Ordinanza n. 367 del 1996

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ORDINANZA N. 367

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 299 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 30 ottobre 1995 dal Tribunale di Roma sull'istanza proposta da Sapienza Giuseppe, iscritta al n.25 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 2 ottobre 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che Giuseppe Sapienza veniva condannato dalla Corte di assise di Latina, con sentenza del 27 ottobre 1993, alla pena di anni 23 di reclusione per i reati di omicidio aggravato, di occultamento di cadavere aggravato, di furto di un'autovettura e di una carta di identità, reati tutti unificati dal vincolo della continuazione, e che la detta statuizione veniva confermata, per i capi penali, dalla Corte di assise di appello di Roma con sentenza del 10 marzo 1995;

che contro tale sentenza l'imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo difetto di motivazione in ordine sia al giudizio di equivalenza tra le concesse circostanze attenuanti generiche e la circostanza aggravante della premeditazione, sia alla mancata concessione dell'attenuante del risarcimento del danno;

che la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere ovvero di sostituzione di tale misura con gli arresti domiciliari proposta dall'imputato veniva disattesa dalla Corte di assise di appello con ordinanza dell'11 settembre 1995;

che avverso il detto provvedimento l'imputato proponeva appello davanti al Tribunale della libertà di Roma;

che, con ordinanza del 30 ottobre 1995, il Tribunale ha denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, l'art.299 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede "che l'imputato di delitto per cui sia preveduta pena edittale minima non inferiore alla durata della custodia cautelare sofferta, nei confronti del quale si sia già formato il giudicato sulla colpevolezza possa chiedere e che il giudice adito, anche in sede di appello proposto ai sensi dell'art. 310 c.p.p., debba disporre, la revoca o la sostituzione della misura di custodia cautelare per l'accertata carenza o attenuazione delle esigenze prevedute dall'art. 274 c.p.p.";

che, dopo un articolato argomentare circa il "principio di giurisdizionalità" e quello della "presunzione di non colpevolezza", il giudice a quo individua nell'istituto della revoca delle misure cautelari l'esito di un accertamento sulla illegittimità della privazione della libertà personale, un accertamento che resterebbe precluso, per la parte concernente la gravità degli indizi di colpevolezza nel caso di pronuncia di una sentenza di condanna; un principio che comporta la possibilità di revoca della misura dopo la pronuncia di tale tipo di decisione solo con riferimento alle esigenze cautelari;

che, però, nei casi in cui "la pena edittale minima statuita secondo le regole del codice sostanziale e' superiore al tempo di custodia cautelare sofferto", diverrebbe irrazionale, oltre che contrastante con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, consentire all'imputato "di attivare il procedimento di revoca o di sostituzione della misura custodiale in carcere impostagli anche quando il giudizio di colpevolezza fissato nei due gradi di cognizione sia divenuto intangibile per essersi formato il giudicato sulla colpa";

che, nel caso di specie, considerato il devolutum risultante dal ricorso per cassazione, pur ipotizzando l'esito favorevole di tale ricorso, la pena irrogabile all'imputato non potrà essere inferiore ad anni cinque e mesi tre di reclusione, senza computare l'aumento per la continuazione anch'esso derivante da statuizione divenuta definitiva;

che di conseguenza la possibilità di revocare la misura cautelare della custodia in carcere comprometterebbe l'osservanza del principio di eguaglianza, per l'irragionevole equiparazione, ai fini della revoca o della sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere, della posizione dell'imputato per il quale non sia stata ancora pronunciata sentenza definitiva sulla responsabilità a quella del soggetto relativamente al quale, essendo la decisione ormai passata in cosa giudicata in ordine alla responsabilità, il ruolo di imputato rimane circoscritto alla sola entità della pena: situazioni da ritenere - secondo il giudice a quo - tra loro assolutamente differenziate perchè, mentre nel primo caso e' invocabile "la garanzia processuale della presunzione di innocenza o di non colpevolezza", nel secondo caso la detta garanzia non e' invocabile, "per essersi raggiunta la prova contraria che giustifica il giudizio di colpa";

che, in punto di rilevanza, il rimettente osserva che l'appello dovrebbe trovare accoglimento per essere il provvedimento reiettivo della revoca fondato sulle esigenze cautelari del pericolo di fuga e di reiterazione di delitti della stessa specie, esigenze ormai non più esistenti;

che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

che, più in particolare, secondo l'atto di intervento, la premessa interpretativa da cui muove il giudice a quo, quella cioé incentrata sulla formazione "progressiva" del giudicato per effetto della mancata impugnazione della sentenza di condanna sul capo relativo all'affermazione di responsabilità, e' da ritenere un dato fortemente contrastato tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, risultando, anzi, prevalente l'indirizzo ermeneutico secondo cui, alla stregua dell'art.624, comma 1, del codice di procedura penale, il giudicato parziale si forma soltanto sui "capi" e non pure sui "punti" della decisione;

che, dunque, poichè l'affermazione di responsabilità, ancora sub iudice con riferimento all'entità della sanzione, costituisce soltanto un "punto" all'interno di un singolo "capo" della sentenza, non si sarebbe ancora formato il giudicato dovendo definirsi la situazione prospettata come di mera preclusione;

che, al di là dei motivi di impugnazione, il giudice del gravame e' sempre tenuto a dichiarare - anche d'ufficio - l'esistenza delle condizioni previste dall'art. 129 del codice di procedura penale, così ulteriormente comprovandosi la natura "non definitiva" della condanna.

CONSIDERATO in primo luogo che - pure a prescindere dalla distinzione, ampiamente argomentata dall'Avvocatura generale dello Stato tra giudicato e preclusione - con l'espressione giudicato la legge non intende, certo, riferirsi all'intrinseca idoneità della decisione ad essere posta in esecuzione, cosicchè la premessa da cui muove il giudice a quo circa il calcolo della pena ai fini della verifica in ordine alla possibilità di cessazione dello status custodiae si rivela non correttamente enunciata, perchè solo nel caso in cui la parte di sentenza non impugnata dovesse essere eseguita prima dell'esame del ricorso da parte della Corte di cassazione potrebbe prospettarsi - ma solo astrattamente - l'esigenza di non compromettere l'esecuzione della sentenza;

che, peraltro, non appare rigorosamente richiamato l'istituto del giudicato parziale di cui all'art. 624 del codice di procedura penale, strettamente collegato all'esercizio del potere di annullamento da parte della Corte di cassazione ed ai conseguenti limiti del giudizio di rinvio, quale diretta ed ineludibile conseguenza dell'irrevocabilità della pronuncia in relazione alle parti non annullate ed a queste non necessariamente connesse;

che, d'altro canto, attesa la fase processuale considerata, la norma cui occorre fare riferimento non e' l'art. 624 del codice di procedura penale, ma l'art. 597, comma 1, dello stesso codice, in quanto, come e' ius receptum nella giurisprudenza di legittimità, pure trascurando il rilievo che la nozione di "punto" non corrisponde alla nozione di "capo" inteso quale sinonimo di "parte", quel che rileva ai fini del giudicato parziale e' che la parte di sentenza abbia acquistato definitività a seguito dell'integrale percorso dell'iter processuale consentito dall'ordinamento e concluso con la definitiva pronuncia della Corte di cassazione; il che risulta dal fatto che il codice del 1988 (non diversamente dal codice abrogato) ha utilizzato l'espressione "autorità di cosa giudicata" rispetto ad una vicenda ancora sub iudice (art. 624 del nuovo codice di procedura penale; art. 545 del codice del 1930) solo in relazione alle parti della sentenza vagliate e non annullate dalla Corte di cassazione;

che, dunque, all'infuori del giudizio di rinvio, vale il principio, più volte espresso nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui "non si e' in presenza di una condanna allorchè e' stata accertata soltanto la responsabilità dell'imputato, ma non e' ancora stata applicata la pena relativa";

che, pertanto, risultando non corretto il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 299 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 30/10/96.