Sentenza n. 128 del 1996

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SENTENZA N. 128

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazio- ni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438 promossi con ordinanze emesse l'8 e il 25 maggio, il 16 e il 22 giugno, il 12 luglio, il 12 ottobre e l'8 novembre 1995 dal Pretore di Milano, rispettivamente iscritte ai nn. 451, 476, 504, 658, 659, 854 e 900 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 37, 39, 43 e 51, prima serie speciale, dell'anno 1995 e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di costituzione di Fogolin Mercede, Agosti Marina, Paderno Lidia ed altri, Spada Maria, Riva Ernesto e dell'INPS, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 19 marzo 1996 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

uditi gli avv.ti Alessandro Garlatti per Fogolin Mercede, Paderno Lidia ed altri e Spada Maria; Alessandro Garlatti e Franco Agostini per Agosti Marina; Alessandro Garlatti e Felice Assennato per Riva Ernesto; Carlo De Angelis per l'INPS e l'Avvocato dello Stato Gian Paolo Polizzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di sette giudizi promossi contro l'INPS da Mercede Fogolin ed altri per ottenere l'integrazione al minimo di pensioni già in godimento, il Pretore di Milano, con altrettante ordinanze emesse tra l'8 maggio 1995 e l'8 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 38, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nella parte (comma 3) che prevede l'applicabilità del nuovo regime decadenziale triennale anche nel caso in cui, essendo stata la domanda di prestazione presentata prima dell'entrata in vigore del decreto legge citato (19 settembre 1992), a questa data non fosse stato ancora proposto il ricorso amministrativo.

Il primo comma della disposizione in esame reca un nuovo testo dell'art. 47, secondo e terzo comma, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, che riduce da dieci a tre anni il termine decadenziale del diritto ai ratei dei trattamenti pensionistici, aggiungendo alle due date di decorrenza alternativamente indicate dal testo originario (data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti organi dell'Istituto, ovvero data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia) una terza ipotesi riferita alla "data di scadenza dei termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione". Il comma 3 dispone che la nuova disciplina non si applica "ai procedimenti instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto ancora in corso alla medesima data".

Poichè nei casi di cui si controverte il ricorso amministrativo è stato proposto dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 384 del 1992, il giudice rimettente, in adesione all'eccezione opposta dall'INPS, ha ritenuto di argomentare a contrario dalla sentenza n. 20 del 1994 di questa Corte l'applicabilità dell'art. 4, comma 1, del decreto legge, a stregua del quale i ricorrenti sarebbero decaduti dall'azione giudiziaria, essendo ampiamente trascorsi al momento della sua proposizione tre anni dalla scadenza dei termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo.

Così interpretato, l'art. 4 del decreto legge citato viene impugnato per contrasto: a) con l'art. 24 Cost., in quanto comporta il sacrificio di diritti che, fino al giorno dell'entrata in vigore del nuovo regime, esistevano e potevano essere fatti valere in giudizio; b) con l'art. 38, secondo comma, Cost., perché la mancata previsione di un regime transitorio per situazioni come quelle in questione attua una sorta di espropriazione di diritti previdenziali costituzionalmente garantiti.

2.1. - In quattro dei giudizi promossi dalle ordinanze davanti alla Corte costituzionale (R.O. n. 451, 476, 504, 658/95) si sono costituiti i ricorrenti chiedendo una dichiarazione di fondatezza della questione, pur premettendo di non condividere l'interpretazione del giudice a quo nel senso dell'applicabilità nella specie del nuovo regime decadenziale. In prossimità dell'udienza pubblica la difesa della parte privata nel giudizio promosso dall'ordinanza iscritta in R.O. n. 476/95 ha depositato una memoria che modifica le conclusioni precedentemente dedotte, chiedendo in principalità una sentenza interpretativa di rigetto.

Premesso che nell'art. 4, comma 3, la parola "procedimenti" deve interdersi riferita sia a quelli giudiziari che a quelli amministrativi, ne consegue, ad avviso della parte privata, che "la precedente disciplina decadenziale continua ad applicarsi anche nel caso in cui, essendo la richiesta di prestazione anteriore alla data di entrata in vigore del d.l. n. 384 del 1992, il ricorso amministrativo sia stato proposto posteriormente. Invero, non essendo applicabile, per il principio di irretroattività della legge, la terza figura di dies a quo aggiunta, innovativamente, dal decreto legge 1992, la possibilità di ricorso tardivo, ammessa dall'art. 8 della legge 11 agosto 1973, n. 533, comporta che il procedimento amministrativo debba considerarsi ancora pendente alla data del 19 settembre 1992 qualora il ricorso in sede contenziosa sia stato proposto successivamente, di guisa che il termine di decadenza dell'azione giudiziaria non può cominciare a decorrere se non dalla data di comunicazione della decisione del ricorso o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronuncia della decisione (novanta giorni dal ricorso).

Resta la questione se il termine applicabile sia quello vecchio di dieci anni o quello nuovo di tre. Ma qualunque sia la risposta, nella specie la domanda giudiziale risulta tempestivamente proposta.

2.2. - In tutti i giudizi si è costituito l'INPS chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

A parere dell'Istituto la fattispecie in causa è regolata dall'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1° giugno 1991, n. 166, ai sensi del quale, in caso di mancata proposizione di ricorso amministrativo, il termine di decadenza dell'azione giudiziaria decorre dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei della prestazione previdenziale. Di qui l'eccezione di inammissibilità della questione per errata individuazione della norma applicabile, e in subordine la domanda di infondatezza.

3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Premesso che, secondo il regime precedente, per promuovere l'azione giudiziaria non bastava avere presentato la richiesta di prestazione e poi atteso la scadenza del termine per l'esaurimento del relativo procedimento, ma era altresì necessario proporre ricorso amministrativo contro il diniego tacito o espresso, l'interveniente osserva che il senso della pronuncia richiamata di questa Corte è quello di radicare la durata del diritto nella disciplina vigente nel momento in cui esso nasce, per cui ove il diritto sia maturato dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 384 del 1992, solo a questa si può fare riferimento per computare il termine di decadenza.

Così precisata la scelta del legislatore non appare né irrazionale, né contraria agli artt. 24 e 38 Cost., ben diversa, e più meritevole di attenzione, essendo la posizione del titolare del diritto che abbia diligentemente coltivato la pretesa di prestazione attivando il ricorso amministrativo, rispetto a chi si sia limitato a domandare la prestazione trascurando poi l'esito della sua istanza.

Considerato in diritto

1. - Con sette ordinanze del medesimo tenore il Pretore di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nella parte (comma 3) che prevede l'applicabilità del nuovo regime decadenziale triennale dell'azione giudiziaria per le controversie in materia di trattamenti pensionistici anche nel caso in cui, essendo stata la domanda di prestazione presentata anteriormente all'entrata in vigore del decreto legge citato (19 settembre 1992), a questa data non fosse stato ancora proposto il ricorso amministrativo ai sensi dell'art. 44 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639.

Poiché le due date di decorrenza del termine decadenziale dell'azione giudiziaria, alternativamente previste dal testo originario dell'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970 si riferiscono al procedimento amministrativo contenzioso, la sentenza n. 20 del 1994 ha corrispondentemente interpretato l'art. 4, comma 3, del d.l. 384 del 1992 riferendolo all'ipotesi di proposizione del ricorso amministrativo anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto medesimo. L'opposta interpretazione, secondo cui la presentazione della domanda di prestazione prima di tale data sarebbe un presupposto sufficiente per escludere permanentemente l'applicabilità della nuova disciplina, è insostenibile per una duplice ragione. Anzitutto perché è contraria alla lettera della legge: essa implica la tesi che il procedimento avviato dall'istanza amministrativa debba sempre considerarsi in corso - pur dopo la scadenza dei termini prescritti "per il suo esaurimento" - fino alla scadenza di novanta giorni dalla proposizione tardiva del ricorso al Comitato centrale dell'INPS, mentre la funzione assegnata dalla legge a questi termini implica che, una volta scaduti, il procedimento amministrativo non è più in corso, salva la possibilità di riattivarlo col ricorso tardivo. In secondo luogo, la detta interpretazione, in quanto tiene fermo il termine decennale di decadenza pur quando il ricorso sia stato proposto dopo l'entrata in vigore del decreto legge del 1992, comporterebbe una deroga, in contrasto con le finalità del decreto, al principio per cui il termine di decadenza prende regola dalla disciplina in vigore al momento in cui comincia a decorrere.

Le odierne ordinanze di rimessione condividono l'interpretazione elaborata dalla sentenza citata, ma ravvisano nella disposizione dell'art. 4, comma 3, così interpretata, un residuo profilo di incostituzionalità in relazione al caso, che la sentenza non ha avuto modo di esaminare, in cui anteriormente al 19 settembre 1992 sia stata presentata la sola istanza amministrativa e siano decorsi i termini prescritti per l'esaurimento del procedimento (complessivamente trecento giorni dalla domanda, come risulta dal combinato disposto degli artt. 7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, e 46, commi 5 e 6, della legge 9 marzo 1989, n. 88). In tal caso, non essendo in corso alla data indicata alcun procedimento, si dovrebbe ritenere applicabile il nuovo regime decadenziale triennale con decorrenza dal compimento di trecento giorni dalla richiesta di prestazione (nei casi di specie presentata tra il 1986 e il 1990), con la conseguenza che le domande proposte al giudice dai ricorrenti dovrebbero essere respinte, essendo ormai da lungo tempo estinta l'azione giudiziaria.

Pertanto, l'art. 4, comma 3, nella parte in cui omette di stabilire un ragionevole regime transitorio per questo caso, viene denunciato per contrarietà agli artt. 24 e 38, secondo comma, della Costituzione.

2. - I giudizi introdotti dalle sette ordinanze del Pretore di Milano, avendo per oggetto la medesima questione, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

3.1. - La questione non è fondata nei sensi appresso spiegati.

L'interpretazione prospettata dal giudice a quo non è giustificata dalla sentenza n. 20 del 1994 e non è sostenibile per due ragioni. In primo luogo perché viola il principio di irretroattività della legge, del quale, come osserva la stessa sentenza, l'art. 4, comma 3, non è che un'applicazione: la legge sopravvenuta non può essere applicata ai facta praeterita corrispondenti agli elementi di una nuova fattispecie produttiva di effetti che a quei fatti dalla legge precedente non erano collegati.

In secondo luogo, il giudice rimettente non ha considerato l'irrazionale differenziazione di disciplina che la sua interpretazione produrrebbe in ordine ai ratei delle prestazioni previdenziali maturati dopo la domanda. La decadenza in cui, a suo dire, sarebbero incorsi i ricorrenti in forza della nuova legge, avrebbe un effetto estintivo circoscritto ai ratei maturati nel periodo di tre anni e trecento giorni compreso tra la data della domanda e il termine ad quem della decadenza. Per i ratei maturati successivamente l'applicazione del nuovo regime decadenziale non è ipotizzabile in mancanza di una nuova richiesta di prestazione che abbia instaurato un nuovo procedimento amministrativo. Questi ratei resterebbero soggetti singulatim alla decadenza decennale prevista dall'art. 6, comma 1, del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito nella legge 1° giugno 1991, n. 166.

3.2. - L'art. 4, comma 3, del d.l. n. 384 del 1992, mentre, da un lato, tiene fermo il principio di irretroattività della legge, dall'altro si propone di regolare le condizioni di applicabilità del distinto principio di efficacia immediata (ex nunc) della nuova legge sui rapporti pendenti. Questo problema può porsi soltanto rispetto ai rapporti per i quali l'innovazione della legge modificativa della disciplina della prescrizione o della decadenza sia limitata alla durata del termine, senza toccare la natura e gli effetti della vicenda estintiva, cioè, per quanto qui interessa, ai casi in cui al 19 settembre 1992 fosse in corso la decadenza decennale prevista dal testo originario dell'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970, qualificata da un effetto estintivo globale di tutti i ratei della prestazione maturati successivamente all'istanza amministrativa fino al verificarsi della decadenza. Si tratta appunto, come ha precisato la sentenza n. 20 del 1994, dei casi in cui, essendo stato "proposto il ricorso amministrativo, si siano già verificati, anteriormente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 384 del 1992, i presupposti di decorrenza del termine previsto dalla legge precedente per la proposizione della domanda giudiziale (comunicazione della decisione definitiva del ricorso o scadenza del termine di novanta giorni per la pronunzia) e il termine sia ancora pendente alla detta data".

Nel caso in esame invece, essendo mancato il ricorso amministrativo, a quella data era in corso soltanto la decadenza dei singoli ratei introdotta dal d.l. n. 103 del 1991, decorrente dall'insorgenza del rispettivo diritto, cioè una vicenda estintiva con efficacia diversa da quella della decadenza prevista dall'art. 47 della legge del 1970, modificato dall'art. 4, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992.

Perciò l'art. 4, comma 3, non aveva bisogno di riferirsi a questo caso, nel quale l'inapplicabilità della nuova legge discende dalla regola generale sopra enunciata. Se e fino a quando non sia proposto ricorso amministrativo (con decorrenza infruttuosa dei successivi novanta giorni o comunicazione entro tale termine della decisione negativa), continua a correre la sola decadenza decennale dei singoli ratei di cui all'art. 6 del d.l. n. 103 del 1991, da ritenersi tacitamente abrogato in parte qua dal d.l. n. 384 del 1992 solo in relazione alle domande di prestazione presentate dopo il 19 settembre 1992 (mentre rimane in vigore per l'ipotesi di mancata presentazione della domanda). La disciplina del d.l n. 103 del 1991 continua ad applicarsi anche se la domanda fosse stata presentata meno di trecento giorni prima di questa data: perché la decadenza disposta dall'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639 del 1970 possa decorrere dal terzo dies a quo aggiunto, con funzione di norma di chiusura, dall'art. 4, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, è necessario che tutti gli elementi della fattispecie, a cominciare dall'istanza amministrativa, siano venuti in essere dopo l'entrata in vigore del decreto.

4. - L'Avvocatura dello Stato obietta che escludendo la retroattività del nuovo regime decadenziale anche nel caso in esame si concede irrazionalmente un trattamento di maggior favore a "chi si sia limitato a domandare una prestazione previdenziale trascurando poi l'esito della sua istanza, rispetto al soggetto che abbia diligentemente coltivato la pretesa attivando un ricorso amministrativo".

Ma l'inconveniente non fornisce argomento per attribuire all'art. 4, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992 un'efficacia retroattiva non argomentabile, in linea di corretta interpretazione, dal comma 3, tanto più che essa si convertirebbe in una ragione di incostituzionalità di quest'ultimo.

Giova piuttosto osservare che la determinazione dei termini estintivi del diritto alle singole rate - nella seconda parte dell'art. 6, comma 1, del d.l. n. 103 del 1991 - per relationem ai termini di decadenza previsti nella prima parte riproduce, anche nel caso in esame, la questione - accennata nella sentenza n. 20 del 1994 - se, ridotto a tre anni il termine di riferimento, sia richiamabile il principio generale per cui, dalla data di entrata in vigore della legge abbreviatrice della decadenza, il nuovo termine si applica anche alle decadenze in corso qualora a questa data il tratto residuo, non ancora consumato, del termine precedente sia di durata superiore. Se tale questione (che resta affidata al giudice del merito) fosse risolta affermativamente, l'inconveniente sopra prospettato sarebbe rimosso.

Si tratta comunque di una situazione transitoria. Per le domande di prestazione presentate dopo il 19 settembre 1992 la nuova legge ha contenuto entro il limite più ragionevole di tre anni e trecento giorni dalla data della domanda la possibilità di ricorso tardivo ammessa dall'art. 8 della legge n. 533 del 1973.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art.4, comma 3, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Milano con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 aprile 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 aprile 1996.