuanti generiche).

1.1. -- Sono dunque al vaglio di legittimità costituzionale quattro distinte questioni sulle menzionate figure dei reati di sospetto: due attengono alla struttura dei reati, e due al trattamento sanzionatorio minimo che si assume irrazionale rispetto alla tavola degli altri valori penalistici.

Conviene quindi che i relativi giudizi siano riuniti; e pare opportuno, per comodità espositiva, che si muova dall'esame della questione concernente la struttura del reato di possesso ingiustificato di valori (art. 708 del codice penale).

2. -- La questione e' fondata.

La contravvenzione del possesso ingiustificato di valori venne introdotta nella moderna legislazione penalistica dal codice napoleonico del 1810 per colpire (o almeno arginare) la piaga della mendicità, come é desumibile dall'art. 378, che si cita nell'edizione ufficiale per il Regno d'Italia in vigore dal 1° gennaio 1811: <Ogni mendicante o vagabondo a cui saranno trovati indosso uno o più oggetti di un valore che ecceda le lire cento, e che non ne giustificherà la provenienza, sarà punito>, ai sensi dell'art. 276, <con detenzione da sei mesi a due anni>.

La norma non costituiva invero una novità assoluta, dal momento che in altre forme si era già fatto impiego, nelle legislazioni preunitarie, di analoghi schemi punitivi per coloro che fossero colti nel possesso di valori anche "rurali", segnatamente i prodotti della terra, secondo una disposizione rinvenibile nella codificazione dello Stato pontificio.

Ispirandosi al modello francese - con la significativa dissonanza del codice per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820 - quasi tutte le codificazioni successive adottarono la statuizione incriminatrice. L'acquisì il codice albertino del 1839, allargando però il novero dei soggetti attivi in un ambito più composito, quello delle "persone sospette", tanto da ricomprendere, agli artt. 460 e 462, gli oziosi, i vagabondi, i mendicanti validi, i sorvegliati speciali, gli stranieri clandestini, i diffamati per crimini o per delitti, e singolarmente per grassazioni, estorsioni, furti e truffe.

Essa e' stata quindi recepita nell'art. 708 del codice vigente, e prima negli artt. 449 del codice penale del Regno sardo del 1859 (poi esteso al Regno d'Italia) e 492 del codice Zanardelli, intitolato <Del possesso ingiustificato di oggetti e valori>, ma caratterizzato da sanzioni meno severe, quale l'arresto di soli due mesi.

Le legislazioni penali europee - compresa la Francia che si e' di recente uniformata con il nuovo codice adottato mediante quattro leggi del 22 luglio 1992 - hanno eliminato il reato del <possesso ingiustificato di valori>, mentre hanno conservato, in varia guisa, la disciplina del possesso di grimaldelli, chiavi false e oggetti simili. E in una prospettiva adeguatrice ai principi della Costituzione, questa Corte dichiarò significativamente, con la sentenza n. 110 del 1968, l'illegittimità costituzionale dell'art. 708 del codice penale, limitatamente però <alla parte in cui fa richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta> (decisione poi ripetuta, con la sentenza n. 16 del 1971, anche per la figura del reato di cui all'art. 707), così depurando la norma incriminatrice da tutte quelle categorie di soggetti nei cui confronti il "sospetto" si sarebbe potuto dire ingiustificato.

2.1. -- Il ragionamento svolto nelle due decisioni menzionate va ora sviluppato e portato a compimento.

E' oggi visibile nella società un nuovo dato, ch'era in passato più difficile da cogliere: l'esistenza di preoccupanti fenomeni di arricchimento personale ottenuto mediante vie illecite e occulte. Di fronte a queste tendenze degenerative della vita economica e civile, la previsione incriminatrice contenuta nell'art. 708 del codice penale e' una ipotesi assolutamente marginale e ormai irragionevole nella sua esclusiva riferibilità a coloro che sono pregiudicati <per delitti determinati da motivi di lucro e per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio>. La crescita della ricchezza mobiliare, la sua circolazione in ambito internazionale e l'uso dello schermo societario per il suo controllo rendono infatti questo strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della criminalità, non più rapportabile, necessariamente, a uno "stato" o a una "condizione personale". Irragionevole e', dunque, la discriminazione nei confronti d'una categoria di soggetti composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio (a volte assai risalenti nel tempo) che siano colti in possesso di <denaro o di oggetti di valore o di altre cose non confacenti al [loro] stato>. Riferimento, questo, che si palesa indeterminato per la genericità del disposto normativo e non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall'osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni. Ed e' evidente che i danni all'economia e alla convivenza civile provengono da persone che - svolgendo professionalmente attività legate alla circolazione della ricchezza mobiliare o a questa prossime - hanno modo di eludere, anche per lunghi periodi di tempo, i controlli legali.

Di tali mutamenti si e' peraltro reso conto pure il legislatore, che ha introdotto nell'ordinamento giuridico (con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356) una nuova figura di reato con cui si puniva la disponibilità di beni di valore sproporzionato al reddito o alla propria attività economica. Ma modellando la previsione sulla falsariga dell'art. 708 del codice penale ha finito per travalicarlo, poichè ha esteso la categoria dei "sospetti" ai semplici indagati di alcuni e più gravi reati, violando il principio della presunzione di non colpevolezza affermato nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione. Sì che questa Corte ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, sostenendo che <il fatto penalmente rilevante deve essere tale a prescindere dalla circostanza che il suo autore sia o meno indagato o imputato>, perchè siffatte <condizioni, instabili come ogni status processuale, non legittimano alcun apprezzamento in termini di disvalore> (sentenza n. 48 del 1994). In ciò ravvisando una significativa differenza strutturale rispetto alla sua matrice contravvenzionale, individuata appunto nell'art. 708.

2.2. -- Con le decisioni menzionate, la Corte doveva spiegare come mai il possesso di valori mobiliari o la mera detenzione di chiavi fossero da ritenere condotte lecite - se poste in essere da alcune persone - mentre integrassero condotte punibili, per se stesse considerate, ove realizzate da altre. Si trattava di un dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 25 della Costituzione, che penetrava fin dentro alla conformazione tipica della figura di reato;

dubbio che la Corte sciolse affermando che l'indicazione precisa del fatto punibile risiedeva proprio nella <possibilità di dare una soddisfacente spiegazione del possesso di un valore non confacente alle abituali condizioni di vita> del sospettato. Ma in tal modo non si eliminò dalla fattispecie quella condizione sociale abituale che non e' certo più concepibile in un orizzonte storico diverso da quello originario. Essa era indispensabile per separare i fatti di possesso punibili da quelli leciti, che si sottraggono a ogni forma di controllo.

E ciò in quanto si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti all'accertamento dell'azione delittuosa del responsabile del reato contro il patrimonio, utilizzando un surrogato contravvenzionale, tipizzato attraverso la riferibilità del fatto, di per se' neutro, a un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali.

Tale deficit di tassatività conferma l'irragionevolezza della limitazione delle condizioni soggettive punibili a una sola categoria di persone. La disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima, perchè viola gli artt. 3 e 25 della Costituzione, restando assorbito l'ulteriore profilo denunciato.

3. -- La previsione dell'art. 707 del codice penale conosce una storia solo parzialmente analoga.

Parimenti trasmessa alle moderne codificazioni dall'archetipo costituito dall'art. 277 del codice napoleonico nell'ambito delle medesime categorie di "devianti" (ma con la più severa sanzione della detenzione da due a cinque anni), recepito nell'attuale disposizione attraverso gli artt. 461 del codice albertino del 1839 (con una pena massima di tre anni), 448 del codice penale del Regno sardo del 1859 e 492, secondo comma, del codice Zanardelli (ove la pena detentiva massima non superava i sei mesi di arresto), non risulta affatto abbandonato dalla legislazione europea vigente, compresa quella britannica (Thaft Act del 26 luglio 1968).

3.1. -- La questione non e' fondata.

La determinazione del fatto-reato circa questa ipotesi criminosa e' data infatti dalla tipologia stessa degli oggetti detenuti (le <chiavi alterate o contraffatte>, le <chiavi genuine>, gli <strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature>) in ordine ai quali e' pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale destinazione. Ciò, ovviamente, se ben s'intende sia il riferimento agli strumenti atti allo scasso (in relazione alle caratteristiche medie delle serrature o delle difese adottate), sia il presupposto soggettivo con riguardo ad altra commissione di fatti specifici.

4. -- Delle residue questioni, quella concernente il trattamento edittale minimo dell'art. 708 del codice penale e' superata per la sopravvenuta illegittimità costituzionale della disposizione. L'altra, quella relativa all'art. 707, va dichiarata infondata, rientrando nella discrezionalità del legislatore la determinazione delle quantità e qualità della sanzione, purchè si osservi il limite della ragionevolezza. Che non e' violato nel caso di specie, considerando la diversità delle situazioni comparate e, particolarmente, il riferimento a ipotesi di reato distanti dalla contravvenzione esaminata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.708 del codice penale;

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale, sollevate, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni dell'Aquila, e agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Pretore di Milano con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 02/11/96.