Ordinanza n. 339 del 1995

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ORDINANZA N. 339

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 89, comma 4, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso con ordinanza emessa l'8 febbraio 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno sull'istanza proposta da Marotta Alberico, iscritta al n. 212 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1995 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

RITENUTO che il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno, dovendo provvedere sulla richiesta di applicazione della misura dell'arresto presso una struttura di recupero formulata da imputato tossicodipendente in stato di custodia cautelare in carcere, ha sollevato, con ordinanza dell'8 febbraio 1995, questione di legittimità costituzionale dell'art. 89, comma 4, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in riferimento agli articoli 3, 27, primo (recte: secondo) comma, e 32, primo comma, della Costituzione; che il giudice a quo muove sia dal rilievo del titolo di reato contestato all'imputato, rientrante tra quelli elencati nell'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, cui la norma impugnata fa rinvio per escludere l'applicabilità dei commi 1 e 2 del medesimo art. 89 e dunque la concedibilità della misura richiesta; sia dalla concomitante impossibilità di modificazione dello status libertatis, nel caso concreto, sul piano della prognosi di pericolosità soggettiva, che non consente di escludere le ragioni di cautela; premesse, queste, in base alle quali la richiesta della misura alternativa dovrebbe essere rigettata; che il rimettente osserva che nel sistema delle misure cautelari personali sono rinvenibili numerosi correttivi alla disciplina generale circa la scelta della misura cautelare da applicare, allorchè la persona da sottoporre ad una di esse versi in determinate condizioni o qualità personali: a norma dell'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, sono richieste esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza" per disporre la custodia in carcere di una persona incinta o che allatta la propria prole, o ultrasettantenne o, ancora, che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione; l'art. 286 dello stesso codice stabilisce la custodia in luogo di cura, anzichè in carcere, nell'ipotesi di infermità totale o parziale di mente; l'art. 286-bis, a sua volta, esclude l'applicazione della misura coercitiva carceraria nei riguardi delle persone affette da infezione HIV e per le quali sussista una condizione di incompatibilità con lo stato di detenzione; l'art. 299, comma 4, del codice, "chiude" infine questo assetto sul piano delle indagini medico-legali finalizzate alla verifica della compatibilità tra le condizioni della persona e la detenzione carceraria; che comune ragione d'essere di queste previsioni è da ravvisare, secondo il giudice rimettente, nella tutela del diritto alla salute, protetto in tal modo da pregiudizi - potenziali o in atto - derivanti dalla custodia carceraria, la cui finalità cautelare pertanto risulta cedevole di fronte a situazioni soggettive peculiari, reputate dal legislatore prevalenti indipendentemente dal titolo di reato in ordine al quale si procede; che, nel raffronto con la disciplina ora accennata, la norma impugnata, che regola - all'esito di vari interventi normativi sul punto - il sistema delle misure cautelari personali quanto agli imputati tossicodipendenti (o alcool-dipendenti) è censurata sia sotto il profilo della irragionevole ridotta protezione del diritto alla salute del tossicodipendente, rispetto agli altri casi ricordati, sia sotto il profilo della ingiustificata discriminazione che essa determinerebbe tra tossicodipendenti imputati di uno dei delitti ex art. 275, comma 3, del codice di procedura penale e tossicodipendenti imputati di reati diversi (per i quali ultimi ritrova piena applicazione il sistema delineato nei commi 1 e 2 dell'art. 89 impugnato, ed è dunque privilegiata la misura alternativa salvo che vi siano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza); che ulteriore profilo di censura della norma impugnata, riferito ai parametri degli articoli 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, è svolto dal giudice a quo nel raffronto con le norme che, regolando gli aspetti esecutivi della pena inflitta a persone tossicodipendenti, accordano più ampia possibilità di accesso a programmi di recupero (art. 90 del d.P.R. n. 309 del 1990, in tema di sospensione dell'esecuzione; art. 94 dello stesso d.P.R., e art. 47 - bis della legge di ordinamento penitenziario n. 354 del 1975, in tema di affidamento in prova al servizio sociale); possibilità viceversa precluse al tossicodipendente imputato di un reato incluso tra quelli di cui all'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, osservando come il tossicodipendente possa comunque usufruire delle norme di esenzione dalla custodia carceraria sia quando le condizioni soggettive risultino in generale con essa incompatibili sia quando si tratti, come è di frequente, di soggetti affetti da infezione da HIV, ha concluso per una declaratoria di non fondatezza della questione.

CONSIDERATO che la norma impugnata - inserita nell'ambito della disciplina penale degli stupefacenti dal decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139 (Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, ma già in precedenza contenuta, nel suo nucleo precettivo, nella disciplina codicistica (art. 275, comma 5, cod.proc.pen.) - costituisce, relativamente alla specifica posizione dell'imputato tossicodipendente, la riconferma della regola posta in via generale quanto a delimitazione della discrezionalità giudiziale nella scelta delle misure coercitive sul piano dell'adeguatezza, allorchè l'imputazione per cui si procede pervenga a livelli di spiccata gravità (art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nel testo modificato dapprima dall'art. 5 del decreto- legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 e poi, specificamente sul punto della preclusione delle misure diverse dalla custodia in carcere, dall'art. 1 del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356); che, rispetto all'anzidetta regola, rappresentativa di una scelta del legislatore orientata nel senso del rafforzamento della tutela delle ragioni di cautela (naturalmente dove sussistenti, o più esattamente dove non verificate insussistenti, ex art. 275, comma 3, ultimo periodo, cod.proc.pen.), le situazioni dedotte dal rimettente come tertia comparationis si pongono come deroghe motivate da esigenze - non sempre o esclusivamente incentrate sulla tutela della salute dell'interessato: si veda l'ipotesi della persona che allatta la prole, o quella dell'ultrasettantenne - comunque diverse da quelle di cui può essere portatore l'imputato tossicodipendente che intenda sottoporsi ad un programma di recupero, per cui le norme corrispondenti risultano inidonee all'utilizzo come termini di raffronto in riferimento al principio di eguaglianza, tanto più nella direzione della richiesta estensione della deroga rispetto alla regola comune agli imputati, tossicodipendenti o meno; che d'altra parte, in rapporto all'asserita lesione del diritto alla salute del tossicodipendente, occorre sottolineare la piena applicabilità degli istituti assunti a termini di raffronto nell'ordinanza di rinvio, anche in favore dell'imputato tossicodipendente, per cui le più ampie possibilità di accesso a misure cautelari gradate, in presenza di situazioni di non compatibilità tra stato di custodia carceraria e condizioni di salute personali, non sono certo ostacolate dalla specificità della condizione di tossicodipendente, che il rimettente intenderebbe far assurgere a condizione favorita sul piano della disciplina del processo; che inoltre è di tutta evidenza la manifesta infondatezza della prospettata lesione del principio di eguaglianza quanto alla comparazione tra tossicodipendenti imputati di un reato ex art. 275, comma 3, del codice di procedura penale e tossicodipendenti imputati di un diverso reato, attesa l'assoluta disomogeneità dei termini posti a raffronto proprio sul piano della considerazione della gravità del fatto e della pericolosità soggettiva desumibile da certi delitti piuttosto che da altri; considerazione anch'essa riservata alle scelte del legislatore, certamente non irragionevoli nella specie, alla luce della catalogazione contenuta nel citato articolo 275, comma 3, del codice; che analogo rilievo di disomogeneità degli istituti posti a raffronto con la norma impugnata deve essere mosso quanto alle richiamate previsioni concernenti il trattamento in executivis del condannato tossicodipendente, essendo manifestamente diversa la condizione personale implicata (di imputato in un caso, di condannato nell'altro) e la funzione (cautelare, ovvero emendativa e retributiva, rispettivamente) dei corrispondenti istituti evocati; che il rilievo che precede vale altresì a far ritenere del tutto improprio il riferimento dell'ordinanza di rinvio al parametro costituzionale della presunzione di non colpevolezza, estraneo all'assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà che operano sul piano cautelare e strumentale, non riconducibile alla pena (sentenze n. 342 del 1983, n. 15 del 1982 e n. 1 del 1980); che, in conclusione, sotto ogni profilo dedotto la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 89, comma 4, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 27, secondo comma, e 32, primo comma, della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/07/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 20/07/95.