Sentenza n. 355 del 1996

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SENTENZA N. 355

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Enzo CHELI, Presidente

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e torbiere della Regione Lazio), promosso con ordinanza emessa il 28 giugno 1995 dal Pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Piero Mantoni ed altro, iscritta al n.602 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.41, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Udito nella camera di consiglio del 29 maggio 1996 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

Nel corso del procedimento penale nei confronti di due persone imputate, tra l'altro, della contravvenzione di cui agli artt. 110 del codice penale e 1-sexies del decreto-legge 25 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto 1985, n. 431, per avere intrapreso e condotto un'attività di cava in un territorio sottoposto a vincolo paesaggistico, ai sensi della legge n. 431 del 1985, in quanto zona dichiarata di notevole interesse pubblico e ricompresa nel comprensorio della Valle del Tevere, il Pretore di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e torbiere della Regione Lazio).

Tale legge, nel dettare una nuova disciplina dell'attività di coltivazione delle cave, prevede un regime transitorio per le attività di cava in corso al momento della entrata in vigore della legge stessa, e stabilisce, all'art. 39, comma 4, che in presenza di vincoli ambientali imposti successivamente al legittimo inizio della attività estrattiva, i lavori di coltivazione possano proseguire, restando, però, a carico dell'esercente l'onere di presentare entro novanta giorni, all'autorità competente in materia di tutela ambientale, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale.

Per l'ipotesi di mancato rilascio del nulla-osta dell'autorità competente entro centottanta giorni dalla richiesta, il comma 5 dello stesso articolo prevede che i lavori di coltivazione delle cave debbano cessare e che l'interessato sia tenuto alla sistemazione dell'area.

Il giudice a quo, quanto alla rilevanza della questione, afferma di dover dare applicazione alle disposizioni ora indicate, sia perchè l'attività di cavazione dovrebbe ritenersi, nella specie, legittimamente iniziata prima della imposizione del vincolo paesaggistico, avvenuta attraverso l'inserimento dell'area interessata nel comprensorio della Valle del Tevere, sia perchè sarebbe stata tempestivamente proposta l'istanza di cui al comma 4 del citato art. 39, sulla quale la Regione si e' poi riservata di provvedere, in attesa del parere della commissione regionale consultiva, ritenendo comunque sospeso il termine di centottanta giorni previsto dall'art.39, comma 5. Dall'applicazione di tali disposizioni, ad avviso del giudice remittente, discenderebbe la liceità della prosecuzione dell'attività e risulterebbe preclusa qualsiasi valutazione di compromissione ambientale, in contrasto con l'interpretazione delle sezioni unite della Corte di cassazione, secondo la quale, viceversa, spetterebbe al giudice accertare, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 1-sexies, se sia o meno già avvenuta una compromissione dell'ambiente e si sia già verificato un danno ambientale.

Ne' la rilevanza della questione potrebbe ritenersi esclusa sulla base del rilievo che sulla istanza presentata dall'imputato non sia ancora intervenuto un provvedimento della Regione; un provvedimento di diniego renderebbe illecita la prosecuzione dei lavori de futuro, ma non anche dei lavori pregressi, dei quali si controverte, che risulterebbero dalla norma stessa retroattivamente autorizzati e quindi resi leciti.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che le disposizioni impugnate, proprio perchè renderebbero lecite condotte sanzionate penalmente dalla legislazione statale, si porrebbero in contrasto con la previsione generale di cui agli artt. 117 e 25, secondo comma, della Costituzione, per i quali solo lo Stato può legiferare in materia penale.

Considerato in diritto

1.-- Il Pretore di Roma dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, dell'art. 39 della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e delle torbiere della Regione Lazio), il quale prevede che, in presenza di vincoli ambientali imposti successiva mente al legittimo inizio dell'attività estrattiva, i lavori di coltivazione proseguano, restando a carico dell'interessato l'onere di presentare all'autorità competente alla gestione del vincolo, entro il termine di novanta giorni dall'entrata in vigore della legge, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale (comma 4), e che, solo in caso di mancato rilascio del nulla-osta entro centottanta giorni dalla richiesta, i lavori cessino e l'interessato provveda alla sistemazione dell'area (comma 5).

Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate, in quanto riferibili a vincoli paesaggistici imposti prima della loro entrata in vigore, sarebbero lesive degli artt. 25 e 117 della Costituzione, poichè renderebbero lecita per il passato un'attività sanzionata penalmente dalla legge dello Stato (art. 1-sexies del d.l.25 giugno 1985, n. 312, aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto 1985, n. 431).

2.-- La questione e' infondata, perchè muove da premesse interpretative che non possono essere a pieno condivise.

L'ordinanza di rimessione si basa, in punto di diritto, sulla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 7 marzo 1992, Midolini, il cui contenuto viene inteso nel senso che, in relazione ad attività di coltivazione di cava legittimamente iniziata prima della entrata in vigore della legge n. 431 del 1985, o comunque prima della imposizione di un vincolo paesaggistico, e proseguita successivamente, il giudice dovrebbe accertare, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 1-sexies del d.l. 25 giugno 1985, n. 312, aggiunto dalla legge n. 431 del 1985, se vi sia stata o meno compromissione ambientale. Da una simile premessa l'ordinanza trae la conseguenza che la legge regionale, consentendo la prosecuzione dell'attività estrattiva fino al completamento del complesso procedimento in essa previsto, violerebbe la riserva statale in materia penale, poichè precluderebbe al giudice la valutazione che la legge gli affida.

Come si e' detto, però, tali interpretazioni della sentenza delle sezioni unite e della legge regionale, date dal giudice a quo, non appaiono esatte.

La Corte di cassazione, nella sentenza del 7 marzo 1992, nell'affrontare il problema derivante dalla assenza di una disciplina transitoria per l'ipotesi di vincoli paesaggistici sopravvenuti al legittimo inizio di attività di cavazione, lo ha risolto sulla base della netta distinzione tra lavori autorizzati ma non ancora iniziati e lavori autorizzati e già iniziati. In relazione ai primi, l'imposizione del vincolo preclude la possibilità di dare inizio all'attività prima di una specifica autorizzazione proveniente dall'autorità preposta alla tutela del paesaggio; in relazione ai secondi, il sopravvenire del vincolo non determina, ipso iure, ne' la caducazione del provvedimento autorizzatorio già assentito, ne' l'illiceità della prosecuzione dell'attività di cavazione. In tali casi, infatti, la valutazione se la prosecuzione dei lavori legittimamente iniziati possa determinare l'aggravarsi di un danno ambientale non può che essere rimessa alla pubblica amministrazione, che e' dotata dei poteri di sospensione dei lavori e di revoca delle autorizzazioni.

Secondo la sentenza richiamata dal giudice a quo, discernere se l'attività già compiuta al sopravvenire del vincolo abbia determinato un pregiudizio irreversibile del bene protetto, ovvero se questo possa subire danni ulteriori, non e' compito che si addica al giudice, in considerazione della molteplicità degli interessi coinvolti e della esigenza di certezza, particolarmente stringente in materia penale.

Ed in effetti, il compito del giudice penale deve essere limitato all'accertamento, ancorato ad un parametro preciso ed oggettivo, se, nel momento in cui il vincolo paesaggistico e' entrato in vigore, vi sia già stata una reale e rilevante modificazione dell'ambiente. L'ulteriore valutazione della incidenza della prosecuzione dei lavori di cavazione sul paesaggio e la scelta degli strumenti più appropriati di salvaguardia oltrepassa la competenza del giudice penale ed investe appieno i poteri e i doveri di ponderazione propri dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo ambientale.

L'anzidetto criterio di ripartizione delle competenze tra giudice penale e pubblica amministrazione, appare a questa Corte ragionevole, pur nella consapevolezza dell'esistenza di indirizzi giurisprudenziali differenziati.

Si versa, infatti, in una materia in cui la già avvenuta alterazione dell'ambiente nel legittimo esercizio di un'attività produttiva, richiede, proprio al fine di una migliore tutela dell'ambiente stesso, strumenti di intervento flessibili ed adeguati (quali ad esempio la temporanea sospensione dei lavori, ovvero l'adozione di prescrizioni puntuali tese ad alleviare l'impatto delle opere, ovvero ancora la revoca immediata nei casi in cui appaia più manifesto l'aggravarsi del danno all'ambiente), dei quali il giudice penale non dispone.

Peraltro, affinchè tale riparto di compiti e funzioni risulti equilibrato e conforme all'assetto dell'insieme dei valori costituzionali coinvolti (certezza delle fattispecie incriminatrici, contenimento della discrezionalità del giudice penale in presenza di valutazioni complesse, ma anche tutela efficace del paesaggio e dell'ambiente a fronte di un legittimo esercizio di attività economiche), la pubblica amministrazione e' costituzionalmente vincolata, al di là della disciplina posta dalle leggi che regolano in via generale i procedimenti di controllo, ad impiegare con prontezza e sollecitudine tutti gli strumenti repressivi e di salvaguardia dei quali dispone, quando se ne ravvisi la necessità (v., ad esempio, art. 8 della legge n. 1497 del 1939).

3.-- La legge regionale, di cui si controverte, innova -- occorre sottolinearlo -- una precedente legge della stessa Regione, che già prevedeva, ai fini dell'autorizzazione dell'attività di cavazione, uno scrutinio, da parte dell'amministrazione, circa l'impatto ambientale e paesaggistico di tale attività (legge reg.16 gennaio 1980, n. 1, Norme per la coltivazione di cave e torbiere nella Regione Lazio).

L'impugnato art. 39 della legge regionale n. 27 del 1993, nel regolamentare, nell'ambito di una disciplina complessiva della coltivazione delle cave, un procedimento finalizzato all'adozione di un eventuale provvedimento di revoca, per il caso che un vincolo ambientale sia stato imposto successivamente al legittimo inizio dell'attività (provvedimento che può intervenire anche nelle forme del silenzio-diniego, trascorsi centottanta giorni dalla presentazione della domanda da parte dell'interessato), altro non fa se non organizzare il doveroso esercizio delle competenze della Regione nella materia interessata dal vincolo. Non si tratta, quindi, di una legge regionale di sanatoria indiscriminata, volta a rendere retroattivamente lecite condotte penalmente sanzionate, in quanto presupposto delle fattispecie da essa regolate e' il legittimo inizio dell'attività di cavazione, da intendersi, però, lo si e' detto, come già intervenuta e rilevante modificazione dell'ambiente, che segna il discrimine tra valutazione rimessa alla pubblica amministrazione competente e illecito penale.

In considerazione dei fondamentali valori coinvolti nella materia disciplinata dalle disposizioni censurate, si deve sottolineare, da una parte, che la legge regionale non fa venir meno i concorrenti poteri di salvaguardia e di tutela del paesaggio che spettano comunque alla Regione, e, dall'altra, che, essendo il procedimento ordinato secondo scansioni temporali rigorose, lo spirare del termine stabilito per il suo compimento comporta il formarsi di un provvedimento di diniego e, nell'ipotesi del protrarsi dell'attività di cavazione, la sicura configurabilità del reato previsto dall'art.1-sexies del d.l. n. 312 del 1985, aggiunto dalla legge di conversione n.431 del 1985.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e delle torbiere della Regione Lazio), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, dal Pretore di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/10/96.

Enzo CHELI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 22/10/96.