Ordinanza n. 274 del 1996

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 274

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Enzo CHELI, Presidente

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionali degli artt. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, come modificato dal decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338 (Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei patronati), e art. 37, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promossi con due ordinanze emesse il 24 aprile 1995 e il 26 luglio 1995 dal Pretore di Milano nei procedimenti penali riuniti a carico di Chillà Maria e nel procedimento penale a carico di Giavarini Giacomo Carlo ed altro, iscritte ai nn. 775 del registro ordinanze 1995 e 21 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 47, prima serie speciale, dell'anno 1995 e 6, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 maggio 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.

RITENUTO che, con due ordinanze emesse rispettivamente il 24 aprile 1995 (R.O. n. 775 del 1995) e il 26 luglio 1995 (R.O. n. 21 del 1996), il Pretore di Milano ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituziona-le, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 41 della Costituzione, dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, come modificato dal decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338 (Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei patronati), convertito dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, nonché -- nella sola ordinanza n. 775 del 1995 -- dell'art. 37, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non escludono dalla propria area di applica- zione imprenditori o amministratori le cui imprese o socie-tà versino in una situazione economica tale da rendere ne- cessaria, a mente degli artt. 1 e seguenti del r.d. 16 mar-zo 1942, n. 267, l'apertura della procedura fallimentare;

che il remittente osserva che quando un'impresa versi in condizioni di insolvenza tali da legittimare l'apertura della procedura fallimentare, l'obbligo di bloccare l'attività imprenditoriale e di rispettare la par condicio creditorum -- assistito dalle sanzioni penali previste per chi abbia aggravato il proprio dissesto o abbia, anche prima dell'apertura della procedura fallimentare, eseguito pagamenti allo scopo di favorire taluno dei creditori, a danno degli altri -- dovrebbe prevalere anche sull'obbligo di versare all'istituto previdenziale le ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti, e dunque far venir meno l'illiceità dell'omissione del versamento, sanzionata penalmente dall'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983;

che lo stesso remittente rileva come, peraltro, questa interpretazione sia disattesa dalla giurisprudenza assolutamente prevalente, secondo la quale l'obbligo di versamento sussiste in capo all'imprenditore quale che sia la situazione economica dell'impresa, prima della formale dichiarazione di fallimento;

che, sempre a parere del remittente, quest'ultima interpretazione del sistema normativo metterebbe in luce un contrasto di esso con gli artt. 27, terzo comma, e 41 della Costituzione: col primo, in quanto l'imprenditore in stato di dissesto verrebbe irragionevolmente gravato di responsabilità penale, contemporaneamente e inevitabilmente, sulla base di due presupposti tra loro contraddittori, e cioè per non aver versato le ritenute e per aver aggravato il proprio dissesto ritardando l'apertura del fallimento e aver continuato l'attività di impresa estinguendo il debito verso l'istituto previdenziale, realizzandosi così una ingiustificata, sproporzionata e pertanto irragionevole reazione da parte dell'ordinamento giuridico penale; con l'art. 41, in quanto l'attività dell'impresa non verrebbe posta in essere nel rispetto dei suoi fini sociali, dal momento che con i versamenti in questione verrebbe lesa la par condicio creditorum che sarebbe il principale strumento per la difesa dei predetti fini;

che è intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata (nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 775 del 1995) o "inammissibile e non fondata" (nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 21 del 1996): osservando che l'obbligo di rispettare la par condicio creditorum prima della dichiarazione di fallimento non è sanzionato se non nei casi e nei modi previsti dalla normativa fallimentare, per la cui applicazione è richiesta oltre tutto la sussistenza del dolo, e che non vi sarebbe contrasto tra l'obbligo di adempiere puntualmente le obbligazioni anche in presenza di uno stato di dissesto e l'obbligo di non aggravare il dissesto ritardando la richiesta di fallimento o in altro modo, sia perché difficilmente il doveroso versamento dei contributi potrebbe integrare la condotta punita dalle norme sulla bancarotta, sia perché nulla escluderebbe, in teoria, che le due condotte penalmente sanzionate coesistano e debbano essere entrambe punite.

CONSIDERATO preliminarmente che i due giudizi, relativi allo stesso oggetto, possono essere riuniti e decisi con unica pronuncia;

che la questione prospettata dal remittente -- e che manifesta peraltro essenzialmente un dissenso interpretativo rispetto alla giurisprudenza prevalente, in ordine alla ricostruzione del quadro normativo -- è posta in termini logicamente contraddittori, non essendo possibile, per definizione, postulare che l'ordinamento consideri contemporaneamente illecito un comportamento e il suo contrario, e cioè l'omissione dei versamenti contributivi in questione e la loro effettuazione;

che il primo parametro costituzionale indicato -- l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, relativo al divieto di pene contrarie al senso di umanità e al fine rieducativo cui debbono tendere le pene -- appare invocato fuor di proposito, riguardando la questione una supposta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio e non già il contenuto e le modalità di esecuzione delle pene;

che in ogni caso la denunciata irragionevolezza di un obbligo di versamento, penalmente sanzionato, perdurante anche nello stato di dissesto dell'impresa, evidentemente non sussiste: detto obbligo concerne, infatti, somme trattenute sulle retribuzioni dei dipendenti e che il datore di lavoro versa all'INPS sostituendosi ad essi, onde consegue ed accede al pagamento delle retribuzioni, sostanziandosi nel dovere di non trattenere per sé somme di pertinenza dei dipendenti e dell'istituto previdenziale;

che nemmeno può dirsi violato l'art. 41 della Costituzione, posto che l'equilibrio fra i diversi interessi in gioco -- quello di assicurare l'adempimento degli obblighi previdenziali del datore di lavoro, cui corrisponde l'interesse dei lavoratori alla copertura previdenziale, e quello dei creditori dell'imprenditore in stato di dissesto --, quale viene determinato dall'operare delle norme in questione, non contrasta affatto con le finalità di ordine sociale che limitano la libertà dell'iniziativa economica, ma anzi appare conforme ad esse;

che pertanto la questione proposta è sotto ogni profilo manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integra- tive per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, come modificato dal decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338 (Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei patronati), convertito dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, e dell'art. 37, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevate, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 41 della Costituzione, dal Pretore di Milano con le due ordinanze in epigrafe indicate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1996.

Enzo CHELI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 luglio 1996.