Sentenza n. 439 del 1995

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SENTENZA N. 439

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO Giudice -

-     Avv. Mauro FERRI Giudice -

-     Prof. Luigi MENGONI Giudice -

-     Prof. Enzo CHELI Giudice -

-     Dott. Renato GRANATA Giudice -

-     Prof. Giuliano VASSALLI Giudice -

-     Prof. Francesco GUIZZI Giudice -

-     Prof. Cesare MIRABELLI Giudice -

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO Giudice -

-     Avv. Massimo VARI Giudice -

-     Dott. Cesare RUPERTO Giudice -

-     Dott. Riccardo CHIEPPA Giudice -

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 286-bis del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 giugno 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Vona Carmela, iscritta al n. 496 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 ottobre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Chiamato a decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sostituire con la misura della custodia cautelare in carcere quella degli arresti domiciliari applicata nei confronti di persona ammalata di AIDS conclamata, più volte sottrattasi agli obblighi inerenti alla misura custodiale gradata (arresti domiciliari in ospedale), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 286-bis del codice di procedura penale che appunto sancisce il divieto di custodia cautelare in carcere nei casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria per infezione da HIV. Rammentate le sentenze di questa Corte n. 70 e 308 del 1994 in tema di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena nei confronti dei malati di AIDS e facendo proprie le considerazioni svolte dal Tribunale di sorveglianza di Palermo nell'ordinanza del 13 ottobre 1994, con la quale detto Tribunale aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della nuova previsione dettata in materia dall'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale, il giudice a quo deduce, sotto profili in parte analoghi, la violazione dei medesimi parametri di costituzionalità già indicati nell'ordinanza di quel Tribunale.

Risulterebbe infatti violato l'art. 2 della Costituzione, in quanto, iscrivendo, questo, fra i diritti inviolabili dell'uomo anche quello di essere tutelato nei confronti di chi aggredisca i propri interessi, dalla norma censurata scaturisce, come effetto sostanziale, quello di esporre a grave pericolo il bene della incolumità e sicurezza collettiva, a fronte della tutela della salute carceraria che si sarebbe dovuta salvaguardare adeguando le strutture sanitarie e penitenziarie.

Risulterebbe poi violato il principio di uguaglianza in quanto, come già evidenziato in precedente analoga questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino con ordinanza del 24 febbraio 1993, non vi è ragione, nè sul piano logico, nè su quello scientifico, per riservare ai malati di AIDS un trattamento diverso rispetto a quello previsto in via generale dall'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, per i soggetti affetti da patologie altrettanto gravi, irreversibili ed ingravescenti; sicchè - osserva il giudice a quo - "data l'estrema dinamicità e varietà di situazioni che caratterizza il quadro clinico delle infezioni da HIV", l'unica via percorribile è quella di valutare la situazione "caso per caso, come già avviene in generale per le altre gravi patologie".

Compromesso sarebbe, infine, l'art. 32 della Costituzione, in quanto il legislatore, trasferendo il malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero per salvaguardare la salute della popolazione carceraria (peraltro tutelabile con l'isolamento ex art. 33 dell'ordinamento penitenziario), ha esposto a pericolo il bene della salute collettiva, e, quindi, un bene "quantitativamente maggiore, essendo riferibile ad un numero enormemente più elevato di soggetti".

2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, essendo stata la stessa già decisa in tal senso con sentenza n. 33 del 1994.

Considerato in diritto

1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 286-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui viene stabilito il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti delle persone affette da AIDS conclamata o che presentino una grave deficienza immunitaria per infezione da HIV. A parere del giudice a quo, l'effetto sostanziale che scaturisce dal rigido divieto sancito dalla norma oggetto di impugnativa è quello di esporre a grave pericolo il fondamentale bene della incolumità delle persone, così compromettendo le garanzie apprestate dall'art. 2 della Costituzione, nei casi in cui l'elevata pericolosità del soggetto non possa essere adeguatamente fronteggiata se non con l'applicazione della misura prevista dall'art. 285 del codice di rito. La gradata misura degli arresti domiciliari, soggiunge il rimettente, si rivela infatti incongrua al fine di evitare gli indicati periodi, sia perchè risulta spesso difficile individuare luoghi o strutture disposti ad accogliere la particolare categoria di persone cui la norma di riferisce, "sia soprattutto perchè la predetta misura perde ogni concreta efficacia coercitiva, non essendo le violazioni delle relative prescrizioni sanzionabili mediante la conversione in detenzione cautelare in carcere".

Vulnerato sarebbe anche il principio di uguaglianza, in quanto, osserva il giudice a quo, non è dato rinvenire "alcuna ragione, nè logica nè scientifica" per giustificare il peculiare trattamento previsto per i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria rispetto a quanti presentino un quadro morboso di analoga gravità, specie ove si consideri che "l'estrema dinamicità e varietà di situazioni" che caratterizzano sul piano clinico le infezioni da HIV imporrebbe di valutare tali situazioni caso per caso, agli effetti del giudizio di compatibilità tra stato detentivo e malattia, "come già avviene in generale per le altre gravi patologie".

Considerato infine - deduce il rimettente - che la norma oggetto di impugnativa determina il trasferimento del malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero nella prospettiva di salvaguardare il bene della salute nel contesto carcerario, viene ad essere esposto "a grave e maggior pericolo il bene della salute collettiva extracarceraria", il tutto aggravato, osserva il giudice a quo, dalla impossibilità di far ricorso alle varie misure precauzionali previste per le persone in stato di detenzione, fra le quali l'isolamento per ragioni sanitarie disciplinato dall'art. 33 dell'ordinamento penitenziario.

2. - Il tema dei malati di AIDS e delle correlative disposizioni novellatrici introdotte nel codice penale ed in quello di procedura penale ad opera del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, ha, come è noto, formato oggetto di numerosi interventi da parte di questa Corte, l'ultimo dei quali è rappresentato dalla sentenza n. 438 del 1995, depositata in pari data, con la quale la Corte ha avuto modo di occuparsi della disciplina, per molti aspetti speculare a quella che viene qui in discorso, dettata in materia di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena dall'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale. In tale occasione si è fra l'altro osservato che se la salute collettiva nel particolare contesto carcerario - che costituisce uno degli obiettivi perseguiti dal citato d.l. n. 139 del 1993 - "rappresenta un bene sicuramente da preservare ... devesi al tempo stesso affermare che in tanto può ritenersi ragionevole <l'allontanamento> dal carcere dei malati di AIDS, in quanto la relativa permanenza negli istituti cagioni in concreto un pregiudizio per la salute degli altri de tenuti, posto che, altrimenti, risulterebbero senza giustificazione compromessi altri beni riconosciuti come primari dalla Carta fondamentale". Nella medesima sentenza si è però anche osservato che la tutela della salute di quanti si trovino ristretti negli istituti penitenziari non rappresenta l'unico valore che il legislatore ha inteso salvaguardare, giacchè "ove così fosse, l'identico regime avrebbe dovuto prendere in considerazione l'intera e ben più estesa gamma dei portatori di infezione da HIV, essendo questo, e non la malattia in sè considerata, il presupposto di insorgenza del rischio di contagio e, dunque, di pericolo per la salute della popolazione carceraria". Accanto, quindi, alla salute collettiva, la norma censurata "ha evidentemente inteso tutelare anche la salute del singolo", attraverso una rigida preclusione che inibisce sempre e comunque l'adozione della custodia carceraria, senza lasciare alcuno spazio alla possibilità di verificare in concreto la compatibilità delle condizioni di salute con l'applicazione della più grave fra le misure coercitive. Tuttavia, se il divieto di custodia cautelare in carcere deve ritenersi nella specie volto a preservare anche le condizioni di salute dell'inquisito, "è evidente, allora, che sono soltanto queste ultime a dover essere prese in considerazione dal legislatore e non certo la malattia in quanto tale", giacchè, a fronte di un identico stato morboso, qualunque esso sia, le variabili cliniche possono essere tante quante l'intera casistica è in grado di offrire. Essendosi quindi da tempo evidenziata in sede scientifica la variabilità di situazioni cui può dar luogo l'infezione da HIV, al punto che la stessa fase dell'AIDS conclamata presenta quadri clinici fra loro assai difformi, alcuni dei quali, specie se ben trattati, possono regredire anche per lungo tempo, ne deriva che la rigorosa preclusione di cui innanzi si è detto finisce per apparire priva di adeguato fondamento e tale, dunque, da rendere evanescente la razionalità di una norma dalla cui concreta applicazione possono generarsi inaccettabili disparità di trattamento e, di riflesso, il mancato soddisfacimento delle esigenze di natura cautelare sulle quali il giudice a quo si è puntualmente intrattenuto.

3. - Ma è proprio su quest'ultimo aspetto che occorre svolgere qualche ulteriore notazione. Questa Corte ha, infatti, disatteso in passato analoghe censure, osservando come la dedotta compromissione delle esigenze di sicurezza collettiva dovesse ritenersi insussistente proprio perchè nei confronti delle persone affette da AIDS risultavano adottabili "tutte le misure diverse dalla custodia in carcere e, quindi, anche quella custodiale degli arresti domiciliari, con l'aggiunta delle prescrizioni e cautele che le esigenze del singolo caso possono consigliare" (v. ordinanza n. 300 del 1994). Una simile soluzione, ovviamente, presupponeva l'attivazione della intera gamma di presidii e provvidenze che nei confronti dei malati di AIDS erano stati previsti dalla legge 5 giugno 1990, n. 135, e dallo stesso d.l. n. 139 del 1993, cosicchè, svolgendosi l'intervento cautelare nel quadro di un programma di assistenza, il singolo rinvenisse proprio in quelle strutture un adeguato punto di riferimento ed un corrispondente stimolo ad osservare le prescrizioni inerenti alle singole misure. La inadeguata attuazione dei richiamati programmi di intervento ha, però, vanificato la premessa stessa da cui ha tratto origine la richiamata giurisprudenza di questa Corte, rendendo evidente come in non pochi casi - e quello sul quale il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi ne è testimonianza - la stessa misura degli arresti domiciliari, la quale è pur sempre misura a contenuto prescrittivo e che dunque postula, per realizzare la funzione che le è propria, la volontà adesiva di chi vi è sottoposto, abbia finito per atteggiarsi alla stregua di provvedimento meramente liberatorio, senza alcuna concreta possibilità di coercizione. È ben vero, infatti, che, a norma dell'art. 3 del decreto- legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, è consentito l'arresto fuori dei casi di flagranza della persona che ha posto in essere una condotta punibile ai sensi dell'art. 385 del codice penale e che nei suoi confronti può essere disposta una misura coercitiva anche fuori dei limiti previsti dall'art. 280 del codice di procedura penale; ma se per legge la misura applicabile potrà al massimo essere quella degli arresti domiciliari e se, ancora, la misura alla quale la persona si è sottratta non potrà essere sostituita con la custodia in carcere, ne scaturisce, o ne può comunque scaturire, una inarrestabile sequenza di sottrazioni agli arresti domiciliari e di ripristino degli stessi che, da un lato, svilisce l'essenza stessa della cautela e, dall'altro, lascia di fatto integralmente sguarniti i pericoli che la misura è invece destinata a salvaguardare. L'irragionevolezza del sistema traspare, quindi, con estrema chiarezza.

D'altra parte, l'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, nello stabilire divieti per la custodia cautelare in carcere, accomuna, sotto una medesima clausola di salvezza, più situazioni, fra le quali iscrive, in ciò innovando rispetto al testo previgente, anche la persona "che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione". Sicchè, per quello che traspare dal testo della norma, la custodia cautelare in carcere sembra dunque adottabile anche nei confronti delle persone che versino in condizioni di incompatibilità con la misura carceraria nell'ipotesi in cui "sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", ferma restando, ovviamente, l'attivazione nei loro confronti di tutti gli istituti che l'ordinamento prevede al fine di assicurare il fondamentale bene della salute.

In tale quadro di riferimento si rivela, allora, privo di ragionevolezza il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere stabilito per i soli ammalati di AIDS, dovendo per essi operare, pur con i temperamenti resi necessari dalla peculiarità del morbo, la generale regola che consente, anche nel caso di malattie altrettanto gravi, l'adozione della misura carceraria, allorchè esigenze cautelari di eccezionale rilevanza facciano ritenere inadeguata qualsiasi altra misura.

4. - Alla luce dei riferiti rilievi la norma impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 3 della Carta fondamentale, restando assorbiti gli ulteriori profili denunciati dal rimettente. Spetterà quindi al giudice verificare, caso per caso, tenuto conto anche delle strutture disponibili, se, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la custodia in carcere possa essere disposta senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 286-bis, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti delle persone ivi indicate, anche quando sussistono le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza di cui all'art. 275, comma 4, del medesimo codice, e l'applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/10/95.

Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 18/10/95.