Sentenza n. 426 del 1995

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SENTENZA N. 426

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 4, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni) e 16, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (Disciplina dell'imposta sulle successioni e donazioni), promosso con ordinanza emessa il 7 settembre 1994 dalla Commissione tributaria di primo grado di Milano sui ricorsi riuniti proposti da F. e L. Merzagora, nonchè da A. e L. Veronesi (rappresentati da R. Curatolo ed altra) contro l'Ufficio del registro di Milano, iscritta al n. 728 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 maggio 1995 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1. -- Nel corso di un giudizio sui ricorsi riuniti proposti da F. e L. Merzagora, nonchè da A. e L. Veronesi (rappresentati da R. Curatolo ed altra) avverso gli avvisi di liquidazione delle imposte di successione relativi alle eredità di R. Veronesi ed E. Merzagora, la Commissione tributaria di primo grado di Milano, con ordinanza 7 settembre 1994, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 4, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, e 16, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637.

Preliminarmente il giudice a quo rileva che l'art. 23 appena citato -disponendo che (r)l'esistenza di debiti deducibili, ancorchè non indicati nella dichiarazione di successione, può essere dimostrata ... entro il termine di tre anni dall'apertura della successione, prorogato, per i debiti risultanti da provvedimenti giurisdizionali e per i debiti verso pubbliche amministrazioni, fino a sei mesi dalla data in cui il relativo provvedimento giurisdizionale o amministrativo è divenuto definitivo> -- riproduce "sostanzialmente" la disposizione dell'art. 16, quarto comma, del d.P.R. n. 637 del 1972.

Ciò premesso, ad avviso del remittente le norme censurate violerebbero gli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione nella parte in cui dispongono che il termine triennale per la presentazione della documentazione delle passività gravanti l'asse ereditario decorre dall'apertura della successione anche nel caso in cui i predetti obbligati siano giuridicamente impossibilitati per essere stati chiamati all'eredità -- come nel caso dei ricorrenti nel giudizio a quo -- solo a seguito di procedura giudiziaria accertante la falsità di un atto testamentario. In particolare sarebbe violato l'art. 3 della Costituzione laddove irrazionalmente il termine per la presentazione delle passività decorrerebbe dall'apertura della successione e non dal momento in cui gli obbligati alla presentazione della dichiarazione di successione sono chiamati all'eredità; l'art. 24 della Costituzione in quanto, così disponendo, si impedirebbe -- nel caso di impossibilità giuridica -- la presentazione della predetta dichiarazione, e l'art. 53 della Costituzione in quanto, precludendo la deducibilità delle passività gravanti l'asse ereditario, si verrebbe a determinare il conseguente aggravamento dell'imposta.

2. -- Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata in fondata.

Secondo l'Avvocatura dello Stato le norme in esame non pregiudicherebbero "seriamente" il diritto alla deduzione delle passività ereditarie, in quanto detto diritto sarebbe comunque esercitabile (r)a condizione che la parte provveda alla documentazione delle passività ereditarie contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione, sulla base dei principi generali che regolano la materia>. Sicchè la preclusione concernerebbe una mera facoltà (ovvero "la facoltà di integrare la documentazione inerente le passività ereditarie") e non si estenderebbe al diritto di deducibilità della passività di cui si discute.

Aggiunge, altresì, l'Avvocatura generale dello Stato che la ratio dell'art. 23 del d.lgs. n. 346 del 1990 sarebbe quella di (r)incentivare la tempestività della dichiarazione, sanzionando quelle presentate oltre il triennio, con l'impossibilità di integrarle, per quanto riguarda le eventuali passività ereditarie>.

Considerato in diritto

1. -- La Commissione tributaria di primo grado di Milano dubita della legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 4, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, e 16, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, nella parte in cui stabiliscono che il termine di tre anni per la presentazione della documentazione delle passività deducibili, gravanti l'asse ereditario, decorre dall'apertura della successione. In particolare, ad avviso della Commissione remittente, le norme censurate, non prevedendo che il suddetto termine de corra dal momento in cui gli obbligati alla presentazione della dichiarazione di successione sono chiamati alla eredità -- e ciò avuto particolare riguardo al caso in cui la chiamata all'eredità non coincida con l'apertura della successione e avvenga, come nel giudizio a quo, a seguito di procedura giudiziaria accertante la falsità di un atto testamentario - - violerebbero gli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione.

2. -- La questione non è fondata.

Essa presuppone implicitamente, infatti, una lettura delle disposizioni censurate che questa Corte ritiene di non poter condividere.

Al riguardo giova precisare che nella legislazione previgente (art. 50 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3270: "Approvazione del testo di legge tributaria sulle successioni"), il termine per la deduzione delle passività deducibili dall'attivo ereditario era di due anni e decorreva, non dalla data di apertura della successione, bensì dalla presentazione della relativa denuncia. L'art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 346 del 1990 che riproduce integralmente l'art. 16, quarto comma, del d.P.R. n. 637 del 1972 è innovativo rispetto all'art. 50 previgente, in quanto stabilisce la decorrenza del detto termine dalla data di apertura della successione e ciò viene a connotarsi come elemento sanzionatorio nei riguardi delle dichiarazioni presentate tardivamente.

3. -- Ciò premesso, occorre considerare che la fattispecie - - oggetto del giudizio a quo -- è espressamente disciplinata dall'art. 28, comma 6, del d.lgs. n. 346 del 1990, il quale dispone che (r)se dopo la presentazione della dichiarazione della successione sopravviene un evento... che dà luogo a mutamento della devoluzione dell'eredità, i soggetti obbligati, anche se per effetto di tale evento, devono presentare dichiarazione sostitutiva o integrativa>.

In virtù di siffatto mutamento devolutivo il modulo normale tributario del trasferimento ereditario si arricchisce di elementi ulteriori, che incidono sul rapporto giuridico di imposta. Da un lato, il nuovo destinatario della devoluzione ereditaria è obbligato a comunicare al fisco l'evento sopravvenuto, presentando dichiarazione sostitutiva o integrativa, alla quale si applicano le stesse regole formali di quella principale (art. 28, comma 6, citato); dall'altro, ad essa consegue, da parte del fisco, l'obbligo di provvedere alla riliquidazione dell'imposta che deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di tre anni dalla data di presentazione della dichiarazione sostitutiva o integrativa stessa (art. 27, comma 2, del d.lgs. n. 346 del 1990).

Coerentemente con le succitate previsioni normative, il termine per la presentazione della dichiarazione sostitutiva o integrativa decorre non già dalla data di apertura della successione, bensì dalla (diversa) data dell'evento di cui all'art. 28, comma 6, ovvero dell'evento che ha comportato il mutamento di devoluzione ereditaria, come esplicitamente previsto dall'art. 31, comma 2, lettera e), del d.lgs. n. 346 del 1990 (che riproduce l'art. 39, lettera d), del d.P.R. n. 637 del 1972).

Naturalmente devono essere soddisfatte le condizioni sostanziali di deducibilità dei debiti: in altri termini è necessario che il debito esista alla data in cui si è aperta la successione, nel duplice senso che la sua causa giuridica sia anteriore alla apertura della successione e non sia stato soddisfatto prima di questo evento, giacchè, in caso contrario, intuitivamente l'attivo ereditario ha già subito una conseguente diminuzione.

4. -- Avuto riguardo alle suesposte condizioni, nell'ipotesi di sopravvenienza dell'evento di cui all'art. 28, comma 6, il termine per la deducibilità dei debiti -- aventi i requisiti succitati e stabiliti dagli artt. 20 e ss. del d.lgs. n. 346 del 1990 -- non può che decorrere -- al pari di quanto previsto per la presentazione della dichiarazione sostitutiva o integrativa -- dalla data in cui si è verificato l'evento di cui all'art. 28, comma 6, ovvero l'evento che ha dato luogo al mutamento di devoluzione ereditaria. I documenti concernenti le passività ai sensi dell'art. 30, comma 1, lettera i), del d.lgs n. 346 del 1990, altro non sono che allegati alla dichiarazione, della quale seguono, in quanto privi di autonomia, la disciplina.

Ciò è conseguenziale ad una ricostruzione logico- sistematica della normativa censurata e appare volto ad evidenziarne la ratio ispiratrice. Difatti, e come già si è detto, il termine di tre anni dall'apertura della successione, per la deducibilità delle passività previsto dall'art. 23 del d.lgs. n. 346 del 1990, è preordinato a sanzionare le dichiarazioni tardive. Nel caso in esame, cioè nell'ipotesi di dichiarazioni sostitutive o integrative, non vi è alcun ritardo da sanzionare, ma semplicemente la sopravvenienza di un evento (non imputabile al soggetto passivo della dichiarazione), che trova adeguata ed esaustiva considerazione da parte del legislatore.

5. -- Le suesposte considerazioni conducono ad affermare che le norme impugnate non sono viziate dalle censure di illegittimità costituzionale prospettate dalla Commissione remittente, dovendosi, attraverso la ricostruzione del sistema come sopra delineato, escludere il prospettato contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, mentre l'indicato art. 24 attiene alla tutela e difesa in fase processuale giurisdizionale, campo del tutto estraneo alle norme in esame, che riguardano, invece, la procedura di adempimenti, di dichiarazioni e documentazioni in sede tributaria-amministrativa, semplicemente conseguenti nei termini temporali a procedimento giurisdizionale definito. La relativa questione va, pertanto, dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 4, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni con cernenti l'imposta sulle successioni e donazioni), e 16, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (Disciplina dell'imposta sulle successioni e donazioni) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 settembre 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 12 settembre 1995.