Sentenza n. 106 del 1996

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SENTENZA N.106

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Dott. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 26 gennaio 1995 dal T.A.R. della Calabria, sul ricorso proposto da Giotta Maria Antonietta contro il Ministero della pubblica istruzione, iscritta al n. 405 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 marzo 1996 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un giudizio proposto dalla erede testamentaria di una dipendente del Ministero della pubblica istruzione, deceduta in servizio, al fine di ottenere la corresponsione dell'indennità di buonuscita da questa maturata per effetto dell'espletata attività di insegnante, il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, con ordinanza emessa il 26 gennaio 1995, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevede che il dipendente dello Stato possa disporre per testamento dell'indennità di buonuscita, per il caso in cui egli deceda in servizio senza lasciare i superstiti che la norma impugnata indica come beneficiari dell'indennità stessa (nell'ordine, il coniuge superstite, gli orfani, i genitori, i fratelli e le sorelle).

Premesso che la ricorrente, in assenza di alcuno dei predetti congiunti, era stata designata per testamento dalla dante causa quale sua erede universale, con espressa manifestazione di volontà di disporre anche dell'indennità di buonuscita, rileva il rimettente come - a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale amministrativa in materia nonché, in particolare, dell'affermazione contenuta nella sentenza n. 243 del 1993 di questa Corte in ordine alla natura propriamente retributiva assunta in termini generali dalla indennità in questione - tale carattere ne implichi l'entrata pleno iure nel compendio patrimoniale del de cuius, con conseguente riconoscibilità della facoltà di disporne a mezzo testamento. Cosicché, la diversa disciplina che caratterizza la trasmissibilità dei diritti patrimoniali a titolo di buonuscita, rispetto alla libera disponibilità (anche mortis causa) riconosciuta al titolare in relazione agli altri elementi della retribuzione, verrebbe a vulnerare il principio di cui all'art. 36 della Costituzione, il quale non introduce alcuna ipotesi di differenziazione fra componenti retributive spettanti al lavoratore, sancendo piuttosto che l'indennità di buonuscita debba essere riferita alla retribuzione ed alla durata del rapporto, e quindi alla quantità e qualità del lavoro. A ciò si aggiunge la circostanza che la denegata possibilità di disporre per testamento dell'indennità di buonuscita può pregiudicare le esigenze di vita e di sostentamento di soggetti che, pur se non ricompresi dalla norma de qua nel novero dei destinatari del beneficio, nondimeno facciano parte del nucleo familiare del pubblico dipendente.

Osserva, infine, il rimettente che - dichiarata, con sentenza n. 8 del 1972, l'illegittimità costituzionale dell'art. 2122 del codice civile, nella parte in cui escludeva che il prestatore di lavoro potesse disporre per testamento dell'indennità di fine rapporto, in mancanza del coniuge, dei figli, dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo grado, ed affermata l'omogeneità della natura retributiva delle rispettive spettanze - si appalesa un'evidente disparità di trattamento tra i lavoratori subordinati privati e i dipendenti statali, con conseguente vulnus al principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.

2. - Nel giudizio avanti alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la dichiarazione di manifesta infondatezza della questione, deducendo - in una successiva memoria - che la buonuscita costituisce un vero e proprio diritto patrimoniale autonomo, distinto dallo stipendio e che sorge all'atto della cessazione del servizio, quando concorrano determinati presupposti fissati dalla legge e che, alla morte dell'impiegato, si trasferisce ai suoi familiari non jure successionis, bensì in forza di un loro diritto proprio ed autonomo derivante dalla vocazione legale.

Pertanto, la norma sarebbe immune dalle dedotte censure, in ragione della differente disciplina dei trattamenti connessi alla cessazione del rapporto di lavoro nel settore pubblico e in quello privato, nonché dell'errore in cui sarebbe incorso il rimettente nell'interpretare la disposizione impugnata come se essa fosse diretta a tutelare non già la proporzionalità e la sufficienza della retribuzione, ancorché differita, del lavoratore dipendente, quanto piuttosto gli interessi patrimoniali di persona diversa dal lavoratore ed estranea al suo nucleo familiare.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria dubita della legittimità costituzionale dell'art. 5, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevede che il dipendente statale possa disporre per testamento dell'indennità di buonuscita, per il caso in cui il medesimo deceda in servizio senza lasciare i superstiti che la denunciata disposizione indica come beneficiari dell'indennità stessa (nell'ordine: il coniuge superstite, gli orfani, i genitori, i fratelli e le sorelle).

Ritiene il rimettente che la denunciata disposizione si ponga in contrasto:

a) con l'art. 36 della Costituzione, poiché il diverso regime che caratterizza la limitata trasmissibilità dei diritti patrimoniali a titolo di buonuscita, rispetto alla libera disponibilità (anche mortis causa) riconosciuta al titolare in relazione agli altri elementi della retribuzione, verrebbe a determinare un'irrazionale ipotesi di differenziazione fra componenti retributive spettanti al lavoratore (con conseguente esclusione dell'ineludibile riferimento dell'indennità stessa alla retribuzione ed alla durata del rapporto, e quindi alla quantità e qualità del lavoro prestato);

b) ancora con lo stesso parametro, in quanto la limitazione posta alla trasmissibilità del diritto anche per testamento pregiudicherebbe le esigenze di vita e di sostentamento di soggetti che, pur se non ricompresi nel novero dei destinatari del beneficio ai sensi della norma de qua, nondimeno fanno parte del nucleo familiare del pubblico dipendente;

c) con l'art. 3 della Costituzione, giacché - a fronte dell'omogenea natura retributiva dell'indennità di buonuscita e dell'indennità di fine rapporto dei lavoratori subordinati privati (trasmissibile per testamento ex art. 2122 del codice civile, come emendato da questa Corte con la sentenza n. 8 del 1972) - la disposizione denunciata darebbe luogo a un'evidente disparità di trattamento tra questi ultimi e i dipendenti statali.

2. - La questione è fondata.

2.1. - Questa Corte, ponendo termine a una complessa fase di evoluzione giurisprudenziale (v., in particolare, sentenza n. 220 del 1988, in cui veniva sollecitato l'intervento del legislatore, volto a ricondurre ad omogeneità i trattamenti di quiescenza nell'àmbito del pubblico impiego), è infine pervenuta a ricondurre l'indennità di buonuscita nella categoria generale dei trattamenti di fine rapporto nel settore pubblico, riconoscendo a tutti questi trattamenti - in stretta analogia con quelli del settore privato - l'essenziale natura di retribuzione differita, pur se legata ad una concorrente funzione previdenziale (v. sentenze nn. 243 e 99 del 1993, nn. 439 e 63 del 1992, n. 319 del 1991 e n. 471 del 1989).

Tutte le indennità di fine rapporto, invero, costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita - appunto in funzione previdenziale - onde agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione. Tant'è che la misura del trattamento si determina in proporzione alla durata del lavoro prestato nonché alla globale retribuzione di carattere continuativo spettante al dipendente. E per ognuna di esse può dunque ripetersi che è stata "conquistata attraverso la prestazione dell'attività lavorativa e come frutto di essa" (sentenze nn. 208 del 1986 e 156 del 1973).

2.2. - Ciò spiega perché sia stata ritenuta contrastante con l'art. 36 della Costituzione ogni disposizione che privi, per qualsiasi ragione, il lavoratore o i suoi aventi causa del trattamento di fine rapporto, facendosi applicazione del risalente principio, secondo cui "la retribuzione dei lavoratori - tanto quella corrisposta nel corso del rapporto di lavoro, quanto quella differita, ai fini previdenziali, alla cessazione di tale rapporto, e corrisposta, sotto forma di trattamento di liquidazione o di quiescenza, a seconda dei casi, allo stesso lavoratore o ai suoi aventi causa - rappresenta, nel vigente ordine costituzionale (...), un'entità fatta oggetto, sul piano morale e su quello patrimoniale, di particolare protezione" (sentenze nn. 208 del 1986 e 3 del 1966). Ma spiega anche perché questa Corte abbia contemporaneamente affermato e più volte ribadito che, al momento della morte del lavoratore, le indennità di fine rapporto sono già entrate a far parte del patrimonio dello stesso, come si rileva anche dalla lettura del terzo comma dell'art. 2122 del codice civile, dove è previsto che, in mancanza delle persone indicate nel primo comma (coniuge, figli a carico, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo grado), le relative somme siano attribuite secondo le norme della successione legittima.

Pertanto - proprio sulla base di dette considerazioni - l'art. 2122 cod. civ. è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevedeva che il lavoratore subordinato, in assenza dei menzionati soggetti, potesse disporre per testamento dell'indennità stessa (sentenza n. 8 del 1972). Ed eguale sorte ha subìto l'art. 3, secondo comma, della legge 8 marzo 1968 n. 152, con riguardo alla trasmissibilità dell'indennità premio di servizio del personale degli enti locali (sentenza n. 471 del 1989, seguìta dalla sentenza n. 319 del 1991, che ha esteso la dichiarazione di illegittimità costituzionale alla mancata previsione anche della successione ex lege per tale indennità).

2.3. - Basandosi sul medesimo presupposto, non si può allora non ritenere costituzionalmente illegittima anche la norma denunciata dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria.

E' in proposito sufficiente ribadire che la connotazione unitaria, in termini di natura e di funzione, delle varie categorie di indennità di fine rapporto - nonostante l'esistenza di diverse regolamentazioni riguardanti i meccanismi di provvista, nonché i soggetti gravati dall'onere contributivo e quelli tenuti ad erogare il trattamento - consente una generale applicazione a qualsiasi tipo di rapporto di lavoro subordinato dei relativi princìpi informatori della materia (v. sentenze nn. 243 e 99 del 1993). Conclusione, questa, che per l'avvenire trova puntuale riscontro nella disciplina riguardante "i lavoratori assunti dal 1· gennaio 1996 alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29" avendo l'art. 2, comma 5, della recente legge 8 agosto 1995, n. 335, disposto che per tali lavoratori "i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in base a quanto previsto dall'art. 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto".

La denunciata norma - in deroga ai princìpi generali sulla successione mortis causa - prevede l'attribuzione dell'indennità di buonuscita maturata dal dipendente deceduto durante il servizio, esclusivamente a favore di determinati soggetti.

Tale disposto può certo trovare razionale fondamento nella surrichiamata concorrente funzione previdenziale dell'indennità di buonuscita, considerando che destinatarie di questa vengono indicate persone nei cui confronti il dipendente deceduto aveva obblighi alimentari. Ma è chiaro che, in assenza di tali soggetti, a favore dei quali opera una riserva legale di destinazione, perde qualunque rilevanza la concorrente funzione previdenziale, espandendosi in tutta la sua portata la natura retributiva dell'indennità stessa. E allora, essendo questa già entrata nel patrimonio del dipendente al momento della sua morte, non è ragionevole escludere legislativamente ch'essa formi oggetto di successione ereditaria con la conseguenza che il dipendente non ne possa disporre per testamento e che, in mancanza di questo, non trovino applicazione le norme sulla successione legittima, così come invece è previsto con riguardo al trattamento di fine rapporto dei dipendenti privati ed all'indennità premio di servizio del personale degli enti locali, per effetto delle sopra citate sentenze di questa Corte.

In tal senso - e dunque estendendo nei termini imposti dalla conseguenzialità logica l'àmbito della sollevata questione - va dichiarata l'illegittimità costituzionale della denunciata norma, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con assorbimento dei profili legati all'altro parametro evocato dal rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui esclude che, nell'assenza delle persone ivi indicate, l'indennità di buonuscita formi oggetto di successione per testamento o, in mancanza, per legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 4 aprile 1996.