Sentenza n. 256 del 1996

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SENTENZA N. 256

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) in relazione ai Capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), e degli artt. 38 e 35, penultimo comma (recte: ventesimo comma), della citata legge n. 47 del 1985, promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Roma nel procedimento penale a carico di De Rosa Carmine ed altri, iscritta al n. 794 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

 

1. Nel corso di un procedimento penale a carico di Carmine De Rosa ed altri, imputati, tra l'altro, di avere, in concorso tra loro, realizzato una costruzione edilizia (villino bifamiliare) in assenza della relativa concessione, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Roma, con ordinanza emessa in data 12 luglio 1995 (R.O. n. 794 del 1995), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) in relazione alle disposizioni di cui ai Capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per contrasto con gli artt. 3, 32, primo comma, 41, primo e secondo comma, 42, secondo comma, 101, secondo comma, 117 e 118 della Costituzione.

La norma impugnata, che estende il cosiddetto "condono edilizio" previsto dall'art. 31 della legge n. 47 del 1985 alle costruzioni ultimate entro il 31 dicembre 1993, determinerebbe anzitutto, ad avviso del giudice a quo, una disparità di trattamento tra il cittadino rispettoso delle leggi e quello che, avendole violate, dispone di opere di dimensioni maggiori rispetto a quelle consentite dagli strumenti urbanistici vigenti. Disparità irragionevole anche perché originata dalla reiterazione di un provvedimento di clemenza che già la Corte costituzionale, con la sentenza n. 369 del 1988, aveva giustificato solo in quanto misura di carattere eccezionale, destinata a "chiudere" un passato di illegalità.

La normativa sul condono violerebbe, altresì, l'art. 32, primo comma, della Costituzione, in quanto, non facendo alcuna distinzione tra abusi meramente formali ed abusi sostanziali, consente che siano sanate anche opere in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, e, quindi, anche con disposizioni dettate a tutela della salute (ad esempio, in tema di abitabilità di edifici ai sensi dell'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie).

Il giudice a quo denuncia, poi, la violazione degli artt. 32 e 3, secondo comma, della Costituzione sotto il profilo che il condono indiscriminato di tutte le costruzioni, con l'impedire la programmazione (e, quindi, la previsione di aree destinate ad ospedali, scuole ecc.) finirebbe per provocare danni alla salute psico-fisica e conculcare la tutela del pieno sviluppo della personalità umana.

Sarebbero, altresì, violati gli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto, prevedendo il comma 4, secondo periodo, dell'art. 39 della legge n. 724 del 1994 che l'interessato rilasci un'autocertificazione ex art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, e, sostanzialmente, si sostituisca all'amministrazione nell'accertamento dei fatti, la punibilità per il fatto commesso sarebbe determinata dalla sola volontà dell'interessato. Inoltre, essendo prevista l'estinzione dei reati e delle relative sanzioni, ivi compresa la demolizione, solo sulla base dell'ultimazione del rustico e della copertura entro il termine del 31 dicembre 1993, a prescindere dalla circostanza che oltre tale termine i lavori siano illecitamente proseguiti, sia pure per suddividere il fabbricato in più appartamenti, in tale ultimo caso si eviterebbe la demolizione solo perché si sarebbero già eseguite, alla predetta data, le tamponature esterne del fabbricato e posto un tetto di copertura, in contrasto sia con l'art. 3 che con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione.

Gli stessi parametri sono invocati con riferimento alla prevista sospensione del processo conseguente alla domanda di condono, e alla circostanza che la sentenza di proscioglimento dipenderebbe esclusivamente dall'attività dell'imputato.

Il giudice a quo lamenta, ancora, il vulnus agli artt. 117 e 118 della Costituzione, in quanto, in sostanza, il governo del territorio fino al 31 dicembre 1993 verrebbe sottratto agli enti preposti e cioè, Regioni, Province, Comuni a carico dei quali sarebbero posti ingenti oneri d'urbanizzazione. Da ciò scatuirebbe la necessità di nuove imposte anche nei confronti di chi ha osservato la legge: donde la violazione, ancora una volta, dell'art. 3 e degli artt. 41, primo e secondo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione. E ciò perché i cittadini rispettosi della legge subirebbero proprio dall'ossequio alla stessa inevitabili limitazioni sia all'iniziativa privata sia al diritto di proprietà.

Con la medesima ordinanza di rimessione viene anche sollevato il dubbio di illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 (parametro che risulta, peraltro, invocato a tale riguardo solo dal dispositivo della ordinanza di rimessione, ma non è specificato nella parte motiva della stessa) e 32, primo comma, della Costituzione, dello stesso art. 39 della legge n. 724 del 1994, nonché dell'art. 38 della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui prevede l'estinzione del reato di cui all'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265) e dell'art. 35, penultimo comma (recte: ventesimo comma) della medesima legge, che consente il rilascio della licenza di abitabilità anche in deroga alle disposizioni vigenti (salvo in materia di statica o di prevenzione incendi), con ciò privilegiando l'uso del bene da parte del privato rispetto alla tutela della salute sia di chi abita l'immobile condonato, sia dei condomini e degli abitanti del quartiere.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge n. 724 del 1994, in riferimento agli artt. 41, primo e secondo comma, 42, secondo comma, 117 e 118 della Costituzione. La difesa dello Stato ha, in proposito, ricordato le recenti sentenze della Corte costituzionale nn. 416 e 427 del 1995, che hanno escluso la violazione dei precetti costituzionali invocati dal giudice a quo.

Per quanto riguarda il rilievo secondo il quale le norme sul condono edilizio prevedono effetti sananti anche di violazioni di prescrizioni non urbanistiche, quali quelle poste a salvaguardia della salute in tema di abitabilità degli edifici, l'Avvocatura esclude che i Comuni, in conseguenza delle norme sul condono, siano costretti a rilasciare licenze di abitabilità per locali che non siano realmente abitabili. E' pur vero che l'art. 38 della legge n. 47 del 1985 prevede, tra gli effetti penali del condono, anche l'estinzione del reato previsto dall'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie, ma tale estinzione riguarda il reato strettamente connesso con la realizzazione della costruzione abusiva, mentre non esonera il Comune dall'accertare l'effettivo stato della "res abusiva" sotto il profilo igienico-sanitario, ai fini della sua destinazione.

Quanto alla lamentata violazione dell'art. 101 della Costituzione, dovuta al fatto che il sistema dell'autocertificazione di alcune circostanze di fatto e la previsione del silenzio-assenso contenuti nell'art. 39, comma 4, della legge impedirebbero al giudice di sindacare la concessione e consentirebbero al privato di determinare tutti i presupposti per il rilascio della concessione e per la declaratoria di estinzione del reato, l'Avvocatura rileva, per un verso, che le false attestazioni contenute nelle dichiarazioni rese ai sensi della legge n. 15 del 1968 sono soggette alle sanzioni previste dalla stessa legge; per l'altro, che lo stesso comma 4 dell'art. 39 della legge n. 724 del 1994 prevede che, ove l'oblazione sia stata determinata in modo non veritiero e palesemente doloso, le costruzioni realizzate senza licenza o concessione siano assoggettate alle sanzioni richiamate dagli artt. 40 e 45 della legge n. 47 del 1985.

Considerato in diritto

 

1. Il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Roma sottopone all'esame di legittimità costituzionale l'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) in relazione alle disposizioni di cui ai Capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, da quello richiamate e fatte proprie.

La norma impugnata, disponendo sostanzialmente la riapertura dei termini del condono edilizio di cui alla citata legge 47 del 1985, si esporrebbe, ad avviso del giudice a quo, a diverse censure. La prima di esse riguarda il vulnus all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ingiustificata discriminazione tra i cittadini che non hanno commesso abusi edilizi e coloro che, avendo realizzato opere in difformità dagli strumenti urbanistici vigenti, beneficiano degli effetti del condono. La cui disciplina sarebbe tanto più irragionevole in quanto sprovvista di quel carattere di straordinarietà ed eccezionalità, che, sola, la giustificherebbe. Altro parametro invocato è l'art. 32, primo comma, della Costituzione, in quanto, per un verso, la normativa sul condono consentirebbe la sanatoria anche di opere costruite in spregio alle norme urbanistiche a tutela della salute (ad esempio, in tema di abitabilità degli edifici); per l'altro, essa, impedendo la programmazione, con specifico riferimento alle aree destinate all'insediamento di ospedali, posti di pronto soccorso, polizia, caserme di vigili del fuoco, ovvero al verde, finirebbe per provocare danni alla salute psico-fisica. E la medesima mancanza di programmazione, consentendo la nascita di quartieri privi di importanti infrastrutture come le scuole, determinerebbe condizioni di sottosviluppo culturale, in contrasto con il principio di cui all'art. 3, secondo comma, della Costituzione.

Il meccanismo del condono, poi, con il prevedere un'autocertificazione da parte dell'interessato, subordinerebbe alla volontà di costui la punibilità per il fatto commesso, in violazione degli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione. I medesimi parametri vengono invocati anche con riferimento alla circostanza che, essendo l'estinzione dei reati collegata alla avvenuta ultimazione del rustico e della copertura entro il termine del 31 dicembre 1993, si potrebbe evitare la demolizione allorché i lavori siano illecitamente proseguiti oltre tale data purché entro la stessa data si siano eseguite le tamponature esterne e posto un tetto di copertura.

Ed ancora gli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione sarebbero violati dalla prevista sospensione del processo in caso di domanda di condono, oltre che dal collegamento dell'estinzione del reato all'attività dell'imputato.

Ulteriore profilo di illegittimità della normativa censurata viene ravvisato in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, in quanto il condono impedirebbe agli enti competenti Regione, Provincia, Comune qualsiasi intervento di governo del territorio, mentre le ingenti spese di urbanizzazione determinerebbero aumenti di imposte anche a carico di chi ha rispettato la legge, che subirebbe da ciò limitazioni sia alla libera iniziativa privata sia al diritto di proprietà, in violazione degli artt. 3, 41, primo e secondo comma, e 42, secondo comma.

Il giudice a quo sottopone, poi, al giudizio della Corte la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 39 della legge n. 724 del 1994 e degli artt. 38 e 35, ventesimo comma, della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui prevedono l'estinzione del reato di cui all'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie ed il conseguente rilascio della licenza di abitabilità anche in deroga alle disposizioni vigenti.

Il sospetto del rimettente è che, in tal modo, sia violato il principio della tutela della salute di cui all'art. 32, primo comma, della Costituzione, impedendosi sia l'accertamento della salubrità del singolo appartamento, sia la verifica della esistenza di idonee infrastrutture.

2. La prima delle questioni sollevate è manifestamente infondata.

2.1. Questa Corte, già chiamata a verificare la conformità alla maggior parte dei parametri costituzionali, oggi invocati, dapprima delle norme sul condono edilizio di cui alla legge n. 47 del 1985 (sentenza n. 369 del 1988), e, successivamente, di quelle di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 (sentenze n. 427 e n. 416 del 1995), ha avuto occasione di affermare la insussistenza della lesione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento tra cittadini, sottolineando il carattere eccezionale e straordinario della normativa di cui si tratta. Eccezionalità e straordinarietà sicuramente riscontrabili nel condono concesso nel 1985, e non venute meno a distanza di dieci anni, ove si consideri la persistenza del fenomeno dell'abusivismo, con conseguente esigenza di recupero della legalità. Ciò dà anche ragione della infondatezza della questione sotto il profilo del lamentato contrasto con gli artt. 41, primo e secondo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione.

2.2. Del pari, questa Corte si è già pronunciata sulla legittimità della normativa sul condono di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, escludendo che la riapertura e l'estensione dei termini del condono vanifichi l'azione di controllo e di repressione delle amministrazioni locali. Al riguardo, si è anzi rilevato che la diffusione del fenomeno dell'abusivismo edilizio è da addebitare, almeno in parte, proprio alla scarsa incisività e tempestività dell'azione di controllo del territorio da parte degli enti locali e delle Regioni a ciò preposte (sentenze n. 427 e n. 416 del 1995). Ciò a prescindere dalla considerazione che l'art. 81, primo comma, lettera a), del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, in attuazione degli invocati artt. 117 e 118 della Costituzione, riserva allo Stato il potere di fissare le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale (sentenze n. 427 del 1995 e n. 302 del 1988).

2.3. E', altresì, da escludere, alla stregua della già citata giurisprudenza costituzionale, il contrasto con gli artt. 32, primo comma, e 3, secondo comma, della Costituzione. Per un verso, infatti, la Corte ha avvertito che, tra le finalità del condono, si pone quella di realizzare un contemperamento dei diritti in giuoco, quali, tra gli altri, quello, oggi invocato, alla salute, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, all'abitazione e al lavoro (sentenza n. 427 del 1995). Peraltro, non può essere condivisa l'affermazione del giudice a quo in ordine alla circostanza che il condono indiscriminato di tutte le costruzioni, impedendo la programmazione del territorio, danneggerebbe la salute oltre che lo sviluppo della personalità umana. La disciplina del condono è stata, infatti, dettata proprio dalla necessità di procedere ad un definitivo riordino della materia della regolamentazione dell'assetto del territorio. Ed infatti, come pure già sottolineato dalla Corte, essa presenta aspetti direttamente volti al ripristino della tutela del controllo sul territorio, come dimostrano le previsioni di limiti di cubatura per l'ammissione alla sanatoria, e, in genere, tutto il sistema del nuovo condono edilizio (legato da un disegno essenzialmente unitario), risultante dalle disposizioni dell'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e da quelle, da valutare in connessione indissolubile con le prime, dettate dal decreto-legge 25 maggio 1996, n. 285 (ultimo di una lunga catena di decreti-legge reiterati). Tale sistema, infatti, -introduce una serie di restrizioni che tendono a circoscrivere l'ambito della definizione agevolata, e a riequilibrare situazioni di eccessivo vantaggio nella valutazione del legislatore di preminenti interessi pubblici- (sentenza n. 427 del 1995).

2.4. Manifestamente infondato è, infine, il rilievo di illegittimità costituzionale dell'impugnato art. 39 per violazione del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, ex art. 101, secondo comma, della Costituzione, sollevato sotto il profilo che l'art. 39, comma 4, secondo periodo, prevedendo un'autocertificazione del privato, rimetterebbe sostanzialmente alla sola volontà di quest'ultimo la punibilità dei reati edilizi.

Al riguardo basta considerare che la normativa denunciata prevede un sistema sanzionatorio per l'ipotesi di attestazioni false di cui pertanto l'interessato assume ogni responsabilità comminando le medesime sanzioni previste dal Capo I della legge n. 47 del 1985, e cioè sanzioni penali, civili e amministrative.

Inoltre l'amministrazione, in tutti i casi di procedimento amministrativo, è sempre tenuta, nella persona del responsabile del procedimento (art. 6 della legge 7 agosto 1990, n. 241), ad un riscontro istruttorio della documentazione esibita dal soggetto interessato e conserva questo potere-dovere anche se taluni fatti o circostanze siano documentati attraverso l'autocertificazione, non precludendo questa le possibilità di accertamento di ufficio e di ispezioni ove ritenute utili o opportune.

Né il contrasto con l'art. 101, secondo comma, oltre che con l'art. 3 della Costituzione, può ravvisarsi, come vorrebbe il giudice a quo, nel collegamento della estinzione del reato all'avvenuta ultimazione del rustico e della copertura entro il termine del 31 dicembre 1993, che consentirebbe la prosecuzione dei lavori oltre tale data per il solo fatto che a quella data siano state già eseguite le tamponature esterne e la copertura.

E ciò in quanto il legislatore si è preoccupato di fissare un termine idoneo ad impedire che la sanatoria potesse estendersi senza limiti temporali ai lavori di elevazione dei rustici, onde pervenire ad una regolarizzazione dell'assetto del territorio, da cui partire per il definitivo riordino della materia.

E nemmeno i detti parametri possono dirsi violati dalla prevista sospensione del processo penale in caso di domanda di condono, ovvero dal collegamento dell'estinzione del reato all'attività dell'imputato.

Valgono al riguardo le considerazioni svolte nella sentenza n. 369 del 1988 in merito all'esclusione di una totale sottrazione al giudice penale di ogni potere di accertamento dei requisiti del fatto estintivo. A ciò si aggiunga la considerazione del potere dello stesso giudice di disapplicare la concessione in sanatoria rilasciata al di fuori dei presupposti di legge.

3. Resta da esaminare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge n. 724 del 1994 in quanto rende applicabili alle opere abusive realizzate fino al 31 dicembre 1993 le norme di cui agli artt. 38 e 35, ventesimo comma, della legge n. 47 del 1985 nonché delle stesse norme citate, la prima nella parte in cui prevede l'estinzione del reato di cui all'art. 221 del t.u. delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), la seconda nella parte in cui consente il rilascio della licenza di abitabilità anche in deroga alle disposizioni vigenti.

Tali disposizioni violerebbero, secondo il giudice a quo, l'art. 32, primo comma, della Costituzione.

La questione è infondata nei sensi appresso specificati.

L'art. 38 della legge n. 47 del 1985 prevede, tra gli effetti penali del condono, anche l'estinzione del reato previsto dall'art. 221 del t.u. delle leggi sanitarie, il quale, al secondo comma, sanziona penalmente il comportamento del proprietario che abiti (o consenta che venga abitato) un edificio o parte di esso in assenza di certificato di abitabilità.

La nuova disciplina contenuta nel d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425 (Regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all'abitabilità, di collaudo statico e di iscrizione al catasto) all'art. 4, comma 1, prevede, per la utilizzazione degli edifici, la necessità che il proprietario richieda "il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l'iscrizione al catasto dell'immobile, restituita dagli uffici catastali con l'attestazione dell'avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti". Il comma 2 del citato articolo 4 dispone che, entro trenta giorni dalla data di presentazione della domanda, il sindaco rilascia il certificato di abitabilità e che, entro tale termine, "può disporre una ispezione da parte degli uffici comunali che verifichi l'esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile".

Il comma 3 prevede, poi, un meccanismo di silenzio-assenso, in ordine alla richiesta, che scatta decorsi quarantacinque giorni dalla data di presentazione della domanda; peraltro, viene lasciata all'autorità competente la possibilità di disporre l'ispezione di cui al citato comma 2 nei successivi centottanta giorni e di dichiarare, eventualmente, la non abitabilità, nel caso in cui verifichi l'assenza dei requisiti richiesti.

In coerenza con la previsione di tale più snella procedura, l'art. 5 dello stesso d.P.R. n. 425 del 1994 abroga il primo comma dell'art. 221 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, il quale imponeva, ai fini dell'abitabilità degli edifici o di parti di essi, l'autorizzazione del podestà (id est, sindaco) che la concedeva quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risultasse che la costruzione fosse stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri fossero convenientemente prosciugati e che non sussistessero altre cause di insalubrità requisiti comunque, come si è visto, tuttora richiesti dal menzionato art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 425 del 1994 lasciando, peraltro, sopravvivere, come ritiene anche la giurisprudenza prevalente della Cassazione, la sanzione penale di cui al secondo comma dello stesso art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie.

L'estinzione del reato disposta, come rilevato, dall'art. 38 della legge n. 47 del 1985, recepito dall'art. 39 della legge n. 724 del 1994, è l'unico effetto penale scaturente dalla disciplina del condono; ma essa non vale ad escludere ogni obbligo da parte del Comune di accertamento delle condizioni di salubrità ai fini dell'abitabilità degli edifici, proprio per ciò che si è dianzi osservato in ordine alla sopravvivenza dei requisiti cui le norme di legge subordinano l'abitabilità stessa.

D'altro canto, il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria.

Né rileva la circostanza che l'art. 35, ventesimo comma, preveda, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni.

La deroga non riguarda, infatti, i requisiti richiesti da disposizioni legislative, e deve, pertanto escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità pur nella più semplice forma disciplinata dal d.P.R. n. 425 del 1994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del d.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì, quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc..

Alla luce di una tale interpretazione, sono infondati i timori del giudice a quo in ordine al venir meno, a seguito della normativa censurata, non solo di ogni tutela della salubrità dei singoli edifici, ma altresì della necessità della verifica di idoneità di infrastrutture (come il sistema fognario).

Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità di edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari (in maggior parte regolamenti comunali).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), 38 e 35, ventesimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), sollevata, in riferimento all'art. 32, primo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Roma, con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della medesima legge n. 724 del 1994, in relazione alle disposizioni di cui ai Capi IV e V della citata legge n. 47 del 1985, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 32, primo comma, 41, primo e secondo comma, 42, secondo comma, 101, secondo comma, 117 e 118 della Costituzione, dallo stesso giudice con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 18 luglio 1996.