Ordinanza n. 350 del 1996

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 350

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 407 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 febbraio 1996 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di De Megni Augusto ed altri, iscritta al n.443 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 2 ottobre 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, nel premettere di essere stato investito della decisione in ordine ad una richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari formulata dal pubblico ministero nell'ambito di un procedimento a suo tempo trasmesso per competenza da altra procura della Repubblica, ha richiamato una sentenza della Corte di cassazione (Sez. V, 25 ottobre 1991, Borrello) nella quale si e' fra l'altro affermato che il termine di durata massima delle indagini preliminari, stabilito dall'art.407 del codice di procedura penale, rappresenta una "norma di chiusura", sicchè, a differenza di quanto e' stabilito negli artt. 405 e 406 del codice di rito, ai fini del relativo computo occorre dar rilievo "all'iscrizione della notizia di reato precedentemente avvenuta in registri diversi da quello del p.m.

che in atto procede", osservando a tal proposito il rimettente come il sistema così delineato presenti "una sua coerenza, quanto meno dal punto di vista delle norme processuali", tanto da rendere quella interpretazione come "l'unica possibile";

che alla stregua dei riferiti rilievi il giudice a quo solleva questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 407 cod.proc. pen., nella parte in cui non consente al pubblico ministero destinatario di un procedimento a lui trasmesso per competenza territoriale, di usufruire dei termini massimi decorrenti dalla data della nuova iscrizione nel registro degli indagati del pubblico ministero successivamente individuato come competente, denunciando la violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione, in quanto per il pubblico ministero tardivamente investito verrebbe ad essere vanificato l'obbligo "di esercitare l'azione penale nei termini a lui spettanti e non utilizzati, per situazioni all'ufficio procedente del tutto estranee, con conseguente irrazionalità di tutto il sistema";

che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata "inammissibile e comunque infondata".

CONSIDERATO che questa Corte, dopo aver riconosciuto in linea generale la legittimità della previsione di termini alle indagini preliminari, affermando che la relativa disciplina risponde alla duplice esigenza di imprimere tempestività alle investigazioni e di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini e' assoggettato (v. sentenza n. 174 del 1992), ha avuto modo in più occasioni di puntualizzare che la previsione di specifici limiti cronologici, e la correlativa sanzione d'inutilizzabilità degli atti d'indagine compiuti dopo la scadenza dei termini, si raccorda intimamente alle finalità stesse della attività di indagine, la quale, lungi dal riprodurre quella funzione "preparatoria" del processo che caratterizzava la fase istruttoria del codice di rito previgente, e' destinata unicamente a consentire al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (art. 326 c.p.p.), con l'ovvio corollario che la tendenziale completezza delle indagini (v. sentenza n. 88 del 1991), evocata dall'art. 358 del codice di procedura penale, viene funzionalmente a correlarsi non al compimento di tutti gli atti "necessari per l'accertamento della verità", secondo l'ampia enunciazione che compariva nell'art. 299 del codice abrogato, ma al ben più circoscritto ambito che ruota attorno alla scelta se esercitare o meno l'azione penale;

che alla luce di siffatte considerazioni si e' quindi ritenuto che non vi é alcuna contraddizione logica tra la previsione di un termine entro il quale deve essere portata a compimento l'attività di indagine e il precetto sancito dall'art. 112 della Costituzione, non essendo quel termine, in se' e per se' considerato, un fattore che sempre e comunque sia astrattamente idoneo a turbare le determinazioni che il pubblico ministero e' chiamato ad assumere al suo spirare, cosicchè l'eventuale necessità di svolgere ulteriori atti di investigazione viene a profilarsi unicamente come ipotesi di mero fatto che, per un verso, non impedisce allo stesso pubblico ministero di stabilire, allo stato delle indagini svolte, se esercitare o meno l'azione penale, mentre, sotto altro profilo, può rinvenire adeguato soddisfacimento, a seconda delle scelte operate, o nella riapertura delle indagini prevista dall'art. 414 del codice di procedura penale o nella attività integrativa di indagine che l'art. 430 consente di compiere anche dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio;

che, d'altra parte, va riservata alle discrezionali scelte del legislatore l'individuazione degli opportuni strumenti processuali in base ai quali consentire la prosecuzione delle indagini, nelle eccezionali ipotesi in cui sia risultato impossibile portarle a compimento entro il termine massimo previsto dalla legge (v. ordinanze n. 239 del 1994 e n. 48 del 1993);

che dalla interpretazione della norma impugnata cui il giudice a quo mostra di aderire non scaturisce, dunque, ne' la violazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale ne' la dedotta "irrazionalità" del sistema, avuto riguardo alla coerenza che la disciplina oggetto di impugnativa presenta rispetto alle finalità che la stessa e' chiamata a soddisfare, nel quadro di un istituto che questa Corte ha già ritenuto immune da censure sul piano costituzionale;

e che pertanto la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 407 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 18/10/96.