Sentenza n. 413 del 1995

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SENTENZA N. 413

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), promosso con ordinanza emessa il 18 maggio 1994 dal Pretore di Lecce nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Cotardo Tiziana ed altre e la Ditta Luel ed altri iscritta al n. 551 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti l'atto di costituzione dell'INPS nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 13 giugno 1995 il Giudice relatore Renato Granata;

uditi l'avv. Giuseppe Fabiani per l'INPS e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. - In un giudizio promosso da Cotardo Tiziana ed altri (tutti licenziati per cessazione dell'attività aziendale) nei confronti del datore di lavoro, nonchè dell'INPS e del Ministero del lavoro, al fine di ottenere l'accertamento del diritto ad essere collocati in mobilità ex art. 24 legge n.223 del 1991 e la condanna (dell'INPS) al pagamento dell'indennità di mobilità ex art. 7 legge cit., il pretore di Lecce con ordinanza del 18 maggio 1994 ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223 per sospetta violazione degli artt. 3 e 38 Cost.

Premette il pretore rimettente che la procedura di mobilità, prevista dall'art. 4, commi da 2 a 9, legge cit., che condiziona l'iscrizione nelle liste di mobilità (art. 6 legge cit.) e conseguentemente l'attivazione del trattamento previdenziale costituito dall'indennità di mobilità (art. 7 legge cit.), trovano applicazione anche nel caso di licenziamento collettivo in generale (come espressamente previsto dall'art. 24, comma 1, legge cit., che richiama i commi da 2 a 12 dell'art. 4) ed in particolare di licenziamento collettivo per cessazione di attività (quale nella specie quello intimato ai ricorrenti), in ragione del disposto del secondo comma del cit. art. 24.

In tale ultima fattispecie (licenziamento collettivo per cessazione di attività), ancorchè il necessario previo esperimento della procedura di mobilità si esaurisca in adempimenti soltanto formali (quali la comunicazione alle rappresentanze sindacali e all'Ufficio provinciale del lavoro della volontà di cessare l'attività aziendale (artt. 2 e 4) e la successiva comunicazione dell'esaurita procedura contestualmente all'invio dell'elenco dei lavoratori licenziati all'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione al fine della compilazione della lista dei lavoratori in mobilità) non di meno l'inesistenza o il mancato perfezionamento della procedura di mobilità porta alla mancata iscrizione di un lavoratore licenziato per cessazione di attività nelle liste di collocamento; lo stesso lavoratore, pertanto, anche se in possesso del requisito dell'anzianità aziendale previsto dall'art. 16 della legge n. 223 del 1991, non potrebbe aver diritto all'indennità di mobilità atteso che il cit. art. 7 dispone che i lavoratori hanno diritto a tale prestazione previdenziale se (r)collocati in mobilità ai sensi dell'art. 4>. È però di dubbia legittimità costituzionale - ritiene il giudice rimettente - una norma che subordini il diritto ad una prestazione previdenziale (indennità di mobilità) al comportamento di un soggetto (datore di lavoro) estraneo al rapporto di natura previdenziale ed indifferente alle conseguenze economiche del suo inadempimento. Quindi l'art. 7, comma 1, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui prevede che il diritto all'indennità di mobilità possa spettare soltanto ai lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell'art. 4 e non anche a quelli che sarebbero dovuti essere collocati in mobilità, ma che non sono stati iscritti nelle apposite liste, per non avere il datore di lavoro attivato ed esaurito la procedura prevista dall'art. 4, commi da 2 a 12, della legge medesima, nell'ipotesi di licenziamenti collettivi per cessazione di attività.

In particolare sarebbe violato il principio di eguaglianza perchè si creano situazioni sperequate nell'ambito di lavoratori licenziati per lo stesso motivo (cessazione di attività) i quali beneficiano, o meno, della suddetta prestazione previdenziale per il solo fatto che un soggetto, indifferente rispetto ai rapporti che conseguono alla sua condotta, provveda, o meno, al compimento di atti formali, quale appunto è la procedura di mobilità nell'ipotesi di licenziamenti collettivi per cessazione di attività.

Inoltre sarebbe violato anche l'art. 38 Cost. (oltre che ancora all'art. 3 Cost.) perchè non è possibile che una norma faccia discendere il diritto ad una prestazione previdenziale da comportamenti arbitrari di soggetti estranei al rapporto previdenziale.

2. - Si è costituito l'INPS chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. In particolare la difesa dell'INPS osserva che nel caso di mera cessazione materiale dell'impresa - in cui non è neppure prospettabile alcuna misura di salvaguardia dell'occupazione - la disciplina concernente il collocamento dei lavoratori in mobilità e la conseguente speciale tutela garantita dall'indennità di mobilità appaiono incompatibili, e perciò dovrebbe trovare applicazione in favore dei lavoratori licenziati la diversa disciplina concernente il trattamento ordinario di disoccupazione.

Altresì la attribuzione della prestazione di mobilità risulta condizionata non solo dal possesso dei requisiti soggettivi di cui all'art. 16, comma 1, stessa legge, ma anche dal fatto che sia intervenuto un licenziamento legittimo determinato dallo specifico motivo della cessazione dell'attività produttiva, mentre nella specie il licenziamento è stato orale e quindi invalido ed inidoneo a determinare uno stato di disoccupazione giuridicamente rilevante.

Infine rileva la difesa dell'INPS che, ove la mancata attivazione della prestazione previdenziale richiesta sia dipesa da un comportamento omissivo del datore di lavoro, c'è pur sempre a carico di quest'ultimo una ragione di danno risarcibile dei lavoratori licenziati sicchè non è configurabile la lamentata discriminazione.

3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. In particolare osserva che nella fattispecie di riduzione dell'attività aziendale, gli adempimenti a carico del datore di lavoro sono ricollegati ad una complessa procedura cui il datore stesso ha interesse; mentre, nella cessazione di attività, tale interesse di mero fatto viene meno e la legge non prevede poteri sostitutivi (dei lavoratori o delle loro associazioni) per l'attivazione di procedure di mobilità. Non di meno si ha che, qualora i lavoratori per negligenza e per colpa del datore non vengono ammessi ai benefici del trattamento di mobilità, sussiste una responsabilità civile risarcitoria di quest'ultimo.

Considerato in diritto

 

1. - È stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale - in riferimento agli art. 3 e 38 Cost. - dell'art. 7, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223 (recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) nella parte in cui prevede che il diritto all'indennità di mobilità possa spettare soltanto ai lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell'art. 4 e non anche a quelli che avrebbero dovuto essere collocati in mobilità, ma che non sono stati iscritti nelle relative liste per non avere il datore di lavoro attivato od esaurito la procedura prevista dall'art. 4, commi da 2 a 12, della legge medesima, nell'ipotesi di licenziamenti collettivi per cessazione di attività.

In particolare il giudice rimettente ravvisa la violazione del principio di eguaglianza perchè si creano situazioni sperequate nei confronti di lavoratori licenziati per lo stesso motivo (cessazione di attività) i quali beneficiano, o meno, della suddetta prestazione previdenziale per il solo fatto che un soggetto, indifferente rispetto ai rapporti che conseguono alla sua condotta, provveda, o meno, al compimento di atti formali, quale appunto è la procedura di mobilità nell'ipotesi di licenziamenti collettivi per cessazione di attività; ritiene altresì sussistere la violazione dell'art. 38 Cost. (oltre che ancora dell'art. 3 Cost.) perchè non è possibile che una norma faccia discendere il diritto ad una prestazione previdenziale da comportamenti arbitrari di soggetti estranei al rapporto previdenziale.

2. - Vanno pregiudizialmente respinte le eccezioni di difetto di rilevanza sollevate dalla difesa dell'INPS sotto un duplice profilo: da una parte è eccepita l'inapplicabilità della speciale disciplina concernente il collocamento dei lavoratori in mobilità nel caso di cessazione dell'attività aziendale, evenienza questa che renderebbe viceversa applicabile la diversa disciplina del trattamento ordinario di disoccupazione; d'altra parte si deduce che nella specie il licenziamento è inidoneo a determinare un effettivo e giuridicamente rilevante stato di disoccupazione in quanto intimato in forma orale, anzichè scritta.

In ordine al primo profilo dell'eccezione è sufficiente considerare che l'applicazione della disciplina concernente la collocazione in mobilità anche nel caso di cessazione dell'attività è testualmente prevista dall'art. 24, n. 2, della citata legge n. 223 del 1991 senza distinzione fra l'una e l'altra ipotesi di cessazione. La premessa interpretativa, orientata in tal senso, dalla quale muove il giudice a quo è quindi affatto plausibile e la Corte non ha ragione di discostarsene.

Quanto al secondo rilievo è da ritenere che il giudice a quo - nel momento in cui ne dà atto puntualmente e tuttavia ritiene in principio applicabile la disciplina di mobilità - implicitamente aderisce a quella opinione secondo cui nè l'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione (U.R.L.M.O.), nè la Commissione regionale per l'impiego (C.R.I.) hanno competenza a sindacare la legittimità del licenziamento, che può essere fatta valere solo dal lavoratore senza peraltro che l'eventuale impugnazione impedisca la iscrizione nella lista. D'altra parte non risulta dal testo normativo (art. 4 co. 9) che nella comunicazione dell'elenco dei lavoratori in eccesso alla autorità deputata alla formazione delle liste (U.R.L.M.O. e C.R.I.) debba essere specificata anche la forma del licenziamento.

3. - Nel merito la questione non è fondata.

Va considerato innanzi tutto che la censura del giudice rimettente è centrata esclusivamente sul profilo previdenziale del rapporto. Infatti il mancato esperimento da parte del datore di lavoro della procedura di mobilità e la mancata comunicazione (ad opera del medesimo) dell'elenco dei lavoratori collocati in mobilità all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione e alla Commissione regionale per l'impiego (oltre che alle associazioni di categoria), perchè possa essere formata la lista di mobilità di cui all'art. 5, sono (dal giudice rimettente) allegati esclusivamente in quanto (e nella parte in cui) costituiscono impedimento per l'erogazione ai lavoratori licenziati del beneficio dell'indennità di mobilità in base al denunciato art. 7, che, appunto, prevede come requisito soggettivo per la spettanza del beneficio la circostanza che il lavoratore sia stato collocato in mobilità ai sensi dell'art. 4 (oltre ad essere in possesso dei prescritti requisiti di anzianità di servizio).

In relazione alla questione così prospettata si appalesa quindi privo di rilevanza il fatto che sul piano del rapporto di lavoro l'impedimento al beneficio previdenziale possa costituire inadempimento del datore di lavoro, sanzionato dal terzo comma dell'art. 5 con il richiamo della speciale tutela reintegratoria e risarcitoria di cui all'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).

Ed infatti, ove la preclusione al beneficio suddetto e quindi all'insorgenza di un rapporto obbligatorio tra lavoratore assicurato ed ente previdenziale, fosse effettivamente lesiva - come ritiene il giudice rimettente - vuoi del principio di eguaglianza, vuoi del diritto alla tutela previdenziale, non potrebbe questo vulnus ritenersi emendato per il sol fatto della mera esperibilità di una tutela risarcitoria per la perdita del posto di lavoro (non essendo in ipotesi possibile quella reintegratoria predicandosi in tesi la completa e totale cessazione dell'attività aziendale) e neppure dalla parallela insorgenza (in ipotesi) di una ragione di danno proprio per la intervenuta perdita della prestazione previdenziale; ciò per l'incomparabilità dell'asserita compensazione in termini sia soggettivi che oggettivi, essendo tale tutela esperibile nei confronti di un altro soggetto (il datore di lavoro invece dell'ente previdenziale) e per un'altra causa (riferibile alla generale responsabilità per inadempimento invece che all'esatto adempimento di un'obbligazione previdenziale). D'altra parte il carattere asseritamente succedaneo di tale tutela risarcitoria - che comunque è mediata da un giudizio che il lavoratore deve promuovere per la condanna del datore di lavoro - può rivelarsi effimero ed inadeguato proprio in caso di totale cessazione dell'attività aziendale, ove questa si accompagni ad una situazione di insolvenza dell'imprenditore; mentre nel caso di licenziamento collettivo la funzione dell'indennità di mobilità è proprio quella di approntare immediatamente al lavoratore rimasto senza posto di lavoro i mezzi di sussistenza nel breve, e talora nel medio, periodo.

La censura va quindi esaminata esclusivamente con riferimento al profilo previdenziale, prescindendo da quali siano le conseguenze a carico del datore di lavoro per l'eventuale sua inadempienza in ordine a comportamenti elevati a presupposto dell'erogazione della prestazione previdenziale.

4. - In questa specifica prospettiva va poi considerato che, coerentemente all'impianto complessivo della nuova disciplina dell'integrazione salariale e dei licenziamenti collettivi, l'art. 7 necessariamente presuppone - perchè insorga il diritto del lavoratore alla percezione dell'indennità di mobilità - (non già e non solo il mero stato di sopravvenuta disoccupazione, bensì) l'iscrizione nelle liste di mobilità all'esito della procedura di concertazione sindacale di cui all'art. 4 legge n. 223 del 1991 cit.; iscrizione che lungi dal costituire un adempimento meramente formale - comporta uno status per il lavoratore da cui discendono plurime conseguenze strettamente legate alla percezione della prestazione previdenziale.

Ed infatti da una parte è previsto l'obbligo per i lavoratori in mobilità, iscritti nelle apposite liste, di partecipare ai corsi di qualificazione e di riqualificazione professionale organizzati dalle Regioni e finalizzati ad agevolare il reimpiego dei medesimi (art. 6, comma 2, lett. b, legge n. 223 del 1991). D'altra parte è possibile che tali lavoratori siano chiamati a svolgere la loro attività in opere o servizi di pubblica utilità; utilizzo questo (al quale i lavoratori in mobilità non possono sottrarsi) che è disposto dalla Commissione regionale per l'impiego su richiesta delle amministrazioni pubbliche (quarto comma dell'art. 6 cit.). Inoltre ai lavoratori in mobilità si applica (ex art. 8, comma 1, legge n.223 del 1991 cit.) il diritto di precedenza nell'assunzione ai fini del collocamento ordinario; ciò al fine di facilitare il reimpiego con la conseguenza (per l'ente previdenziale) della più rapida cessazione dell'erogazione dell'indennità di mobilità, che rappresenta per l'ente medesimo un aggravio maggiore dell'indennità di disoccupazione. Il lavoratore è poi cancellato dalla lista di mobilità (e conseguentemente decade dal diritto all'indennità di mobilità) ove tenga determinati comportamenti non collaborativi (perchè, in ipotesi, rifiuti di frequentare o non frequenti regolarmente i corsi di formazione suddetti; ovvero non accetti un'offerta di lavoro per mansioni riconducibili a quelle di appartenenza; ovvero non sia disponibile ad essere impiegato in opere o servizi di pubblica utilità; o, infine, non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione alla competente sede dell'INPS del lavoro prestato a tempo parziale o determinato, mantenendo l'iscrizione nella lista). Tali inadempienze comportano la cancellazione dalla lista di mobilità dichiarata dalla Commissione regionale per l'impiego; cancellazione poi che implica, tra l'altro, il venir meno del presupposto della prestazione previdenziale e quindi la sua perdita per il lavoratore non più iscritto. Infine il collocamento in mobilità del lavoratore comporta anche uno speciale onere contributivo a carico del datore di lavoro (art. 5, comma 4, legge n.223 del 1991).

5. - Con l'iscrizione del lavoratore nella lista di mobilità si radica quindi un complesso di rapporti interconnessi, dei quali quello avente ad oggetto l'erogazione dell'indennità di mobilità costituisce il principale, ma non l'unico; sicchè il comportamento inadempiente del datore di lavoro, che abbia omesso di attivare le procedure sindacali e, all'esito delle stesse, di comunicare all'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione l'elenco dei lavoratori licenziati perchè siano iscritti nelle liste di mobilità, incide in realtà sul requisito dell'iscrizione, frustrando l'interesse dei lavoratori a vedersi collocati nelle liste suddette per poter partecipare all'intera disciplina della mobilità ed (in particolare) fruire dell'indennità in questione.

Ma la funzionale connessione tra la percezione della prestazione previdenziale e le ramificate conseguenze discendenti dall'iscrizione nelle liste di mobilità comporta che non sia possibile enucleare la sola indennità di mobilità, disancorandola dall'iscrizione nelle liste suddette e da tutto ciò che dall'inserimento del lavoratore in tale liste consegue, operando una resezione del nesso tra iscrizione ed indennità per agganciare quest'ultima, come richiede il giudice rimettente, soltanto al sopravvenuto stato di disoccupazione con conseguente sostanziale scissione del beneficio dagli oneri. Non sussiste quindi la denunciata disparità di trattamento perchè è giustificata la disciplina differenziata in ragione della sussistente ovvero mancante iscrizione del lavoratore nelle liste di mobilità; viceversa, ove fosse possibile accedere all'indennità di mobilità allegando soltanto lo stato di disoccupazione pur in mancanza di iscrizione nelle liste, si avrebbe una inammissibile disparità di trattamento nell'ambito dei percettori del beneficio tra i lavoratori iscritti e quelli non iscritti, giacchè solo i primi si troverebbero ad essere soggetti ai (sopra indicati) effetti collaterali conseguenti all'iscrizione e non anche i secondi che iscritti non sarebbero. Nè vi è violazione dell'art. 38 Cost. sotto il profilo indicato dal giudice rimettente (della perdita per il lavoratore di una prestazione previdenziale a causa di un comportamento arbitrario del datore di lavoro) perchè dall'inadempimento di quest'ultimo con segue direttamente la mancata iscrizione (ad iniziativa del medesimo) nella lista e - soltanto in quanto mediata da tale mancanza - discende l'ulteriore conseguenza della non percezione del beneficio.

6. - In tale disamina si esaurisce anche lo scrutinio della questione di costituzionalità, essendo essa posta esclusivamente in termini di censura dell'indefettibile nesso che lega l'attribuzione dell'indennità di mobilità all'iscrizione delle liste di mobilità; una volta riconosciuta la legittimità di tale necessario collegamento, non può esaminarsi - in quanto eccedente rispetto al thema decidendum devoluto a questa Corte dal giudice rimettente - la conformità, o meno, a Costituzione della disciplina (non già del presupposto dell'indennità di mobilità, ma) della stessa iscrizione nelle liste suddette (art. 4 cit.) ove si ritenga che l'iniziativa della comunicazione dell'elenco dei lavoratori collocati in mobilità o destinatari di licenziamento collettivo all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione sia rimessa esclusivamente al datore di lavoro.

Non sussistendo quindi nella prospettazione risultante dall'ordinanza di rimessione i vizi denunciati la questione di costituzionalità va di chiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal pretore di Lecce con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 27 luglio 1995.