Sentenza n. 216 del 1996

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SENTENZA N. 216

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 101 disp. att. cod. proc. pen., promosso con ordinanza emessa il 4 maggio 1995 dal Tribunale di Catanzaro sull'istanza proposta da Pititto Pasquale, iscritta al n. 757 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Udito nella camera di consiglio del 15 maggio 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento di riesame di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza emessa il 4 maggio 1995, pervenuta a questa Corte il 13 ottobre 1995 (R. O. n. 757 del 1995), ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dell'art. 101 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, "nella parte in cui, ricorrendo l'ipotesi che la persona colpita da misura coercitiva sia -- anche se relativamente ad altro procedimento -- sottoposta al divieto di comunicare col difensore, non prevede il rinvio dell'udienza e il decorso ex novo del termine per la decisione sulla richiesta di riesame dalla data in cui il giudice riceve comunicazione o, comunque, accerta la cessazione del precitato divieto".

Espone il giudice remittente che l'imputato, dopo aver chiesto il riesame dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro, veniva raggiunto da un ulteriore analogo provvedimento restrittivo, emesso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Vibo Valentia, e accompagnato dal divieto "di comunicare con i difensori per giorni sette", disposto a norma dell'art. 104, comma 3, cod. proc. pen. (nel testo antecedente alla modifica di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 332).

Tale divieto non solo era in vigore alla data dell'udienza fissata per il riesame della prima misura cautelare, ma era destinato a durare oltre la data in cui sarebbe scaduto il termine di dieci giorni dal ricevimento degli atti, fissato dall'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., per la decisione sull'istanza di riesame, a pena di decadenza dell'ordinanza impugnata.

Chiamato a provvedere sulla richiesta del difensore di poter conferire con il proprio assistito, a seguito della produzione da parte del pubblico ministero di nuovi documenti, e sulla gradata eccezione di nullità del procedimento per violazione del diritto di difesa, il Tribunale remittente, ritenuto che ad esso non era dato di rimuovere il divieto di colloquio imposto da altro giudice in un diverso procedimento, e che tale divieto riveste carattere di assolutezza non potendo essere frazionato o limitato in relazione a singoli procedimenti, se non pregiudicandone lo scopo, afferma di non potere pertanto accogliere la richiesta di autorizzare colloqui o consultazioni dell'imputato con il difensore. Peraltro, considerando che il procedimento di riesame richiede l'esercizio del diritto di difesa nella sua pienezza, e che detto diritto involge anche la facoltà del difensore di consultare il proprio assistito, il remittente rileva che nella specie tale esigenza non potrebbe essere assicurata, data la perentorietà del termine, di imminente scadenza, fissato dall'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., per la decisione sull'istanza di riesame, attraverso il differimento della trattazione del riesame a data successiva alla scadenza del divieto temporaneo di colloquio.

Ciò conduce il giudice a quo a dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 101 disp. att. cod. proc. pen., che, disciplinando i casi di rinvio della udienza e di nuovo decorso del termine per la decisione sulla istanza di riesame, non contemplerebbe l'ipotesi in questione.

Considerato in diritto

 

1.-- Il giudice remittente lamenta in sostanza che l'art. 101 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, nel prevedere le ipotesi nelle quali il termine di dieci giorni per la decisione sull'istanza di riesame, fissato dall'art. 309, comma 9, del codice, decorre, o riprende a decorrere, da data diversa e successiva rispetto a quella di ricezione degli atti da parte del tribunale, non contempli anche il caso dell'imputato il quale, avendo chiesto il riesame, sia stato raggiunto, prima della udienza fissata per la decisione su tale istanza, da nuovo provvedimento restrittivo accompagnato da divieto temporaneo di colloquio con i difensori.

Le ipotesi contemplate dal citato art. 101 sono quelle del rinvio dell'udienza nel caso di legittimo impedimento dell'imputato che abbia chiesto di essere sentito personalmente (art. 127, comma 4, cod. proc. pen., cui fa rinvio l'art. 101, comma 1, disp. att., disponendo che in tal caso il termine decorre nuovamente dalla data in cui il giudice riceve comunicazione della cessazione dell'impedimento o comunque accerta la cessazione dello stesso); e quella in cui l'imputato, detenuto in luogo posto fuori del circondario del tribunale competente per il riesame, sia stato sentito prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, ai sensi dell'art. 127, comma 3, cod. proc. pen. (art. 101, comma 2, disp. att., a norma del quale in tal caso il termine decorre dal momento in cui pervengono al tribunale gli atti assunti dal magistrato di sorveglianza, che deve provvedere a ciò senza ritardo, previo tempestivo avviso al difensore, e trasmettere gli atti al tribunale con il mezzo più celere).

L'impossibilità di concedere il colloquio, dato il carattere assoluto del temporaneo divieto imposto nell'ambito di un altro procedimento, e l'impossibilità nello stesso tempo di differire il termine perentorio per la decisione, il cui mancato rispetto farebbe cadere la stessa misura cautelare, condurrebbero ad una inevitabile menomazione del diritto di difesa, che potrebbe essere evitata, secondo il remittente, solo attraverso una pronuncia di incostituzionalità di tipo additivo, che estenda la previsione di rinvio dell'udienza e di differimento del termine all'ipotesi in questione.

2.-- La questione è infondata nei sensi di seguito precisati.

Le premesse interpretative da cui muove il remittente, come si è detto, sono, da un lato, l'assolutezza del divieto di colloquio, che estenderebbe i suoi effetti anche agli altri procedimenti a carico dello stesso imputato detenuto nonché al colloquio dell'imputato col difensore in occasione dell'udienza di riesame; dall'altro lato, l'inapplicabilità, in questa fattispecie, delle norme che contemplano il rinvio dell'udienza e il differimento del termine per la decisione. Secondo il giudice a quo, evidentemente, tale ipotesi non sarebbe riconducibile a quella del legittimo impedimento dell'imputato, prevista dall'art. 127, comma 4, cod. proc. pen.

La prima di tali premesse interpretative appare plausibile e conforme alla ratio della norma, che prevede la possibilità, "quando sussistono specifiche ed eccezionali esigenze di cautela", di differire per un breve tempo (sette giorni, oggi ridotti a cinque per effetto dell'art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 332) l'esercizio del diritto di conferire con il difensore. Detto provvedimento è infatti in grado di ottenere gli effetti pratici che da esso si attendono solo se esplica efficacia anche con riguardo agli altri eventuali procedimenti penali in corso nei confronti dell'imputato, impedendo l'aggiramento altrimenti agevole del divieto attraverso il contatto con il difensore nell'ambito di tali altri procedimenti.

Tuttavia il sopravvenire del divieto quando è in corso un altro procedimento nei confronti dello stesso imputato produce un temporaneo impedimento al pieno esercizio del diritto di difesa nell'ambito di quest'ultimo. Di una effettiva difesa fa parte integrante, infatti, la concreta possibilità dell'imputato di conferire col proprio difensore prima e durante l'udienza in cui si discute l'istanza di riesame del provvedimento restrittivo, nell'esercizio di quello che l'art. 104 del codice di procedura penale ha configurato come un vero e proprio diritto dell'imputato in stato di custodia cautelare.

La lesione del diritto di difesa denunciata dal giudice remittente si verificherebbe, peraltro, solo se si accogliesse anche l'altra delle due premesse interpretative assunte dal medesimo, quella cioè secondo cui nel caso considerato non sarebbe possibile il rinvio dell'udienza del tribunale del riesame oltre il termine perentorio fissato per la decisione dall'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., non versandosi in un'ipotesi di legittimo impedimento dell'imputato che abbia chiesto di essere udito personalmente.

Ora, la nozione di "legittimo impedimento" non è precisata dall'art. 127, comma 4, cod. proc. pen. Ma ragioni di ordine costituzionale -- discendenti dall'esigenza di evitare compromissioni del diritto di difesa dell'imputato -- inducono a preferire una interpretazione estensiva, atta a ricomprendere le ipotesi in cui l'imputato non abbia potuto o non possa esercitare pienamente i diritti inerenti alla sua difesa e così il diritto di conferire con il difensore: al quale fa riscontro il diritto del difensore di conferire con il proprio assistito ai fini di un efficace dispiegamento della sua attività difensiva (si veda l'art. 36 disp. att. cod. proc. pen., sul diritto del difensore di accedere ai luoghi in cui il suo assistito si trovi custodito, per conferire con lui; nonché, ad altro proposito, l'art. 38 disp. att., sulla facoltà del difensore di svolgere investigazioni e di conferire con le persone che possano dare informazioni, al fine di esercitare il diritto alla prova).

L'imputato temporaneamente soggetto al divieto di conferire col difensore deve dunque considerarsi di fatto impedito a partecipare utilmente -- vale a dire nel pieno ed effettivo rispetto del suo diritto di difesa -- all'udienza in cui si discute sull'istanza di riesame da lui presentata.

Che d'altra parte lo stesso legislatore abbia considerato l'impedimento al colloquio col difensore come evento tale da dover incidere sui termini, pur perentori, della procedura di riesame, al fine di conciliarli con l'effettività del diritto di difesa, è dimostrato dall'avvenuto inserimento nell'art. 309 del codice di procedura penale, ad opera della recente novella recata dalla legge 8 agosto 1995, n. 332, del comma 3-bis, ai cui sensi nei termini previsti dai commi 1, 2 e 3 dello stesso articolo -- vale a dire nei termini per la proposizione della richiesta di riesame -- "non si computano i giorni per i quali è stato disposto il differimento del colloquio, a norma dell'articolo 104, comma 3".

Se pure tale disposizione non soccorre nel caso in esame, essendo qui in gioco non già i termini per proporre la richiesta di riesame, bensì quello imposto per la decisione del tribunale, nondimeno con essa vanno coordinate le altre norme in materia, attraverso una interpretazione dell'art. 127, comma 4, che parimenti faccia salva l'effettività del diritto di difesa quando l'impedimento al colloquio col difensore vada ad incidere, anziché sul termine per ricorrere, su quello per provvedere sull'istanza.

Quest'ultimo termine è posto a garanzia dell'imputato, assicurandogli una decisione tempestiva sull'istanza de libertate mediante la comminatoria della perdita di efficacia della ordinanza cautelare in caso di mancato rispetto del termine stesso (cfr. ordinanza n. 126 del 1993). Ma tale garanzia va integrata con quella di effettività della difesa: ed infatti a questo scopo l'art. 127, comma 4, esplicitamente dispone il rinvio dell'udienza (con conseguente nuovo decorso del termine, ai sensi dell'art. 101, comma 1, disp. att.) nel caso di legittimo impedimento dell'imputato che abbia chiesto di essere sentito personalmente.

A tal proposito deve ricordarsi come questa Corte, con la sentenza n. 45 del 1991, abbia ritenuto in via interpretativa che il diritto dell'imputato di essere sentito personalmente dal giudice del riesame si possa esercitare anche quando l'imputato sia detenuto in altro luogo, benché l'art. 127, comma 3, del codice in questa ipotesi preveda espressamente soltanto che egli sia sentito, a richiesta, prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo.

In base al criterio, affermato costantemente dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui fra più interpretazioni possibili della stessa norma va preferita quella che consente di dare ad essa un significato conforme o non in contrasto con la Costituzione (cfr. da ultimo sentenze nn. 121 del 1994, 19 del 1995, 98 del 1996), deve pertanto accogliersi una interpretazione dell'art. 127, comma 4, cod. proc. pen. -- e conseguentemente dell'art. 101, comma 1, disp. att., che ad esso fa richiamo -- secondo cui costituisce legittimo impedimento dell'imputato, per gli effetti di cui alle indicate norme, l'impossibilità per il medesimo di conferire con il proprio difensore, a causa di un concomitante provvedimento di differimento dell'esercizio del diritto al colloquio, adottato, nell'ambito di diverso procedimento, ai sensi dell'art. 104, comma 3, dello stesso codice.

L'impedimento sussiste anche quando sia il difensore a lamentare l'impossibilità, a causa del temporaneo divieto di colloquio, di conferire con l'imputato, ai fini dello svolgimento della propria attività di difesa. Tale impossibilità si traduce infatti in un ostacolo al pieno esercizio del diritto di difesa, e dunque all'utile partecipazione dell'imputato alla fase procedimentale in questione.

Ove si verifichi questa ipotesi, starà all'imputato o al suo difensore -- a cui fra l'altro, a norma dell'art. 99 cod. proc. pen., competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all'imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest'ultimo -- far valere l'impedimento, consentendo in tal modo che l'udienza venga rinviata, a norma dell'art. 127, comma 3, cod. proc. pen., ed il termine per decidere differito, ai sensi dell'art. 101 disp. att. cod. proc. pen., senza che con ciò sia contraddetta la funzione di garanzia per l'imputato, attribuita dalla legge al termine medesimo.

Così interpretato il sistema normativo, la norma denunciata sfugge alla censura di costituzionalità ad essa mossa dal giudice remittente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 101 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dal Tribunale di Catanzaro con l'ordinanza in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 giugno 1996.