Ordinanza n. 512 del 1995

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ORDINANZA N. 512

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 436, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 30 gennaio 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Savino Filippo, iscritta al n. 485 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Udito nella camera di consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

RITENUTO che il Giudice istruttore presso il Tribunale di Napoli, con sentenza dell'11 novembre 1983, aveva pronunciato il proscioglimento di Savino Filippo dall'imputazione di omicidio volontario in danno di Galli Ciro;

che, successivamente, a distanza di oltre dieci anni da tale pronuncia, le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia inducevano il Pubblico ministero a domandare la revoca della sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 434 e seguenti del codice di procedura penale e dell'art. 243 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271;

che, con provvedimento del 4 maggio 1994, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli disponeva la revoca della sentenza di proscioglimento pronunciata nei confronti del Savino, con contestuale autorizzazione alla riapertura delle indagini, fissando il termine di sei mesi per il compimento delle stesse;

che, alla scadenza del semestre, il Pubblico ministero eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 436, comma 3, del codice di procedura penale;

che, con ordinanza del 30 gennaio 1995, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 436, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui "per il compimento delle indagini riaperte a seguito di sentenza di non luogo a procedere stabilisce un termine improrogabile non superiore a sei mesi";

che il rimettente ravvisa violazione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, per non essere il pubblico ministero in grado di compiere tutta l'attività investigativa ritenuta necessaria, un ostacolo non superabile solo considerando la preesistenza di un'attività acquisitiva (svolta, peraltro, nel caso di specie, dal giudice istruttore) giacchè tale attività che non ha condotto ad "utili risultati" va verificata e sviluppata con gli elementi di nuova acquisizione;

che, proprio per rendere effettivo l'esercizio dell'azione penale, l'art. 406 del codice di procedura penale facoltizza il pubblico ministero a chiedere più proroghe del termine previsto dall'art. 405, in tal modo consentendo al giudice il controllo sulla necessità di prorogare il termine per le indagini per l'oggettiva impossibilità di concluderle nel termine stabilito dalla legge; che, in tal modo, risulterebbe vulnerato anche il principio di eguaglianza, per la differenza di trattamento non giustificabile fra la disciplina della durata delle indagini iniziate per la prima volta e la disciplina della durata delle indagini riprese dopo la revoca della sentenza di non luogo a procedere (ovvero della sentenza di proscioglimento pronunciata nel vigore del codice abrogato); che l'osservanza dell'art. 3 della Costituzione sarebbe compromessa anche perchè, relativamente ai reati di cui all'art. 407, comma 2, lettera a, del codice di procedura penale (addebitati nel caso di specie), il termine iniziale è addirittura di un anno, a prescindere dall'operatività dell'istituto della proroga, con la conseguenza che non trova comunque giustificazione il più ristretto termine assegnato alle indagini per tali reati a seguito di revoca della sentenza di non luogo a procedere (ovvero della sentenza di proscioglimento pronunciata nel vigore del codice abrogato);

che davanti a questa Corte non si è costituita la parte privata nè ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

CONSIDERATO che nessuna violazione del principio dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale è nella specie ravvisabile perchè, come già questa Corte ha avuto occasione di statuire in via generale, "la previsione di specifici limiti cronologici per lo svolgimento delle indagini preliminari" rappresenta la risultante di una precisa scelta della legge-delega al fine di soddisfare, da un lato, la "necessità di imprimere tempestività alle investigazioni" e, dall'altro lato, l'esigenza "di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini è assoggettato", con la conseguenza che quel termine, in sè e per sè considerato, non costituisce "un fattore che sempre e comunque è astrattamente idoneo a turbare le determinazioni che il pubblico ministero è chiamato ad assumere al suo spirare, cosicchè l'eventuale necessità di svolgere ulteriori atti di investigazione viene a profilarsi unicamente come ipotesi di mero fatto che, per un verso, non impedisce allo stesso pubblico ministero di stabilire, allo stato delle indagini svolte, se esercitare o meno l'azione", mentre, sotto altro profilo, può essere adeguatamente soddisfatto, fra l'altro, con "la riapertura delle indagini di cui all'art. 414 del codice di procedura penale" (v. ordinanze n. 48 del 1993 e n. 485 del 1993);

che, con specifico riferimento alla durata delle indagini in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, mentre va affermata per l'identica ratio decidendi riferibile alle pronunce ora ricordate la piena compatibilità del termine improrogabilmente stabilito dalla norma denunciata con il principio sancito dall'art. 112 della Costituzione, deve essere anche precisato come il "correttivo" sopra indicato trovi sicura applicazione pure nel caso di riapertura delle indagini, essendo la richiesta di rinvio a giudizio solo uno degli epiloghi possibili dell'attività di indagine spiegata dal pubblico ministero;

che pure a tacere della alternatività del petitum perseguito dal giudice a quo oscillante, attraverso il richiamo a plurimitertia comparationis incentrati sull'estensione ora della proroga ora del particolare regime stabilito per taluni tipi di reato dall'art. 407 del codice di procedura penale anche le questioni che invocano l'art. 3 della Costituzione sono prive di fondamento;

che con riferimento alla mancata previsione sia della proroga delle indagini e, quindi, alla dedotta disparità di trattamento rispetto alle prescrizioni dell'art. 406 del codice di procedura penale sia del regime contemplato per i delitti rientranti nell'elencazione dell'art. 407, comma 2, lettera a, del codice di procedura penale (sostituito dall'art. 21 della legge 8 agosto 1995, n. 332, un assetto normativo, quest'ultimo, che, tuttavia, non modifica i termini della questione), la diversità di disciplina si rivela non irrazionale nè arbitraria;

che, infatti, mentre, per un verso, il limite invalicabile dei sei mesi trova giustificazione nel rilievo che la riapertura delle indagini consegue alla revoca della sentenza di non luogo a procedere (nella specie, anzi, alla revoca di una sentenza di proscioglimento pronunciata nel vigore del codice abrogato), con la possibilità di utilizzare le fonti di prova (o le prove) acquisite prima della sentenza suddetta, per un altro verso, la presenza di un provvedimento di non luogo a procedere costituisce ragionevole elemento ostativo a sottoporre il prosciolto al regime della durata delle indagini previsto per le indagini compiute per la prima volta;

che tutto ciò emerge, anzitutto, dalla prima subdirettiva dell'art. 2, numero 56, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, che prescrive la "determinazione dei casi e delle forme, con idonee garanzie per l'imputato, in cui può essere esercitata l'azione penale per fatti precedentemente oggetto delle sentenze di non luogo a procedere indicate nel numero 52", garanzie correttamente non circoscritte dal legislatore delegato al contraddittorio previsto dall'art. 435, comma 3, ma estese a ricomprendere la previsione di "un termine massimo di sei mesi per lo svolgimento delle nuove indagini" (v. Relazione al progetto preliminare, pag. 229), così da evitare l'applicabilità di termini troppo estesi per la persona nei confronti della quale, all'esito delle indagini (o della fase istruttoria), sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere (o di proscioglimento);

che, dunque, le questioni, sono da ritenere manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 436, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli con ordinanza del 30 gennaio 1995.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/12/95.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 18/12/95.