Sentenza n. 181 del 1996

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SENTENZA N. 181

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 19 luglio 1995 dal Magistrato di sorveglianza di Alessandria sull'istanza proposta da Roviera Marino, iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. -- Il Magistrato di sorveglianza di Alessandria, chiamato a pronunciarsi sulla istanza diretta ad ottenere un permesso premio, presentata da detenuto condannato per uno dei reati previsti dall'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (precisamente, per il reato di rapina aggravata), a cui era stata revocata la misura alternativa alla detenzione della semilibertà con provvedimento del 25 ottobre 1994 del Tribunale di sorveglianza di Torino perché sussistevano a suo carico gravi indizi di colpevolezza in ordine alla commissione di altre rapine, rilevava che l'istanza avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile; infatti, a norma dell'art. 58-quater, comma 3, l'interessato avrebbe potuto di nuovo aver accesso al beneficio del permesso premio soltanto il 25 ottobre 1997 (tre anni dalla data del provvedimento di revoca della misura alternativa), nonostante fosse stato assolto in ordine ai fatti per i quali la revoca era stata disposta. E ciò perché l'interpretazione giurisprudenziale è nel senso che se non sia stata proposta impugnazione avverso il provvedimento di revoca della misura alternativa gli effetti di essa permangono qualunque sia la sorte dell'eventuale procedimento penale che ha provocato la revoca.

Tanto premesso, ha, con ordinanza del 19 luglio 1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui non prevede "che l'effetto preclusivo indicato nelle suddette norme non opera nei casi in cui, dispostasi la revoca di una misura alternativa per sussistenza di indizi di colpevolezza a carico del condannato, in relazione al procedimento penale pendente, intervenga sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto".

L'art. 27, terzo comma, della Costituzione sarebbe violato profilandosi un irragionevole ostacolo al perseguimento della finalità rieducativa della pena.

Risulterebbe vulnerato anche il principio di eguaglianza per l'irrazionale equiparazione della disciplina della revoca di misure alternative per soggetti poi assolti che non abbiano impugnato il provvedimento di revoca alla disciplina della revoca stessa nei confronti di soggetti condannati con sentenza definitiva per comportamenti illeciti tenuti nel corso di esecuzione della misura.

2. -- Nel giudizio davanti alla Corte non si è costituita la parte privata né ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. -- Il Magistrato di sorveglianza di Alessandria dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità dell'art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui "non prevedono che l'effetto preclusivo indicato nelle suddette norme non opera nei casi in cui, dispostasi la revoca di una misura alternativa per sussistenza di indizi di colpevolezza a carico del condannato, in relazione a procedimento penale pendente, intervenga sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto".

Più in particolare, richiesto della concessione di un permesso premio da parte di persona condannata per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (precisamente il delitto di rapina aggravata), persona alla quale era stata revocata dal tribunale di sorveglianza la misura alternativa alla detenzione della semilibertà per la sussistenza a suo carico di gravi indizi di colpevolezza relativamente alla commissione di altre rapine, dalle quali era stato successivamente assolto con sentenza del Tribunale di Milano in data 16 maggio 1995, il giudice a quo, premesso che la richiesta sarebbe da ritenere ugualmente inammissibile operando la rigorosa preclusione derivante dalle norme denunciate, ravvisa nell'assetto normativo così censurato violazione, oltre che del principio della funzione rieducativa della pena, anche dell'art. 3 della Costituzione, per l'irragionevole equiparazione dell'identico regime preclusivo discendente dalla revoca di misure alternative alla detenzione nei confronti di soggetti poi assolti relativamente ai reati che avevano provocato la cessazione della misura, a quello operante nei riguardi di chi, invece, in ordine a tali reati abbia riportato condanna.

L'impossibilità di conseguire il beneficio troverebbe, peraltro, un'univoca conferma interpretativa nella giurisprudenza della Corte di cassazione, ricordata dal rimettente, attenta a precisare come la decisione assolutoria non rimuove gli effetti dell'ordinanza di revoca della semilibertà, divenuta esecutiva per non essere stata impugnata. Cosicché, solo nel caso in cui il condannato abbia proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di revoca della misura sarebbe divenuto possibile accedere al richiesto beneficio.

2. -- La questione non è fondata per essere erroneo proprio il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo. Donde la necessità di individuare gli esatti passaggi ermeneutici che il rimettente avrebbe dovuto percorrere.

3. -- Come è noto, l'art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975 preclude l'ammissione al lavoro esterno, ai permessi premio, all'affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare ai condannati per uno dei delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, della stessa legge, che abbiano posto in essere una condotta punibile ex art. 385 del codice penale. Un divieto che opera per il periodo di tre anni da quando è stata posta in essere la condotta di evasione (art. 58-quater, comma 3).

L'art. 58-quater, comma 2, stabilisce, a sua volta, lo stesso divieto nei confronti dei condannati a cui sia stata revocata una misura alternativa ai sensi degli artt. 47, undicesimo comma (affidamento in prova al servizio sociale: nel caso in cui il comportamento del soggetto, contrario alle leggi o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova), 47-ter, comma 6 (detenzione domiciliare: se il comportamento del soggetto, contrario alle leggi o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure), 51, primo comma (semilibertà: il provvedimento può essere in ogni tempo revocato quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento). In tali casi il divieto dei benefici opera sempre per un periodo di tre anni decorrenti, però, da quando è stato emesso il provvedimento di revoca (art. 58-quater, comma 3).

Ciò per sottolineare, anzitutto, come i provvedimenti di revoca di cui all'art. 58-quater, comma 1, sono (o possono essere) pronunciati - salvo che per chi abbia posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 del codice penale - non in conseguenza di contegni oggetto di una specifica descrizione normativa, ma per comportamenti genericamente incompatibili (o inidonei) con la prosecuzione delle misure. E fra tali comportamenti è sicuramente da annoverare la addebitata commissione di un fatto reato, tanto più quando, come nel caso all'esame del giudice a quo, la fattispecie criminosa contestata rientri nelle previsioni del comma 1 dell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.

Ne deriva che quando il comportamento esaurisca la sua significazione debordante dalle esigenze del trattamento nella commissione di un fatto reato, l'accertamento della sussistenza delle condizioni che integrano la revoca non può essere attribuita alla cognizione del magistrato di sorveglianza al quale, però, è da ritenere, spetta la verifica - in relazione alla tipologia di reato addebitato e alle circostanze del fatto - in ordine alla sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 47, undicesimo comma, 47-ter, comma 6, e 51, primo comma, della legge n. 354 del 1975, prima di adottare il provvedimento di sospensione cautelativa (art. 51-ter) che deve, a sua volta, essere "ratificato" dal tribunale di sorveglianza competente per la revoca della misura (art. 70, primo comma).

Il tutto alla stregua della linea interpretativa pressoché costante in giurisprudenza, nel senso che possono essere valutati fatti storici costituenti ipotesi di reato riferibili al condannato, senza necessità di attendere la definizione del relativo procedimento, indipendentemente dalla circostanza che dal comportamento contestato possa derivare o no una condanna penale; perché ciò che conta è la valutazione della condotta del condannato al fine di stabilire se lo stesso - prescindendo dall'accertamento giudiziale della sua responsabilità - sia meritevole dei benefici penitenziari alternativi alla detenzione. Una linea che parrebbe escludere soluzioni alternative, sia perché il decreto del magistrato di sorveglianza è destinato ad essere caducato ove il provvedimento di revoca del tribunale non intervenga entro trenta giorni dalla sospensione della misura sia perché la legge non pare autorizzare il tribunale di sorveglianza a sospendere la decisione.

Vero è che avverso il provvedimento di revoca è consentito il ricorso per cassazione; ma in tale sede le censure che alla Corte di cassazione sarà consentito prendere in esame non potranno che investire l'assenza dei presupposti per la revoca (nei termini peraltro genericamente indicati dagli artt. 47, primo comma, 47-ter, comma 6, 51, primo comma, della legge n. 354 del 1975).

Fa da sola eccezione al detto regime, sempre nell'ipotesi in cui il presupposto da cui è scaturita la revoca della misura si esaurisca nell'addebito di un fatto costituente reato, la disciplina dettata relativamente al delitto di evasione. L'art. 51, quarto comma, ha, infatti, previsto, in via preliminare, come effetto della denuncia per il reato di cui all'art. 385 del codice penale esclusivamente la sospensione della semilibertà e, solo in conseguenza della condanna, la revoca della misura.

4. -- L'effetto ineludibilmente preclusivo additato dal giudice a quo deriva da una non corretta individuazione del regime normativo ed in particolare dei rapporti tra revoca della misura e successiva possibilità di accesso ai benefici di cui all'art. 58-quater, comma 1.

Per restare alla misura della semilibertà, è chiaro che l'inidoneità al trattamento determinata da addebiti non costituenti reato assume i medesimi connotati finalistici rispetto all'inidoneità determinata dall'elevazione di un'imputazione per un fatto costituente reato. Quelli che divergono sono, però, almeno in taluni casi, i poteri cognitori spettanti al tribunale di sorveglianza. Nel primo caso, infatti, ci si troverà in presenza di una cognitio plena, destinata a coinvolgere il fatto addebitato in tutta la sua rilevanza funzionale; nel secondo caso, invece, non potrà scaturire che un giudizio meramente incidentale sull'effettiva consistenza del fatto contestato; ma in entrambi i casi in relazione ad esigenze che appartengono esclusivamente alle finalità del trattamento.

Ne consegue che quando la revoca è determinata da una causa "generica", la questione, assumendo per il tribunale di sorveglianza carattere principale, comporta, almeno di norma, il passaggio in giudicato della relativa statuizione ove avverso di essa non venga proposto ricorso per cassazione. Quando, invece, la revoca derivi da un comportamento costituente reato e il tribunale la disponga solo per la gravità e le caratteristiche di esso in relazione alle esigenze del trattamento, la statuizione, considerata la sua natura incidentale, viene resa soltanto rebus sic stantibus, donde la successiva incidenza della decisione sul fatto-reato ove questa si sostanzi in una pronuncia proscioglitiva e sempre ferma restando per il tribunale di sorveglianza la possibilità di ponderare il fatto in tutte quelle connotazioni che possano incidere sul trattamento.

5. -- Dalle considerazioni che precedono può quindi ricavarsi una prima essenziale conclusione. Che, cioè, la disposizione del comma 2 dell'art. 58-quater (così come quella del comma 1 dello stesso articolo) sia stata non del tutto correttamente chiamata in causa, proprio perché l'impossibilità di usufruire dei "benefici" rappresenta esclusivamente la conseguenza della revoca delle misure alternative.

Dunque, poiché gli effetti derivanti dall'art. 58-quater, commi 1 e 2, scaturiscono soltanto dalla revoca di tali misure, è al terzo comma dello stesso articolo che sarà necessario soprattutto aver riguardo oltre che al regime della revoca delle misure alternative quale delineato dai più volte ricordati artt. 47, undicesimo comma, 47-ter, comma 6, e 51, primo comma, della legge n. 354 del 1975.

Vero è che il giudice a quo ha fondato il giudizio di inammissibilità della richiesta su quella interpretazione della Cassazione la quale ha affermato che, essendo ormai la revoca divenuta definitiva, per la forza di giudicato della statuizione del tribunale di sorveglianza, non sarebbe consentito l'accesso ai benefici se non decorsi i termini indicati nel comma 3 dello stesso art. 58-quater (Sez. I, 9 marzo 1994, Curti). Ma occorre sottolineare come in quella occasione oggetto del gravame era - piuttosto che gli effetti conseguenti alla revoca della misura - la revoca della misura stessa.

Una linea, tuttavia, quella ora segnalata, da ritenere tutt'altro che costante nella giurisprudenza della Corte di cassazione che, in una diversa occasione, chiamata a decidere su un ricorso con il quale il condannato aveva censurato il provvedimento del tribunale di sorveglianza che aveva disatteso la richiesta di ripristino della semilibertà, revocata per un fatto reato in ordine al quale era intervenuta sentenza di assoluzione, anziché richiamarsi alla definitività del provvedimento, ha annullato la relativa ordinanza perché l'indagine che va condotta per stabilire se il detenuto sia meritevole della misura "verte sui risultati del trattamento individualizzato e sull'esistenza delle condizioni che possano garantirne un graduale reinserimento nella società". E, proprio dando rilievo alla sentenza di assoluzione per il reato che aveva provocato la revoca della misura, la Cassazione ha ritenuto "non corretta e non coerente la motivazione posta a fondamento del provvedimento di rigetto"(Sez. I, 27 aprile 1993, Pastafiglia). Così da ribadire come, attesa la natura incidentale della revoca della misura quando venga disposta per l'accusa di un reato, allorché intervenga pronuncia di assoluzione il tribunale è tenuto a verificare se una simile decisione debba o no incidere sulla revoca della misura, consentendo in tal modo il ripristino della misura stessa.

Solo per tale via sarà poi possibile conseguire, anche prima del termine indicato dall'art. 58-quater, comma 3, della legge n. 354 del 1975, l'accesso ai benefici di cui al comma 1 dello stesso articolo.

6. -- Possono, pertanto, cogliersi agevolmente gli errori interpretativi in cui è caduto il giudice a quo.

Il primo di essi va individuato nell'avere sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma che non consente l'accesso ai benefici di cui all'art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975 in caso di revoca della misura alternativa alla detenzione senza previamente verificare - e sulla base del complessivo assetto interpretativo in materia derivante soprattutto dall'esame della giurisprudenza, ma attestandosi ad una isolata pronuncia della Corte di cassazione - se un'ipotetica riammissione ai detti benefici non richieda la rimozione di quel presupposto ostativo che è costituito dalla revoca della misura.

Così da incorrere in un'ulteriore deviazione ermeneutica, per essersi arrogato poteri che, comunque, richiedendo una valutazione dei presupposti ostativi, non possono che competere al tribunale di sorveglianza.

Da ciò è derivato un ulteriore vizio interpretativo indotto dalla giurisprudenza indicata dal giudice a quo. Quello, cioè, di ravvisare nelle pronunce del tribunale di sorveglianza in tema di revoca delle misure alternative la produzione degli effetti propri del giudicato. Senza in alcun modo considerare che mentre tale effetto è, di norma, conseguenziale all'accertamento della impossibilità di proseguire nel trattamento derivante da fatti in ordine ai quali il tribunale di sorveglianza dispone di una cognitio plena, diversa è la situazione che si realizza quando l'interruzione del trattamento derivi da un fatto costituente reato che esaurisca l'intera valenza della interruzione del trattamento penitenziario.

In tal caso, proprio perché la cognizione del tribunale di sorveglianza non può che ridursi ad un giudizio incidentale limitato alle esigenze teleologiche del trattamento (significativo è, sul punto, il richiamato regime adottato in ordine alla misura della semilibertà in caso di reato di evasione alla stregua dell'art. 51, quarto comma, della legge n. 354 del 1975), essendo riservata alla cognizione del giudice penale la verifica della sussistenza del reato, appare evidente che la revoca della misura, da cui dipende l'impossibilità di accesso ai benefici di cui all'art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975, non potrà che commisurare la sua efficacia preclusiva all'esito del giudizio sul fatto reato; sempre ferma restando, ovviamente, la cognizione specifica del tribunale di sorveglianza in ordine ai profili che, nonostante l'assoluzione dell'imputato, possono acquisire una valenza ai fini della riammissione al beneficio.

Il tutto senza che possa assumere rilievo di sorta la circostanza che il condannato abbia provveduto a proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento di revoca, considerati sia i tempi per l'accertamento del reato sia la quasi paradigmatica legittimità, allo stato, di un provvedimento di revoca: donde il rigetto del ricorso quando questo sia stato disposto per fatti di rilevanza penale direttamente incidenti sulla prosecuzione del trattamento.

Che tutto ciò, del resto, risulti conforme al sistema della efficacia delle pronunce di revoca deriva chiaramente dal fatto che la privazione del trattamento non può conseguire se non ad un comportamento addebitabile al condannato e che comunque l'effetto di essa "deve essere proporzionato (oltre che al quantum di afflittività che da essa è derivato) alla gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha determinato la revoca" (v. sentenza n. 306 del 1993).

7. -- Sancita così l'impossibilità di conseguire direttamente dal Magistrato di sorveglianza la riammissione di benefici, l'unica via percorribile al fine di proteggere adeguatamente le finalità di risocializzazione che sono alla base delle misure previste dall'art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è quella di chiedere al tribunale di sorveglianza, sulla base dell'avvenuto proscioglimento, l'eliminazione del provvedimento di revoca a suo tempo disposto.

La norma denunciata si sottrae pertanto alla censura di legittimità, con riferimento sia all'art. 3 che all'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Alessandria con ordinanza del 19 luglio 1995.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 maggio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 maggio 1996.