Sentenza n. 172 del 1996

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SENTENZA N. 172

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), promosso con ordinanza emessa il 12 gennaio 1995 dal Tribunale di Varese nel procedimento civile vertente tra Anelli Sonia e Immobiliare Tunisia Settala s.a.s., iscritta al n. 499 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di costituzione di Anelli Sonia;

udito nell'udienza pubblica del 14 maggio 1996 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

udito l'avvocato Roberto Muggia per Anelli Sonia.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del giudizio civile promosso da Sonia Anelli contro la s.a.s. Immobiliare Tunisia Settala per ottenere la dichiarazione di nullità, con i provvedimenti conseguenti, del recesso dal rapporto di portierato intimatole dalla datrice di lavoro durante il periodo di prova per esito negativo dell'esperimento, mentre la lavoratrice si trovava in stato di gravidanza, la Corte di cassazione, con sentenza 22 aprile 1993, n. 4747, ha annullato la sentenza del Tribunale di Milano confermativa della sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda, formulando il seguente principio di diritto "la disposizione dell'art. 1 del d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026 - recante il regolamento di esecuzione della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sulla tutela delle lavoratrici madri -, secondo cui le norme che vietano il licenziamento di queste ultime non escludono il recesso per esito negativo della prova, è illegittima e, pertanto, quale atto amministrativo, va disapplicata dal giudice ordinario a norma dell'art. 4 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo, stante il suo contrasto con le finalità perseguite dalla legge della cui esecuzione si tratta".

Così interpretati, come non eccettuanti dal divieto di licenziamento il recesso per esito negativo della prova, gli artt. 1 e 2 della legge n. 1204 del 1971 sono impugnati, in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Varese, al quale la causa è stata rinviata, con ordinanza del 12 gennaio 1995 (pervenuta alla Corte costituzionale il 20 luglio 1995), nella parte in cui non prevedono l'eccezione esclusa dal principio di diritto prescritto al giudice di rinvio.

Ad avviso del tribunale rimettente, la normativa impugnata contrasta con l'art. 3 Cost. sia sotto il profilo del principio di eguaglianza, attesa l'analogia del recesso per esito negativo della prova con la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, caso, quest'ultimo, espressamente eccettuato dall'art. 2, terzo comma, lett. c), della citata legge, sia sotto il profilo del principio di ragionevolezza, atteso che il datore di lavoro viene costretto a mantenere in servizio la lavoratrice nonostante che l'esperimento, oggetto del patto di prova, ne abbia dimostrato l'inidoneità alle mansioni per le quali è stata assunta.

Inoltre, in quanto vanificano la tutela che il patto di prova assicura al datore di lavoro, le norme impugnate sono censurate anche per violazione del principio dell'autonomia contrattuale garantito dagli artt. 41 e 42 Cost.

2. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituita la ricorrente chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. Si osserva che il rapporto di portierato non è equiparabile al lavoro domestico e si richiamano le norme di tutela della maternità nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui non escludono dall'ambito normativo del divieto di licenziamento delle lavoratrici in caso di gravidanza e puerperio il recesso dal contratto del datore di lavoro per esito negativo della prova.

L'esclusione è prevista dall'art. 1 del regolamento di esecuzione della legge, approvato con d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026. Ma nel corso del processo a quo la Corte di cassazione ha ritenuto illegittima la norma regolamentare formulando un principio di diritto che vincola il giudice di rinvio a disapplicarla.

2. - In relazione all'art. 1 della legge la questione è inammissibile per una duplice ragione. Anzitutto perché la norma speciale del terzo comma, concernente le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari, è estranea al caso oggetto del giudizio a quo, in cui si tratta di un rapporto di portierato con una società immobiliare, non configurabile come una specie di servizio familiare. In secondo luogo, perché questa norma, additata come tertium comparationis ai fini dell'art. 3 Cost., ha una portata più estesa rispetto alla questione: essa dispone in generale l'inapplicabilità alle lavoratrici domestiche del divieto di licenziamento previsto dal successivo art. 2, mentre per il rapporto di portierato in causa (come per ogni altro rapporto di lavoro diverso da quelli indicati dall'art. 1, terzo comma) l'ordinanza di rimessione tende a escludere dal divieto soltanto il recesso per esito negativo della prova.

3.1. - In relazione all'art. 2, terzo comma, della legge n. 1204 del 1971 la questione è fondata.

Ai fini del principio di eguaglianza non occorre prendere partito in ordine alla costruzione dogmatica del patto di prova. Si costruisca il contratto di lavoro con clausola di prova come fonte di due rapporti, uno - il rapporto in prova - a tempo determinato (cfr. sentenza n. 204 del 1976), ovvero a termine finale incerto con limite massimo di durata, l'altro - il rapporto definitivo - sottoposto a condizione sospensiva negativa (mancato recesso di una delle parti entro il termine massimo della prova), oppure, secondo la concezione tradizionale, come unico rapporto soggetto a condizione potestativa risolutiva (recesso di una delle parti entro il tempo massimo della prova), in ogni caso la dichiarazione di recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova "non può essere propriamente qualificata come licenziamento" (Cass. n. 400 del 1978) ed è invece avvicinabile alla risoluzione del rapporto per scadenza del termine, annoverata dall'art. 2, terzo comma, lett. c), tra i casi ai quali il divieto di licenziamento non si applica. Nei contratti di durata l'avveramento della condizione risolutiva, essendo privo di efficacia retroattiva (art. 1360, secondo comma, cod.civ.), è praticamente equiparato al verificarsi di un termine finale originariamente incerto.

L'art. 1 del regolamento di esecuzione non è che uno svolgimento analitico della terza ipotesi eccettuata dalla legge, mentre l'opposto principio di diritto formulato dalla Corte di cassazione attribuisce alla legge un significato contrastante col criterio di pari trattamento di casi uguali o simili.

3.2. - Ancora più marcata è la violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo del principio di razionalità, sia nel senso di razionalità formale, cioè del principio logico di non contraddizione, sia nel senso di razionalità pratica, ovvero di ragionevolezza.

Poiché il divieto stabilito dalla norma impugnata sospende soltanto il potere di licenziamento, non il rapporto di lavoro, ne consegue che, essendo il recesso per ipotesi nullo, quando sopraggiunge il termine massimo della prova il rapporto diventerebbe automaticamente definitivo malgrado il giudizio non favorevole in merito all'esito dell'esperimento espresso dal datore sulla base di comprovati elementi oggettivi di valutazione. In tal modo, come osserva giustamente il giudice rimettente, la clausola di prova viene vanificata in aperta contraddizione con la facoltà di stipularla attribuita all'autonomia delle parti dall'art. 2096 cod.civ.

Inoltre, contro ogni criterio di ragionevolezza, il datore di lavoro è messo nell'alternativa o di continuare ad accettare (salvo il periodo di interdizione dal lavoro) la prestazione, a lui non conveniente, di una lavoratrice dimostratasi inidonea alle mansioni di assunzione, oppure di rifiutarla ma continuando a pagare la retribuzione pattuita: e ciò almeno fino al compimento di un anno di età del bambino, e sempre che l'inidoneità alle mansioni sia tale da giustificare, dopo questo termine, non semplicemente il recesso ai sensi dell'art. 2096 cod.civ. (ormai non più possibile, essendo il rapporto diventato definitivo), ma il licenziamento ordinario per motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

4. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua della norma impugnata, che si va a pronunciare, non significa che la condizione fisiopsichica in cui versa la lavoratrice non abbia riflessi sulla disciplina del recesso per mancato superamento della prova. L'esonero dall'obbligo di motivazione, secondo la disciplina generale degli artt. 2096 cod.civ. e 10 della legge n. 604 del 1966, vale soltanto se il datore di lavoro provi o comunque (come nel caso di specie) sia acquisita la certezza che al momento del recesso egli ignorava lo stato di gravidanza della lavoratrice, salva a quest'ultima la prova che il licenziamento è stato determinato da altri motivi pur sempre estranei alle finalità dell'esperimento. Altrimenti subentra una disciplina speciale analoga a quella elaborata dalla Corte di cassazione, e condivisa da questa Corte (sent. n. 255 del 1989), per le assunzioni con patto di prova di soggetti avviati obbligatoriamente al lavoro: disciplina fondata sulla ratio di maggiore tutela dei lavoratori che si trovano in condizioni fisiche o sociali di particolare debolezza.

Il datore che risolve il rapporto di lavoro in prova con una lavoratrice di cui, all'atto del recesso, gli è noto lo stato di gravidanza deve spiegare motivatamente le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l'esito dell'esperimento, in guisa da consentire alla controparte di individuare i temi della prova contraria e al giudice di svolgere un opportuno sindacato di merito sui reali motivi del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dalla condizione di donna incinta.

5. - Restano assorbite le censure riferite agli artt. 41 e 42 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non prevede l'inapplicabilità del divieto di licenziamento nel caso di recesso per esito negativo della prova;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge citata, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Varese con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 maggio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 maggio 1996.