Sentenza n. 131 del 1996

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SENTENZA N. 131

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 20 settembre 1995 dal Tribunale di Bolzano, il 22 e il 27 settembre 1995 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, il 27 settembre 1995 dal Tribunale di Vicenza, il 3 ottobre 1995 dal Tribunale di Verbania, il 29 settembre 1995 dal Tribunale di Oristano, il 3 e il 10 ottobre 1995 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, il 12 ottobre 1995 dal Tribunale di Avellino, il 27 settembre 1995 dal Tribunale di Savona, il 6 ottobre 1995 dalla Corte di Assise di Varese, il 2 ottobre 1995 dal Tribunale di Benevento, il 12 ottobre 1995 dal Tribunale di Brescia, il 12 ottobre 1995 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere e il 5 ottobre 1995 dal Tribunale di Torino, rispettivamente iscritte ai nn. 785, 788, 798, 815, 826, 827, 831, 837, 839, 842, 848, 849, 880, 881 e 894 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 48, 49, 50, 52 e 53, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di costituzione di Vito Saccani;

udito nell'udienza pubblica del 20 febbraio 1996 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;

uditi gli Avvocati Paolo Fava e Beniamino Migliucci per Vito Saccani.

Ritenuto in fatto

 

1. -- In un giudizio penale in fase dibattimentale il Tribunale di Bolzano ha sollevato, con ordinanza del 20 settembre 1995 (R.O. 785 del 1995), questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, che concerne l'incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice che abbia fatto parte del collegio del tribunale del riesame (art. 309 cod. proc. pen.) o dell'appello (art. 310 cod. proc. pen.) in tema di misure cautelari personali, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Muovendo dal rilievo che tutti i componenti del collegio costituito per il dibattimento hanno altresì fatto parte del collegio del tribunale che si è pronunciato, in diverse occasioni, sia in sede di riesame che di appello, sulle impugnazioni avverso ordinanze in tema di custodia cautelare emesse dal giudice per le indagini preliminari nei confronti dell'imputato, e che in tali occasioni gli stessi giudici hanno effettuato una "innegabile valutazione di merito", il Tribunale rimettente osserva che la motivazione della sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità del medesimo art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato, induce a ritenere non manifestamente infondata la questione sopra riferita; anche con riguardo alla pregressa partecipazione al collegio del riesame o dell'appello de libertate, infatti, ad avviso del giudice a quo, si delineano, in giudizio, i possibili effetti che la previsione normativa sull'incompatibilità mira ad impedire, cioè, secondo l'enunciato della citata sentenza n. 432 del 1995, che "...la valutazione conclusiva sulla responsabilità dell'imputato sia, o possa apparire, condizionata dalla cosiddetta forza della prevenzione, e cioè da quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento".

Ne segue, pertanto, la proposizione dell'accennata questione di costituzionalità, la cui rilevanza nel giudizio a quo risiede - conclude il rimettente - nel fatto che, nell'ipotesi di accoglimento, si configurerebbero un obbligo di astensione e un motivo di ricusazione del giudice.

1.1. -- Nel giudizio così promosso si è costituito l'imputato Vito Saccani che, nell'atto di costituzione, ha concluso per l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale, sottolineando che i componenti del collegio che deve giudicare nel merito dell'addebito hanno già valutato la posizione dell'imputato in sede di riesame e di appello, esprimendosi sul punto della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza; dunque le argomentazioni contenute nella sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale sono valide anche per il caso, analogo, in questione.

2. -- Con cinque ordinanze di analogo contenuto (R.O. 788, 798, 831, 837 e 881 del 1995), emesse, nel corso di altrettanti distinti giudizi penali in fase dibattimentale, in date 22 e 27 settembre e 3, 10 e 12 ottobre 1995, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a svolgere le funzioni di giudice del dibattimento dei componenti del collegio del tribunale che, in sede di riesame di una misura cautelare personale, abbia ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza di cui all'art. 273 cod. proc. pen. e che abbia perciò confermato il provvedimento applicativo della misura.

Nelle ordinanze di rinvio il giudice a quo premette, in fatto, che nei rispettivi processi il collegio per il giudizio dibattimentale è composto anche da uno (R.O. 831 e 837 del 1995) o due (R.O. 788 e 881 del 1995) ovvero in toto dai medesimi (R.O. 798 del 1995) componenti il collegio che precedentemente, a seguito di richiesta di riesame, aveva, in ciascun procedimento, ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, a norma dell'art. 273 cod. proc. pen., confermando (ovvero parzialmente riformando: R.O. 788 del 1995; ma non sul punto del fondamento indiziario) le ordinanze impugnate.

La prospettazione del rimettente si basa sulla sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, che, modificando il proprio precedente orientamento (sentenza n. 502 del 1991), ha ritenuto che la valutazione espressa dal giudice per le indagini preliminari in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, in sede di adozione di una misura cautelare personale, involgendo un giudizio di merito sull'idoneità degli elementi probatori raccolti a fondare una elevata probabilità di condanna, si riflette necessariamente sulla serenità e imparzialità del giudizio, e radica pertanto un motivo di incompatibilità.

Le argomentazioni e le conclusioni della citata sentenza n. 432 del 1995 varrebbero pure nel caso della partecipazione al collegio del tribunale del riesame, che procede anch'esso, al pari del giudice per le indagini preliminari che applica la misura, alla valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi ex art. 273 cod. proc. pen., con gli amplissimi poteri riconosciuti dall'art. 309 del codice di rito. Ne segue che, verificandosi l'identità, parziale o totale, tra i componenti del tribunale del riesame e i componenti il collegio dell'udienza dibattimentale, si concretizzano le ragioni di incompatibilità, in particolare il pericolo di "prevenzione", su cui si basa la citata declaratoria di incostituzionalità nell'ipotesi assunta a raffronto.

Ragioni di incompatibilità, conclude il Tribunale, contrastanti con i principi costituzionali di eguaglianza (art. 3), di inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma) e di presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma). Ad ammettere l'identità del giudice nella situazione dedotta nei giudizi a quibus, infatti, si creerebbe una disparità di trattamento, a danno degli imputati giudicati da giudici "prevenuti" (nel senso detto nella sentenza n. 432 citata: naturalmente orientati a confermare un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento), rispetto a quelli giudicati da collegi non "prevenuti"; con pregiudizio sia delle garanzie difensive, sia della garanzia del diritto dell'imputato a non essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

3. -- Sul rilievo che due componenti del tribunale per il riesame (che aveva respinto la relativa richiesta proposta dall'imputato avverso l'ordinanza applicativa di una misura cautelare personale) sono altresì componenti del collegio per il dibattimento, il Tribunale di Vicenza, con ordinanza del 27 settembre 1995 (R.O. 815 del 1995), solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede in tale ipotesi una causa di incompatibilità, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione. La censura è prospettata assumendosi l'analogia della situazione detta con quella considerata nella sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, rappresentandone elemento comune l'"effetto" di prevenzione sottolineato nella citata sentenza.

4. -- Questione analoga è sollevata dal Tribunale di Verbania, con ordinanza del 3 ottobre 1995 (R.O. 826 del 1995), data la presenza, nel collegio per il dibattimento, di due giudici in precedenza componenti il tribunale del riesame nei relativi giudizi incidentali de libertate. Il giudice del riesame, si osserva, ha il potere di esaminare e valutare il quadro su cui si fonda la misura applicata dal giudice per le indagini preliminari in modo autonomo e tenendo anche conto di elementi sopravvenuti, per cui, data la sostanziale sovrapposizione dei rispettivi ambiti di apprezzamento, la ratio della sentenza n. 432 del 1995 citata va estesa al caso in discorso, pena la lesione del valore costituzionale del giusto processo e del diritto di difesa che ne è componente, nonché del principio di eguaglianza, sotto il profilo della disparità di trattamento tra imputati giudicati da un magistrato che ha già effettuato una valutazione di merito (per quanto prognostica e allo stato degli atti) e imputati giudicati da un magistrato che non ha formulato alcun giudizio preventivo.

5. -- Il Tribunale di Oristano solleva analogo incidente di costituzionalità, con ordinanza del 29 settembre 1995 (R.O. 827 del 1995), in quanto l'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. non prevede la causa di incompatibilità, per il giudice dibattimentale, consistente nell'aver preso parte alle decisioni assunte dal tribunale c.d. della libertà nel corso del medesimo procedimento, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione.

Previa enunciazione del fatto da cui trae origine il quesito, vale a dire la circostanza che tutti i componenti del collegio hanno in precedenza partecipato a giudizi incidentali de libertate (senza precisazione se in sede di riesame o di appello), il rimettente sottolinea che recentemente la Corte costituzionale, modificando un precedente avviso (sentenze nn. 502 del 1991 e 124 del 1992), è pervenuta alla conclusione della sussistenza dell'incompatibilità nella relazione tra funzione di giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale e funzione di giudice del dibattimento, valorizzando, della prima funzione, i connotati di valutazione sul merito, idonei appunto a delineare un pregiudizio.

Non diversa - prosegue il rimettente - è la posizione del collegio investito del riesame o dell'appello in tema di misure cautelari, che è chiamato a compiere una verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e dunque un giudizio, pur se prognostico e allo stato degli atti, che va qualificato di merito, al pari di quello che si effettua in sede di adozione della misura. Del resto, il tribunale della libertà ha la stessa ampia conoscenza degli atti che ha il giudice per le indagini preliminari e può deliberare in base a elementi nuovi o comunque diversi da quelli posti a sostegno della misura adottata.

L'analogia tra i due casi delinea perciò il sospetto di incostituzionalità per le stesse ragioni poste a base della decisione citata, e altresì per disparità di trattamento tra casi, appunto, analoghi, ex art. 3 della Costituzione.

6. -- Il Tribunale di Avellino solleva, con ordinanza del 12 ottobre 1995 (R.O. 839 del 1995), questione analoga, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, assumendo anch'esso a termine di riferimento la statuizione di cui alla sentenza n. 432 del 1995 già citata, in rapporto all'ipotesi, verificatasi nel giudizio a quo, di presenza di uno stesso giudice nel collegio del riesame e poi in quello del dibattimento.

7. -- Anche il Tribunale di Savona, con ordinanza del 27 settembre 1995 (R.O. 842 del 1995) impugna l'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, prospettando l'incostituzionalità della mancata previsione dell'incompatibilità a giudicare in dibattimento per il componente del collegio del Tribunale "della libertà". Pur ritenuta in precedenza infondata dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 502 del 1991) e dalla giurisprudenza ordinaria di legittimità, la questione si impone ora a seguito del dichiarato mutamento espresso con la sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, che, nella motivazione, ha espressamente formulato una valutazione di analogia tra l'ipotesi ora dedotta e quella oggetto della sentenza; la rilevanza della questione nel caso specifico sta nel fatto che due componenti del collegio rimettente hanno fatto parte del collegio costituito ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., e sarebbero pertanto passibili di istanza di ricusazione.

8. -- La Corte d'Assise di Varese, con ordinanza del 6 ottobre 1995 (R.O. 848 del 1995) solleva questione in termini sostanzialmente coincidenti con quelli sopra detti: è di dubbia costituzionalità, ad avviso del giudice a quo, la mancata previsione dell'incompatibilità al giudizio dibattimentale per il componente del collegio del tribunale per il riesame che si sia pronunciato - nella specie, in sede di appello, ex art. 310 cod. proc. pen., e con esito di rigetto dell'impugnazione dell'indagato - nel medesimo procedimento in ordine a provvedimenti in materia di libertà personale adottati dal giudice per le indagini preliminari. Anche qui, l'ordinanza di rinvio assume a termine di riferimento la sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, "diametralmente opposta", nella motivazione e nella statuizione, rispetto ai precedenti sulla stessa questione (sentenze nn. 502 del 1991 e 124 del 1992), e si incentra sull'analogia tra funzione del giudice per le indagini preliminari e funzione del tribunale del riesame, ai fini della valutazione contenutistica degli indizi e della cognizione ampia degli atti di indagine che radica l'incompatibilità per anticipazione del giudizio di merito.

9. -- Il Tribunale di Benevento solleva la medesima questione, con ordinanza del 2 ottobre 1995 (R.O. 849 del 1995), in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, in un giudizio dibattimentale che vede presenti nel collegio due componenti del tribunale del riesame che ha in precedenza pronunciato su richieste ex art. 309 cod. proc. pen., confermando in parte le misure cautelari personali applicate dal giudice per le indagini preliminari. Ancora una volta, l'ordinanza di rinvio argomenta dalla sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale più volte citata, per desumerne la censura, stante la possibilità di estendere le argomentazioni ivi contenute anche all'ipotesi del binomio tribunale del riesame - giudice del dibattimento, come del resto "suggerisce" la stessa sentenza. A tale fine, il rimettente sottolinea alcuni aspetti caratterizzanti il giudizio di riesame ex art. 309 cod. proc. pen., che fanno risaltare l'ampiezza e la completezza della cognizione del tribunale in tale sede; tratti ulteriormente sottolineati dalla recente legge n. 332 del 1995, che ha previsto che al collegio del riesame debbano essere trasmessi non solo gli atti presentati dall'accusa all'atto di richiedere la misura, ma anche tutti gli elementi sopravvenuti a favore dell'indagato.

10. -- Il Tribunale di Brescia impugna con ordinanza del 12 ottobre 1995 (R.O. 880 del 1995) l'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., sempre sulla scorta della sentenza n. 432 del 1995 della Corte costituzionale, e sempre in riferimento ai parametri degli artt. 3 e 24 della Costituzione, con riguardo all'ipotesi, verificatasi nel giudizio a quo, di identità di composizione del collegio del riesame e di quello del dibattimento.

11. -- Anche il Tribunale di Torino solleva, infine, questione di costituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., secondo una prospettiva analoga a quella sopra detta, con ordinanza del 5 ottobre 1995 (R.O. 894 del 1995), in ipotesi - anche qui - di identica composizione dei collegi rispettivamente del riesame e del giudizio dibattimentale, nonché, più specificamente, di conferma del provvedimento cautelare da parte del primo, anche sotto il profilo della sussistenza degli indizi di colpevolezza.

Considerato in diritto

 

1. -- Le quindici ordinanze indicate in epigrafe sollevano questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, che regola l'incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento, nella parte in cui non esclude dal giudizio dibattimentale il giudice che abbia fatto parte del collegio del tribunale del riesame (art. 309 cod. proc. pen.) o dell'appello (art. 310 cod. proc. pen.), chiamato a pronunciarsi su provvedimenti in materia di misure cautelari personali.

Tale omissione, ad avviso comune dei giudici rimettenti, violerebbe gli articoli 3, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione in quanto distinguerebbe irrazionalmente l'ipotesi in questione da altre analoghe dove vale l'incompatibilità, determinando una disparità di trattamento a seconda che nella composizione del giudice del dibattimento figurino o non figurino giudici che abbiano partecipato al collegio del riesame o dell'appello in tema di misure cautelari personali, con violazione del diritto di difesa e, in generale, della garanzia del giusto processo, nonché del diritto dell'imputato a non essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva.

2. -- La suddetta questione di legittimità costituzionale è posta in termini identici o analoghi in tutte le ordinanze di rimessione. I relativi giudizi possono pertanto essere riuniti per essere decisi con la medesima sentenza.

3. -- La questione è fondata.

3.1. -- Il "giusto processo" - formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio - comprende l'esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel carattere di "terzietà" che connota nell'essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l'effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio.

Le norme sulla incompatibilità del giudice sono funzionali al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione e ciò ne chiarisce il rilievo costituzionale.

Questa Corte, in numerose pronunce, ha affermato che le incompatibilità dei giudici determinate da ragioni interne allo svolgimento del processo sono finalizzate a evitare che condizionamenti, o apparenze di condizionamenti, derivanti da precedenti valutazioni cui il giudice sia stato chiamato nell'ambito del medesimo procedimento, possano pregiudicare o far apparire pregiudicata l'attività di "giudizio" (non anche altre attività processuali anteriori o propedeutiche al giudizio: ordinanza n. 24 del 1996, sentenza n. 401 del 1991). E, come questa Corte ha precisato (sentenze nn. 439 del 1993, 261 del 1992; ordinanza n. 180 del 1992; sentenza n. 502 del 1991), con tale locuzione deve intendersi non il solo giudizio dibattimentale ma qualsiasi tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base a un esame delle prove pervenga a una decisione di merito, compreso quello che si svolge con il rito abbreviato.

La portata generale di tale affermazione è stata fatta oggetto di una quadruplice precisazione.   

Innanzitutto, il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res judicanda (sentenze nn. 455 del 1994, 439 del 1993, 186 e 124 del 1992).

In secondo luogo - per quanto l'architettura del nuovo rito penale richieda che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento - rilevante ai fini della incompatibilità non è la semplice "conoscenza" di atti anteriormente compiuti, riguardanti il processo: l'incompatibilità sorge quando il giudice sia stato chiamato a compiere una "valutazione" di essi, al fine di una decisione (sentenze nn. 455 e 453 del 1994, 186 e 124 del 1992 e 502 del 1991).

In terzo luogo, non tutte le valutazioni anzidette danno luogo a un pregiudizio rilevante ma solo quelle "non formali, di contenuto", cosicché le condizioni dell'incompatibilità si determinano quando il giudice si sia pronunciato su aspetti che riguardano il merito dell'ipotesi d'accusa, ma non anche quando abbia preso determinazioni soltanto in ordine allo svolgimento del processo, sia pure in seguito a una valutazione delle risultanze processuali (ordinanza n. 24 del 1996; sentenze nn. 455 e 453 del 1994; ordinanza n. 157 del 1993; sentenze nn. 339, 186 e 124 del 1992).

Infine, le valutazioni in questione, rilevanti ai fini dell'insorgere dell'incompatibilità, appartengono a fasi diverse del processo, essendo più che ragionevole che, in ciascuna di esse, sia preservata l'esigenza di continuità e di globalità. Essa comporta che il giudice sia investito delle valutazioni, tanto formali che di contenuto, che a tale fase attengono e che ne costituiscono lo svolgimento procedimentale. Conseguentemente, il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre in incompatibilità tutte le volte in cui compie valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva (sentenza n. 448 del 1995). In caso contrario, si determinerebbe una "assurda frammentazione" del procedimento - inteso quale "ordinata sequenza di atti, ciascuno dei quali legittima, prepara e condiziona quello successivo" -, con l'aberrante conseguenza di dover disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi, quanti sono gli atti da compiere (ordinanza n. 24 del 1996; sentenza n. 124 del 1992).

3.2. -- La disciplina legislativa dell'incompatibilità del giudice, stabilita nell'art. 34 cod. proc. pen. alla stregua della direttiva al legislatore delegato contenuta nell'art. 2, numero 67), della legge n. 81 del 1987, si fonda sulla necessità di evitare la duplicazione di giudizi della medesima natura presso lo stesso giudice e quindi sulla suddetta esigenza di proteggere il giudizio del merito della causa dal rischio di un pregiudizio, effettivo o anche solo potenziale, derivante da valutazioni di sostanza sulla ipotesi accusatoria, espresse in occasione di atti compiuti in precedenti fasi processuali. E, nello svolgimento della medesima esigenza, questa Corte, a iniziare dalla sentenza n. 496 del 1990, ha provveduto in varie circostanze a integrare le lacune costituzionalmente illegittime, contenute nell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, statuendo che l'incompatibilità alla partecipazione al giudizio deve valere anche in ipotesi non espressamente contemplate. Esse riguardano principalmente il giudice per le indagini preliminari, tanto presso la pretura che presso il tribunale, che abbia pronunciato l'ordine al pubblico ministero di formulare l'imputazione (oltre alla già menzionata sentenza n. 496 del 1990, sentenze nn. 502 e 401 del 1991); il rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna per inadeguatezza della pena (sentenza n. 502 del 1991); il rigetto, in diverse circostanze, della richiesta di applicazione di pena concordata (sentenze nn. 439 del 1993, 339, 186 e 124 del 1992); il rigetto della domanda di oblazione (sentenza n. 453 del 1994). Ma il principio dell'incompatibilità fatto valere da questa Corte si estende al di là del rapporto tra il giudice per le indagini preliminari e il giudice del giudizio, come mostra la riconosciuta incompatibilità al giudizio del giudice che, come componente del collegio del tribunale, ha pronunciato l'ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero, perché il fatto risulta diverso da come contestato (sentenza n. 445 del 1994).

Infine, con la sentenza n. 432 del 1995 - alla quale tutte le ordinanze di rimessione fanno espresso riferimento e che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame - questa Corte ha ritenuto che i principi in precedenza affermati valgano non solo nel rapporto tra fasi diverse del giudizio ma anche nel rapporto tra assunzione di provvedimenti cautelari personali e giudizio sul merito dell'imputazione. Superando il suo precedente orientamento, volto a configurare il merito dell'accusa e le cautele come àmbiti distinti per oggetto e funzione e a escludere conseguentemente che le pronunce sulla libertà personale, comprese quelle assunte in sede di riesame o di appello, comportassero valutazioni idonee a tradursi in un giudizio che interferisce con quello sul merito della res judicanda, tale da compromettere (o far apparire compromessa) l'imparzialità della decisione conclusiva sulla responsabilità dell'imputato (sentenza n. 124 del 1992; ordinanza n. 516 del 1991 e sentenza n. 502 del 1991), questa Corte ha considerato viceversa che tale pregiudizio possa verificarsi, in quanto le pronunce cautelari presuppongono sempre un giudizio prognostico di segno positivo sulla responsabilità, ancorché basato su indizi e non ancora su prove.

Sull'anzidetto sviluppo giurisprudenziale è stato influente il mutamento del quadro normativo determinato non solo dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ma anche dalla legge 8 agosto 1995, n. 332. La nuova disciplina oggi in vigore, per potenziare le garanzie della libertà personale nel processo penale e valorizzare l'eccezionalità delle misure restrittive della stessa, richiede un giudizio probabilistico in ordine alla colpevolezza, assai più approfondito che non in passato e tale da superare, ai fini della valutazione circa l'esistenza del pregiudizio in ordine alla decisione sulla responsabilità, la distinzione tra valutazioni di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, e giudizio sul merito dell'accusa in sede dibattimentale. Il comma 1 dell'art. 273 cod. proc. pen. stabilisce, come presupposto comune a tutte le misure cautelari personali che possono essere disposte nei casi previsti dall'art. 274 cod. proc. pen., l'esistenza di "gravi indizi di colpevolezza" (in ciò differenziandosi dalla previsione dei "sufficienti indizi", contenuta nel codice previgente) e l'art. 292, comma 2, lettera c), cod. proc. pen. richiede al giudice che dispone la misura cautelare di esporre "gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza". E, alla pregnanza delle valutazioni richieste al fine di pervenire alla misura, con la riforma contenuta nella citata legge del 1995, si è aggiunta l'esigenza che il giudice esponga altresì "i motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi di prova forniti dalla difesa" (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.) e, oltre alla valutazione negativa circa l'esistenza di condizioni che legittimerebbero il proscioglimento in conseguenza dell'esistenza di cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato o della pena (art. 273, comma 2, cod. proc. pen.), si è espressamente prevista altresì la valutazione circa l'impossibilità per l'imputato di ottenere, con la sentenza di condanna (nemmeno indicata come "eventuale"), la sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2-bis, introdotto dalla ricordata riforma del 1995).

In questo quadro, così mutato rispetto al codice previgente e anche rispetto alla formulazione originaria del codice attuale - indipendentemente dal rapporto funzionale e strutturale esistente tra procedimenti cautelari e processo di cognizione - questa Corte, guardando alla sostanza, ha riconosciuto che le valutazioni compiute dal giudice in relazione all'adozione di una misura cautelare personale comportano un pregiudizio sul merito dell'accusa: tali valutazioni infatti, secondo le norme vigenti, devono indurre il giudice a ritenere l'esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di colpevolezza e quindi di condanna dell'imputato e, addirittura, di condanna ad una pena superiore a quella che consente la concessione della sospensione condizionale della pena.

La garanzia della libertà personale, secondo la linea direttiva della Costituzione, richiede che le misure limitatrici siano prese con il massimo di prudenza e, per questo, si prevede il suddetto, incisivo giudizio prognostico, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché condotto "allo stato degli atti" e non su prove ma su indizi. Ma proprio l'intensità di tale garanzia in sede cautelare, se non ne seguisse il divieto, per il giudice che si è pronunciato in quella sede, di prendere parte al giudizio sul merito dell'accusa, si tradurrebbe in un grave pregiudizio per l'imputato: il favor libertatis che giustifica tanto rigore in sede cautelare, si rovescerebbe infatti, proprio a causa di tale rigore, in prevenzione in danno dell'imputato in sede di giudizio.

3.3. -- Sulla base delle suddette argomentazioni, questa Corte è pervenuta, nella citata sentenza n. 432 del 1995, alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che non potesse partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari il quale avesse applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato. Rispetto alla questione allora così decisa, quella ora da decidere presenta innegabili analogie.

Secondo l'art. 309 cod. proc. pen., il tribunale del riesame (comma 7) è investito di una cognizione piena, di legittimità e di merito, in ordine all'ordinanza che dispone la misura cautelare personale (comma 1). Il tribunale (comma 6) non è vincolato alle prospettazioni di parte, le quali possono anche mancare, essendo possibile che esso sia chiamato semplicemente a rifare integralmente le valutazioni in precedenza affidate al giudice che ha adottato l'ordinanza cautelare. Conseguentemente, il collegio del riesame è messo nelle condizioni di conoscere tutti gli elementi su cui si è fondata la richiesta del pubblico ministero al giudice per ottenere la misura cautelare in questione, nonché tutti gli elementi, anche sopravvenuti, a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive ch'egli abbia depositate. Le determinazioni che esso può prendere, conformemente alla natura del riesame, spaziano dall'annullamento del provvedimento impugnato, alla riforma in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati, alla conferma per le stesse o per altre ragioni, diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento oggetto del riesame (comma 9). Nessun dubbio, quindi, che il riesame dell'atto che dispone la misura cautelare comporta valutazioni di merito del medesimo genere di quelle che, compiute dal giudice per le indagini preliminari, hanno indotto questa Corte, nella sentenza n. 432 del 1995, a dichiarare l'incostituzionalità della mancata previsione della relativa causa di incompatibilità nell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen.

3.4. -- Quanto all'appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, esso è configurato dall'art. 310 cod. proc. pen. come strumento di controllo sulle ordinanze che provvedono al riguardo, attivabile tanto dal pubblico ministero quanto dall'imputato e dal suo difensore. A differenza del riesame - rimedio processuale dal significato "unidirezionale" in quanto previsto solo su iniziativa e nell'interesse dell'imputato - l'appello è accordato per far valere tanto le ragioni della cautela (su iniziativa del pubblico ministero), quanto le ragioni della libertà (su iniziativa dell'imputato e del suo difensore) le quali non abbiano avuto successo in prima istanza. Inoltre, mentre la richiesta di riesame conferisce al tribunale la cognizione piena sul provvedimento cautelare, l'effetto devolutivo dell'appello è limitato dai motivi contestualmente enunciati (art. 310, comma 1, cod. proc. pen.).

Le suddette differenze tra il giudizio di riesame e il giudizio d'appello non escludono peraltro che, anche nel secondo caso, il tribunale competente (lo stesso del riesame, a norma del comma 2 dell'art. 310) possa essere investito, a seconda dei motivi dell'appello, della valutazione di profili di merito che attengono all'esistenza di "gravi indizi di colpevolezza" ovvero alla sussistenza di una o più esigenze cautelari, tra quelle indicate dall'art. 274 cod. proc. pen., elementi tutti che costituiscono le condizioni in presenza delle quali la misura può essere legittimamente disposta. Pertanto, sotto questo profilo, anche nei confronti dei giudici che abbiano preso parte al collegio del tribunale che si è espresso in sede di appello contro ordinanze in tema di misure cautelari personali valgono le medesime sopraddette ragioni di incompatibilità alla partecipazione alla funzione di giudizio sul merito dell'accusa.

La dichiarazione d'incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. che si rende dunque necessaria in relazione alla mancata previsione della incompatibilità alla partecipazione al giudizio del giudice che abbia partecipato al collegio investito dell'appello nei confronti delle ordinanze in materia di misure cautelari personali riguardanti chi si trovi a essere imputato in tale giudizio, deve essere tuttavia limitata, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata che esclude il sorgere dell'incompatibilità nel caso in cui il primo giudizio abbia riguardato aspetti solo formali della causa, al caso in cui il tribunale dell'appello sia stato chiamato a sindacare valutazioni sostanziali, precedentemente compiute dal giudice che ha disposto sulla misura. Pertanto, non sussiste ragione di estendere l'incompatibilità ai casi in cui, in sede d'appello, il tribunale si sia pronunciato soltanto su aspetti meramente formali dell'ordinanza che dispone sulla misura cautelare personale, senza influenza sull'esistenza degli indizi di colpevolezza ovvero sulla sussistenza delle esigenze cautelari le quali possono, comunque, riflettersi sulla posizione sostanziale dell'imputato nel giudizio. In tali eventualità, le valutazioni relative al merito dell'ipotesi accusatoria restano del tutto estranee al giudizio del tribunale e non vi è ragione di ritenere che il giudice si sia preformato un giudizio di merito capace di pregiudicare l'imparzialità della decisione conclusiva del processo.

4. -- Nell'assumere la sua decisione, questa Corte è pienamente consapevole delle difficoltà di ordine pratico che, come conseguenza della propria giurisprudenza, possono derivare alla formazione concreta degli organi giudicanti. Ciò, tuttavia, non la esime dalla propria essenziale funzione di garanzia, quando se ne richieda l'intervento in presenza di norme costituzionalmente illegittime. Alle anzidette difficoltà, con appropriati interventi e riforme di ordine normativo e organizzativo, devono porre rimedio altre istanze costituzionali alle quali appartengono i relativi doveri e le relative responsabilità. Per questo, nel pervenire alla presente, ulteriore pronuncia d'incostituzionalità in difesa del principio del giusto processo e dell'imparzialità e della terzietà del giudice, questa Corte deve rivolgere, anzi rinnovare (v. sentenza n. 496 del 1990) un pressante invito agli organi competenti affinché pongano mano con urgenza a quegli interventi e a quelle riforme che gli indisponibili principi della Costituzione richiedono in ordine al buon funzionamento della giurisdizione penale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede:

a) l'incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che come componente del tribunale del riesame (art. 309 cod. proc. pen.) si sia pronunciato sull'ordinanza che dispone una misura cautelare personale nei confronti dell'indagato o dell'imputato;

b) l'incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che come componente del tribunale dell'appello avverso l'ordinanza che provvede in ordine a una misura cautelare personale nei confronti dell'indagato o dell'imputato (art. 310 cod. proc. pen.) si sia pronunciato su aspetti non esclusivamente formali dell'ordinanza anzidetta.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 aprile 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 marzo 1996.