Sentenza n. 148 del 1996

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SENTENZA N. 148

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa l'11 gennaio 1995 dal Tribunale di Pistoia sul reclamo proposto da Gentilini Franco contro il curatore del fallimento della UNO s.r.l. ed altri, iscritta al n. 539 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 1996 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

1.-- Nell'ambito di una procedura fallimentare relativa ad una società fallita (la UNO s.r.l.) pendente davanti al Tribunale di Pistoia, il curatore del fallimento forniva al giudice delegato dati circa la sussistenza di fondati elementi di responsabilità a carico degli ex amministratori e degli ex sindaci della società fallita. Sulla base di questi elementi, con istanza dell'8 novembre 1994, il curatore chiedeva al giudice delegato di autorizzarlo ex art. 146, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), ad esercitare le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393 e 2394 del codice civile nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società fallita. Gli prospettava anche l'opportunità che il giudice delegato disponesse ex art. 146, terzo comma, della legge fallimentare le misure cautelari che gli apparivano necessarie.

2.-- Con decreto del 15 novembre 1994, il giudice delegato autorizzava il curatore ad esperire l'azione di responsabilità. Inoltre, recependo le ulteriori prospettazioni del curatore, riteneva necessario garantire con misure cautelari l'efficacia del giudizio che, con la sua autorizzazione, il curatore stava per esperire. Pertanto disponeva il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili nei confronti dei predetti ex amministratori e sindaci e fissava l'udienza del 29 novembre 1994 per l'audizione delle parti in vista della conferma, della modifica o della revoca del decreto. Con ordinanza del 9 dicembre 1994 il giudice delegato confermava il decreto nei confronti di alcuni soggetti, mentre lo revocava o lo dichiarava inefficace nei confronti di altri.

3.-- Uno degli amministratori della società fallita, Gentilini Franco, presentava reclamo al Tribunale ex art. 669-terdecies del codice di procedura civile, assumendo che l'art. 146, terzo comma, della legge fallimentare sarebbe stato abrogato dagli artt. 669-bis e 669-quaterdecies del codice di procedura civile, sicché il giudice delegato sarebbe incompetente a disporre il sequestro. In subordine - per il caso che il Tribunale avesse rigettato la tesi suesposta - il reclamante avanzava eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 146, terzo comma, della legge fallimentare in riferimento al potere di iniziativa di ufficio che tale disposizione attribuisce al giudice delegato. All'udienza dell'11 gennaio 1995 i procuratori del ricorrente e della curatela discutevano sulle questioni oggetto del reclamo.

4.-- Il Tribunale di Pistoia - aderendo all'indirizzo interpretativo attualmente prevalente, ma non unico, in materia - ha escluso che il potere del giudice delegato di disporre ante causam, a tutela del credito della massa dei creditori sulla scorta degli artt. 2393 e 2394 del codice civile, il sequestro conservativo dei beni degli ex amministratori e degli ex sindaci della società fallita previsto dall'art. 146 della legge fallimentare, sia stato abrogato dalla nuova normativa in materia di misure cautelari.

Riteneva, invece, non manifestamente infondata la questione sollevata circa la legittimità costituzionale dell'art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, osservando che l'attribuzione al giudice di un potere di iniziativa costituisce una deroga al principio della domanda che garantisce l'imparzialità del giudizio, poiché assicura il rispetto della normale dialettica processuale, e ritenendo che una deroga in questa materia si giustifichi solo quando il risultato mirato dal legislatore non sia perseguibile con altri strumenti. Pertanto, con ordinanza dell'11 gennaio 1995 rimetteva gli atti alla Corte costituzionale.

5.-- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio e, rilevando che nel caso in esame la deroga agli ordinari principi sulla competenza cautelare ante causam riguarda soltanto la pronuncia della misura cautelare - la quale, anziché al presidente del tribunale, è devoluta alla competenza del giudice delegato - chiedeva che la questione sollevata fosse dichiarata inammissibile o, in subordine, che fosse dichiarata infondata.

Considerato in diritto

1.-- Il Tribunale di Pistoia "dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, prima dell'inizio della causa di merito, le misure cautelari strumentali rispetto all'azione di responsabilità contro gli amministratori e sindaci possono essere disposte d'ufficio dal giudice delegato al fallimento anziché su ricorso del curatore secondo le norme ordinarie, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, coordinato con l'art. 3, e 101, secondo comma, della Costituzione".

2.-- Ai fini della rilevanza della questione occorre osservare che - come correttamente motiva lo stesso giudice rimettente - non può ravvisarsi una "istanza in senso proprio" (con tutti i requisiti formali e sostanziali previsti per l'atto introduttivo di altri procedimenti) nella generica sollecitazione di misure cautelari fatta dal curatore nell'atto con cui richiedeva l'autorizzazione ad agire in giudizio. La libertà delle forme che governa l'attività processuale non toglie che la domanda di parte, in quanto diretta ad instaurare un determinato giudizio nei confronti di un terzo, debba consentire a quest'ultimo di esercitare il diritto di difesa e va pertanto specificamente determinata nei suoi elementi essenziali. D'altra parte, osserva ancora il giudice a quo, "allorquando l'iniziativa è officiosa, l'eventuale richiesta di terzi degrada a mera denuncia".

3.-- Nel merito la questione non è fondata.

Il Tribunale rimettente prende le mosse dall'orientamento - al quale aderisce - di quella parte della giurisprudenza secondo cui, anche dopo l'entrata in vigore della generale disciplina unitaria dei procedimenti cautelari (artt. da 669-bis a 669-quaterdecies cod. proc. civ.), è ancora vigente il terzo comma dell'art. 146 della legge fallimentare, il quale attribuisce al giudice delegato un potere di iniziativa nel disporre le misure cautelari, costituendo una delle ipotesi in cui il nostro ordinamento processuale fa eccezione al principio della domanda di parte.

Ritiene tuttavia il Tribunale che tale norma contrasti con i precetti costituzionali degli articoli 3, 24, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, poiché la predetta eccezione alla regola generale non sarebbe sorretta da una effettiva e inderogabile giustificazione (quella dell'interesse pubblico della massa dei creditori), potendo "lo stesso risultato essere garantito attraverso diversi strumenti tecnici".

Secondo l'ordinanza di rimessione la norma, come sopra interpretata in modo non implausibile, determinerebbe la violazione del principio di ragionevolezza ed un vulnus alla tutela giurisdizionale poiché, anche in questa ipotesi, si verificherebbe quanto già affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 133 del 1993, e cioè una "deroga alla regola di terzietà del giudice" ed alla "normale dialettica processuale, sia perché la domanda introduttiva del giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto della decisione, sia perché il contraddittorio non si instaura in condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro".

4.-- Va subito precisato a quest'ultimo proposito che la fattispecie oggetto della sentenza costituzionale, alla quale si richiama il giudice a quo, aveva ad oggetto un potere d'impulso processuale nell'ambito di una normativa in cui l'anomalia dell'attore-giudice era il riflesso dell'anomalia della veste di amministratore-giudice allora riconosciuta al Commissario per gli usi civici.

Nel presente caso, invece, il giudice delegato non "formula la domanda introduttiva del giudizio", ma emette un provvedimento consequenziale all'istanza del curatore di essere autorizzato ad introdurre il giudizio di responsabilità; e, una volta ritenuta la necessità di garantire con misure cautelari l'efficacia del giudizio che il curatore chiede di introdurre, il giudice delegato dà avvio ad un contraddittorio che, sia pure con alcune connotazioni peculiari alla procedura concorsuale, si svolge tra le parti portatrici degli interessi contrapposti del rapporto sostanziale.

5.-- A prescindere dal riferimento fatto al citato precedente di questa Corte, le censure sollevate con l'ordinanza di rimessione non possono essere condivise.

Il diritto alla tutela giurisdizionale è ascrivibile tra i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed è connesso al principio di democrazia nell'assicurare per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio (sentenza n. 18 del 1982); ma tale diritto non risulta violato in materia processuale quando gli strumenti apprestati dalla legge, sia pure con diverse modulazioni dipendenti dall'adattamento alla struttura di ciascun procedimento, salvaguardino nella sua essenza l'esercizio del diritto stesso (ex plurimis sentenze nn. 214 del 1974, 27 del 1966 e 5 del 1965).

Più recentemente la Corte ha avuto diverse occasioni - specie in materia penale - di sottolineare l'importanza dei principi dell'imparzialità e della terzietà del giudice, per la salvaguardia dei diritti di difesa e della uguaglianza dei cittadini, che hanno fondamento negli articoli 3, 24 e 101 della Costituzione (sentt. nn. 455 del 1994, 133 del 1993, 299 del 1992, 502 e 390 del 1991).

6.-- La delicata materia cautelare - in cui questa Corte è intervenuta numerose volte specie per le misure penali - assume anche nel settore civile particolare rilievo, dal momento che essa può incidere in modo grave, sia pure provvisoriamente, su diritti dei soggetti passivi, sulla base di una istruttoria sommaria e senza sicurezza di eliminazione totale degli effetti, una volta rimossi i provvedimenti stessi. Questo potere, pertanto, specie se consentito per iniziativa officiosa, assume carattere eccezionale anche per i giudici ordinari, e viene del tutto escluso per gli arbitri (art. 818 cod. proc. civ.). Il legislatore ha poi ritenuto di dovere disciplinare unitariamente i procedimenti cautelari civili (prima regolati in modo disomogeneo e frammentario) con la novella del 1990, che si connota per il rispetto del contraddittorio e degli altri strumenti di difesa, e risponde all'esigenza (v. Relazione 23 febbraio 1990 della Commissione giustizia del Senato) di "evitare che, a fronte di una crescente domanda di provvedimenti implicanti cognizione sommaria, le differenze strutturali e le lacune delle rispettive discipline si traducano in una abnorme ampiezza dei confini delle opzioni ermeneutiche".

7.-- La specifica disciplina fallimentare - pur dopo numerosi interventi della giurisprudenza costituzionale (tra le altre: sentenze nn. 201 e 100 del 1993; 570, 567, 408 e 204 del 1989; 127 e 46 del 1975), ispirati ad una corretta aderenza del processo fallimentare ai principi costituzionali, soprattutto per il rispetto del diritto di difesa (in particolare le sentenze nn. 538 del 1990; 120 e 102 del 1986; 155 e 151 del 1980; 110 del 1972; 142 e 141 del 1970) - è caratterizzata da aspetti pubblicistici e dalla tendenziale esigenza di maggiore speditezza del processo.

In questo contesto, sono affidati al giudice delegato vari poteri (direttivi, decisori e di controllo), nell'esercizio dei quali non è stata ravvisata violazione dei precetti costituzionali dell'imparzialità e dell'indipendenza del giudice delegato, quando ciò risponda all'esigenza di assicurare il rapido svolgimento ed il miglior rendimento dell'attività giurisdizionale, senza pregiudicare le decisioni del tribunale, e quando il giudice sia in grado di operare con assoluta obiettività (sentenze nn. 158 e 94 del 1975).

In coerenza con le predette caratteristiche del processo fallimentare e delle funzioni del giudice delegato, il nostro sistema prevede alcuni interventi officiosi; a proposito dei quali, limitatamente al profilo costituzionale e con riguardo alla peculiare questione che forma oggetto specifico del presente giudizio, si rende necessaria qualche precisazione.

8.-- L'art. 146 della legge n. 267 del 1942 attribuisce al giudice delegato un potere autorizzatorio ed uno cautelare, entrambi strumentali a quel giudizio di responsabilità che non soggiace alla vis attractiva fallimentare ed ha soggetti diversi rispetto a quelli della procedura concorsuale. Per la sua genericità, la norma stessa ha dato luogo ad una serie di questioni, oggetto di ampio dibattito dottrinale e di interpretazioni giurisprudenziali discordi. Si è fatto, tra l'altro, notare che l'esercizio di un potere eccezionale ed officioso nel procedimento giudiziario implica che esso sia ravvisabile nei casi tassativi in cui la norma chiaramente lo preveda, debba essere interpretato restrittivamente ed applicato con le garanzie offerte dall'ordinamento; inoltre si è rilevato che la legge non configura una competenza del giudice delegato in tema di misure cautelari quando allo stesso sia analogamente richiesta l'autorizzazione all'esercizio di azioni revocatorie fallimentari.

In ogni caso, chiarire l'effettiva portata dell'art. 146, terzo comma, della legge fallimentare (che non precisa - a differenza dell'art. 151, sesto comma - se il potere di disporre le misure cautelari sia esercitabile ex officio o su istanza di parte), e stabilire quali effetti siano derivati alla vigenza della norma denunziata a seguito della sopravvenuta legge n. 353 del 1990, contenente la disciplina generale dei procedimenti cautelari, resta affidato all'interpretazione del giudice ordinario e specialmente del supremo organo di nomofilachia.

9.-- In questa sede quindi non è consentito prendere posizione sui problemi di coordinamento tra la normativa generale e quella speciale, e ciò non sarebbe comunque necessario dal momento che, anche a ritenere officioso il potere di disporre misure cautelari di cui si discute e non applicabile la sopravvenuta disciplina del 1990, tale interpretazione non appare a questa Corte viziata da una esasperata concezione pubblicistica che menomi il diritto di tutela giurisdizionale costituzionalmente garantito.

Va infatti ribadito, anzitutto, che il principio di iniziativa processuale di parte (art. 2907 del cod. civ.) ammette eccezioni, sempre che queste non determinino ingiustificate limitazioni al diritto di difesa. Inoltre, pur se la norma denunziata sia interpretata come sopra, non è esatta la censura di illegittimità in quanto al giudice delegato verrebbe in tal modo attribuito il potere di introdurre, e contestualmente concludere, il procedimento cautelare. In realtà, l'intervento eccezionale del giudice delegato per tutelare urgentemente interessi della massa dei creditori può considerarsi compatibile con la salvaguardia dei principi costituzionali ritenendo che alla tempestiva limitazione della sfera giuridica dei soggetti gravati dalla misura cautelare subentri l'immediata restaurazione di un sufficiente rispetto del contraddittorio.

Come, invero, si deduce chiaramente dalla stessa rapida sequenza degli atti processuali posti in essere nel caso di specie, il giudice dispone le opportune misure cautelari attraverso una serie di garanzie per il diritto di difesa, sia pure con adattamenti specifici alla peculiare materia: a) tale potere viene esercitato "nell'autorizzare l'azione di responsabilità" (art. 146, terzo comma), e cioè prima della instaurazione del giudizio di merito, sulla base della dettagliata istanza del curatore circa gli elementi emersi sulla responsabilità degli amministratori e sul periculum in mora; b) anche se la misura viene disposta d'ufficio, il giudice convoca subito le parti per sentirle e decidere conseguentemente se confermare, modificare o revocare la misura stessa (nella specie, il giudice delegato - sulle dichiarazioni delle parti - confermava il decreto nei confronti di alcuni soggetti, mentre lo revocava e lo dichiarava inefficace nei confronti di altri); c) avverso questi provvedimenti sono ammessi i normali mezzi di impugnazione, a cominciare dall'immediato reclamo al collegio; d) quest'ultimo riesamina ogni aspetto alla luce della discussione dei soggetti interessati, ed emette una decisione che produce le normali conseguenze, non esclusa quella relativa alla soccombenza di una delle parti.

10.-- Può allora conclusivamente ritenersi che, nell'esercizio di questo potere, il giudice delegato, pur tenendo conto degli elementi risultanti dall'istanza del curatore e con l'ulteriore ausilio di sommarie e dirette informazioni, agisca non come attore, ma nella sua veste giurisdizionale e quindi super partes, valutando i requisiti che devono essere la sicura base di qualsiasi provvedimento cautelare (il fumus boni juris ed un effettivo periculum in mora), sentendo le parti - seppure dopo l'adozione del provvedimento per non pregiudicare l'attuazione della misura stessa - e sempre con la garanzia dei successivi mezzi di impugnazione.

Anche ai fini di questo successivo riesame, il giudice deve motivare sulla ricorrenza in concreto dei requisiti che legittimano il provvedimento, nonché sugli elementi di fatto e di diritto (da versare negli atti del giudizio principale) che giustificano quelle misure cautelari da lui ritenute "opportune". Quest'ultima espressione è stata usata dalla norma non come equivalente di misura "conveniente" ad una parte, ma nel significato - quello più obiettivo, che si addice ad un provvedimento giudiziale - dell'equilibrata adeguatezza (anche nella scelta del tipo e nella quantità della misura) a tutti gli interessi in gioco, e quindi in relazione ai diversi soggetti coinvolti, alle responsabilità degli stessi ed alle varie conseguenze delle misure adottate.

In questo procedimento, pertanto, i soggetti passivi delle misure cautelari vengono a trovarsi in contraddittorio, non col mero convincimento di un giudice-attore, ma con gli interessi e le ragioni sostenute dalla controparte, e con strumenti processuali, certo peculiari per la specificità della materia, ma pur sempre sufficienti a garantire la tutela del diritto di difesa, sia sotto il profilo della terzietà del giudice, sia per l'essenziale dialettica processuale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione dal Tribunale di Pistoia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 maggio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria l'8 maggio 1996.