Sentenza n. 487 del 1995

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SENTENZA N. 487

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3-quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), inserito dall'art. 24 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1995 dalla Corte di appello di Palermo nel procedimento di prevenzione nei confronti di Agnello Rosario ed altri, iscritta al n. 424 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1995. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Palermo, dopo aver premesso di essere stata investita a seguito di ricorso proposto avverso un provvedimento di confisca delle quote di una società a responsabilità limitata disposto dal Tribunale di Trapani a norma dell'art. 3-quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575, ha posto in risalto la circostanza che i soggetti cui tale norma si riferisce, a differenza di quelli previsti dall'art. 2-ter, sesto comma, della stessa legge, sono gli effettivi titolari dei beni oggetto della sospensione provvisoria dell'amministrazione e del provvedimento di confisca; provvedimento, quest'ultimo, adottabile ove alla scadenza della misura provvisoria si abbia motivo di ritenere che i beni stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Nonostante le gravi conseguenze patrimoniali che tali soggetti possono subire, il legislatore ha omesso di prevedere secondo il giudice a quo la possibilità di ricorrere in appello avverso il provvedimento in questione, giacchè non risulterebbe applicabile al caso di specie la disciplina dettata dall'art. 3-ter della legge n. 575 del 1965, la quale, nel richiamare i commi ottavo, nono, decimo e undicesimo dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, consente il ricorso in appello soltanto "contro i provvedimenti di confisca emessi a norma dell'art. 2-ter nei confronti dei soggetti indicati nell'art. 1 (indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso)". Atteso, dunque, il principio di tassatività delle impugnazioni, avverso il provvedimento di confisca previsto dall'art. 3-quinquies della legge n. 575 del 1965 sarebbe esperibile soltanto il ricorso per cassazione a norma dell'art. 111 della Costituzione. Da ciò scaturirebbe, secondo il giudice a quo, una violazione dell'art. 3 della Costituzione stante "l'evidente disparità di trattamento a danno dei soggetti che subiscono il provvedimento di confisca ai sensi del citato articolo 3-quinquies della legge n. 575 del 1965, i quali, a differenza degli indiziati di associazione mafiosa, sottoposti a misura di prevenzione, che godono di tale possibilità con riferimento ai provvedimenti di cui all'art. 2-ter, non possono ricorrere in appello contro il provvedimento su indicato onde ottenere un riesame del fatto, ben più ampio di quello ammesso in sede di legittimità". Osserva, poi, il rimettente che il provvedi mento ablatorio previsto dalla norma oggetto di impugnativa colpirebbe soggetti "sostanzialmente incolpevoli" in quanto trattasi di persone rispetto alle quali, a norma dell'art. 3-quater della legge n. 575 del 1965, "non ricorrono i presupposti per l'immediata applicazione di una misura di prevenzione personale". Tali soggetti, quindi, conclude il giudice a quo, per il semplice fatto di essere titolari di beni "oggettivamente pericolosi", sopporterebbero le conseguenze pregiudizievoli di un comportamento altrui, in contrasto con l'art. 27, primo comma, della Costituzione, in virtù del quale, anche in sede di procedimento di prevenzione, è necessaria l'esistenza di un rapporto tra il bene ritenuto pericoloso e la persona che deve subire il provvedimento sanzionatorio.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. L'Avvocatura, analizzate diffusamente le finalità cui sono ispirati gli istituti previsti dagli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge n. 575 del 1965, osserva che i presupposti della confisca sono identici a quelli previsti dall'art. 2-ter della medesima legge: una identità, questa, che escluderebbe la fondatezza delle censure in ordine alla carenza di "colpevolezza" dei soggetti che subiscono il provvedimento. L'intento perseguito dal legislatore, infatti, sarebbe sempre quello di "pervenire all'individuazione del vero patrimonio del mafioso, onde mettere quest'ultimo di fronte alla necessità di dimostrare la legittima provenienza". Analogamente alle ipotesi previste dall'art. 2-ter, dunque, la "situazione di alterità" sarebbe frutto "di una schermatura giuridica destinata ad essere travolta in presenza di un ulteriore momento investigativo che stabilisca l'effettiva appartenenza dei beni", eliminando, così, la premessa stessa (l'asserita diversità di appartenenza del bene colpito da confisca) su cui si è fondata la censura del rimettente. Considerata, poi, l'identità dei presupposti della confisca e l'identità del giudice competente a disporla, l'Avvocatura ritiene che uguale debba essere anche il regime delle impugnazioni, cosicchè si renderebbe applicabile anche alla confisca prevista dall'art. 3-quinquies della legge n. 575 del 1965 la disposizione prevista dall'art. 3-ter, secondo comma, della medesima legge che prevede non solo la ricorribilità in appello del provvedimento di ablazione disposto dal tribunale ma anche l'effetto sospensivo del ricorso. Anche sotto questo profilo, quindi, conclude l'Avvocatura, la questione sollevata sarebbe priva di fondatezza.

Considerato in diritto

1. La Corte di appello di Palermo solleva due distinte questioni di legittimità costituzionale relative, entrambe, alla particolare ipotesi di confisca prevista dall'art. 3-quinquies, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575, inserito dall'art. 24 del decretolegge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. La Corte rimettente espone in fatto di essere stata investita a seguito di ricorso in appello proposto avverso un provvedimento adottato dal Tribunale di Trapani con il quale è stata disposta la confisca, a norma del richiamato art. 3quinquies della legge n. 575 del 1965, di tutte le quote di una società a responsabilità limitata; provvedimento, questo, a sostegno del quale i primi giudici avevano addotto la circostanza che le quote assoggettate a confisca si riferivano ad impresa attraverso la quale una pericolosa cosca mafiosa, dopo essere riuscita a prevalere con sanguinosi scontri su di un contrapposto gruppo criminale, "si era, con la forza intimidatrice dalla stessa promanante, saldamente assicurata, realizzando cospicui proventi in gran parte reinvestiti nella stessa azienda, la gestione, in regime di monopolio, del mercato del calcestruzzo che le aveva consentito anche un efficace controllo dell'attività edilizia esercitata nel territorio, risultati costituenti finalità tipiche dell'associazione mafiosa, secondo la previsione normativa dell'art. 416-bis, terzo comma, cod. pen.". Nell'analizzare la disciplina oggetto di impugnativa, il giudice a quo sottolinea come la stessa si saldi intimamente alla nuova e peculiare ipotesi di sospensione temporanea dall'amministrazione di beni prevista dall'art. 3quater della legge n. 575 del 1965, disposizione che, osserva il rimettente, il legislatore avrebbe introdotto allo scopo di fornire "un efficace strumento di lotta contro la criminalità organizzata in ambiti, suscettibili di infiltrazioni mafiose, nei quali le tradizionali misure di prevenzione si erano rivelate inapplicabili". La posizione dei soggetti nei confronti dei quali può essere adottata la misura della sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni, che a sua volta costituisce la premessa necessaria per l'applicazione del definitivo provvedimento di confisca, presenta tuttavia, a parere del giudice a quo, due caratteristiche salienti. Da un lato, infatti, si tratta di persone che, seppure titolari di attività economiche che si ritengono "agevolatrici" della attività svolta da quanti versino nella condizione di "sospetto" che la norma stessa prevede, sono comunque al di fuori della sfera applicativa delle misure di prevenzione di cui all'art. 2 della legge n. 575 del 1965, giacchè per essi risultano per definizione carenti i relativi presupposti. Sotto altro profilo, la posizione di costoro si distingue nettamente anche dai "terzi" presi in considerazione dall'art. 2-ter, sesto comma (recte: quinto comma), della stessa legge n. 575 del 1965: questi ultimi, infatti, sono ritenuti titolari soltanto apparenti dei beni sequestrati, sicchè il provvedimento di confisca mira in realtà a sottrarre i beni medesimi dal patrimonio del mafioso; le persone, invece, cui si riferisce il provvedimento di sospensione temporanea dalla amministrazione, sono gli effettivi titolari dei beni assoggettabili alla misura, con la conseguenza che nei loro diretti confronti verranno a prodursi gli effetti pregiudizievoli della confisca allorchè, alla scadenza della misura provvisoria, si abbia motivo di ritenere che tali beni "siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego". Da qui un primo dubbio di costituzionalità. Considerato, infatti, osserva il rimettente, che il provvedimento ablatorio si riflette su persone "sostanzialmente incolpevoli", trattandosi, come si è detto, di soggetti per i quali "non ricorrono i presupposti per l'immediata applicazione di una misura di prevenzione personale", la confisca si giustificherebbe per il sol fatto di riferirsi a beni "oggettivamente pericolosi", con conseguente violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione, giacchè dovrebbe sempre sussistere "un rapporto tra la cosa ritenuta pericolosa e la persona che deve subire il provvedimento sanzionatorio".

2. La questione è infondata. Come ha correttamente posto in risalto l'Avvocatura dello Stato, il procedimento che si sviluppa sino alla adozione del provvedimento di confisca si articola in due fasi decisorie fra loro nettamente distinguibili quanto a presupposti e finalità. A fondamento della misura della sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni sta, infatti, la necessità di impedire che una determinata attività economica che presenti connotazioni agevolative del fenomeno mafioso, e dunque operi, come nel caso del quale il giudice a quo è chiamato ad occuparsi, in posizione di contiguità rispetto a soggetti indiziati di appartenere a pericolose cosche locali, realizzi o possa comunque contribuire a realizzare un utile strumento di appoggio per l'attività di quei sodalizi, sia sul piano strettamente economico, sia su quello di un più agevole controllo del territorio e del mercato, con inevitabili riflessi espansivi della infiltrazione mafiosa in settori ed attività in sè leciti. Una misura, quindi, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi. In una simile prospettiva, ci si avvede allora agevolmente di come i titolari di quelle attività non possano affatto ritenersi "terzi" rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio. Alla scelta, dunque, di svolgere una attività che presenta le connotazioni agevolative di cui innanzi si è detto, logicamente si sovrappone la consapevolezza delle conseguenze che da ciò possono scaturire, consentendo pertanto di escludere quella situazione soggettiva di "sostanziale incolpevolezza" sulla quale il giudice a quo si è attestato per dedurre le prospettate censure. Ove, quindi, all'esito della temporanea sospensione dall'amministrazione dei beni, emergano elementi atti a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, e si appalesi quindi per questa via ormai realizzata una obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa, ben si spiega, allora, la funzione e la legittimità del provvedimento ablatorio, giacchè gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui beni di un soggetto certamente non estraneo nel quadro della complessiva gestione del patrimonio mafioso, che a sua volta rappresenta, in ultima analisi, l'obiettivo finale che la confisca mira a comprimere.

3. La norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità è censurata dal giudice a quo anche sotto un secondo profilo. Rileva, infatti, la Corte rimettente che, avendo il legislatore omesso di prevedere espressamente la possibilità di ricorrere in appello avverso il provvedimento di confisca previsto dall'art. 3-quinquies della legge n. 575 del 1965, non risulta possibile, "stante il principio di tassatività delle impugnazioni di merito", applicare nella specie il regime di impugnativa previsto dall'art. 3-ter della stessa legge, in quanto dettato esclusivamente per i provvedimenti di confisca adottati a norma dell'art. 2-ter nei confronti dei soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso. Unico rimedio esperibile, osserva il giudice a quo, sarebbe pertanto il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione, con l'ovvia conseguenza di determina re una irragionevole disparità di trattamento tra gli indiziati di associazione mafiosa, che possono beneficiare di un riesame del merito del provvedi mento di confisca, e i soggetti che subiscono l'identico provvedimento ai sensi della disposizione censurata, ai quali invece viene consentita esclusivamente la facoltà di dedurre i vizi che rilevano in sede di legittimità. La questione è fondata. Non possono infatti essere condivise le considerazioni svolte dall'Avvocatura dello Stato nell'atto di intervento, ove si afferma, non senza una qualche contraddittorietà, che, da un lato, "sembrerebbe" applicabile nel caso in esame l'istituto del ricorso in appello e l'effetto sospensivo disciplinato dall'art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 avuto riguardo alla identità dei presupposti che sostengono i provvedimenti di confisca dell'una e dell'altra specie, mentre, sotto altro profilo, si contesta più radicalmente la fondatezza delle censure sul rilievo che "il doppio grado di giudizio non è principio costituzionalizzato". La possibilità di una interpretazione " estensiva" della disciplina dettata dall'art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 è, in fatti, efficacemente contrastata dal giudice a quo sulla base di argomenti che trovano significativa rispondenza in più pronunce della Corte di cassazione, la quale ha reiteratamente escluso la possibilità di applicazioni analogiche dei mezzi di reclamo in materia di misure di prevenzione patrimoniali proprio facendo leva sul principio di tassatività che presiede al regime delle impugnazioni. Neppure pertinente è il secondo e assorbente rilievo svolto dalla Avvocatura, in quanto la non costituzionalizzazione del principio del doppio grado di giudizio, tradizionalmente affermata in relazione al parametro del diritto di difesa, non vale certo a sanare l'irragionevole disparità di trattamento che la scelta del legislatore obiettivamente determina attraverso la mancata previsione che il giudice a quo ha puntualmente denunciato. È di tutta evidenza, infatti, che, essendo stato previsto uno specifico regime di impugnazione avverso i provvedimenti di confisca che, a norma dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, possono essere adottati nei confronti delle persone indicate nell'art. 1 della stessa legge, non v'è ragione alcuna per la quale il medesimo regime non debba trovare applicazione nei confronti dei soggetti che subiscano l'identico provvedimento in base alla disposizione oggetto di impugnativa, con l'ovvia conseguenza di imporre, come unica soluzione costituzionalmente derivante dal quadro normativo di riferimento, quella di riequilibrare il sistema attraverso una pronuncia additiva in parte qua. L'art. 3-quinquies, secondo comma, della più volte citata legge n. 575 del 1965, deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre le impugnazioni previste e con gli effetti indicati dall'art. 3-ter, secondo comma, della stessa legge.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3-quinquies, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui non prevede che avverso il provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell'art. 3-ter, secondo comma, della stessa legge; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3-quinquies della medesima legge n. 575 del 1965, sollevata, in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Palermo con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 8/11/95.

Mauro FERRI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 20/11/95.